Yemen

Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 109 – Aprile 2003

YEMEN: ARABIA FELIX ?

Un viaggio in moto è un’evasione da tutto!!!
Ho appena concluso una trattativa telefonica di lavoro, il tempo di infilarmi il casco e l’abbigliamento da moto, e mi ritrovo lanciato sull’autostrada con una sola idea in testa:
il nuovo viaggio che sta incominciando.
Il clima è rigido: le dita delle mani mi fanno male e i piedi sono paralizzati, l’aria è frizzante.
Niente di strano: sono nel nord Italia e fra pochi giorni è Natale.
Nei primi chilometri i soliti dubbi sull’efficienza della moto  e sulla buona salute del pilota, poi, come per magia, la mente si libera da tutte le perplessità ed è una volata, quasi in apnea, da
Milano a Roma.
Mi imbarcherò con la moto, su un comodo aereo, che in poche ore mi trasporterà nello Yemen.
Sull’ aereo conosco il gruppo che dividerà con me il viaggio. Atterriamo a Sanaa.
All’aereoporto l’accoglienza è cordiale e, sbrigate le pratiche doganali, con uno scalcinato taxi  raggiungiamo l’hotel Sultan Palace, un tipico funduq situato nella stupenda,  antica  Sanaa.
Le camere sono spartane: non ci sono letti tradizionali, ma solo materassini a terra. Dalle splendide finestre con vetri colorati possiamo ammirare la città. E’ molto tardi e la stanchezza si fa sentire: ci abbandoniamo ad un sonno profondo.
Alle 5,30 il muezzin ci sveglia: l’altoparlante a tutto volume della moschea è a pochi metri dall’albergo, venti minuti dopo  incomincia la preghiera. Siamo tutti in piedi: buon giorno Yemen!
Ci attendono le noiose pratiche per il ritiro delle moto, poi, quando è tutto pronto, non si trova la chiave per aprire il portone del magazzino cargo e un po’ di nervosismo ci assale. Finisce tutto davanti ad una tazza di the bollente. Finalmente in sella alle moto attraversiamo la città.
Dopo aver parcheggiato le moto nel cortile del Sultan Palace Hotel, entriamo a piedi nella città vecchia. E’ sera, le strette vie sono buie, illuminate fievolmente dalle finestre a vetri delle abitazioni. Le donne sbucano dal nulla come fantasmi, ricoperte completamente dai loro abiti neri. La medina è fantastica: centinaia di finestre, ognuna diversa dalle altre, ci indicano il cammino. La nostra “guida” è un ragazzotto di nome Abdullah Hamed: dorme in strada nelle vicinanze del nostro funduq, è un po’ “suonato”, ma molto cordiale e simpatico. Sapremo più tardi che, in seguito ad una forte botta in testa subita anni fa, ha dei terribili vuoti di memoria. E’ molto felice di accompagnarci ovunque, rifiuta in un primo momento di cenare con noi, poi, su nostra insistenza, finalmente si siede  in una tipica locanda del centro.
Anche questo locale è spartano: pochi tavoli e sedie, la tovaglia è composta da alcuni fogli di giornale, non ci sono le posate, e le bibite arrivano da un locale vicino. Il cibo  è semplice, ma ottimo: il pane senza lievito cotto come una pizza e servito caldo, le uova fritte con spezie, i fagioli stufati, poi la carne di pollo o di montone.
Partiamo all’alba per Ma’rib, una cittadina a centottanta chilometri da Sanaa. Appena usciti dalla città ci attende una scorta militare, che teoricamente ci accompagnerà per tutto il viaggio, in pratica cambierà ogni ottanta cento chilometri.
La strada è disseminata di posti di blocco militari, alcuni protetti da possenti carri armati. Secondo me non c’è un vero e proprio pericolo. Ad un certo punto alcuni militari salgono sulle nostre moto divertiti.
Incontriamo una zona desertica, la visibilità è buona, anche se una leggera foschia creata dalla sabbia alzata dal vento vela l’orizzonte. Ma’rib è stata la capitale dell’antico regno di Saba, interessante la grande diga e l’antico villaggio ormai in rovina.
Lasciata la scorta militare termina l’asfalto ed entriamo nel deserto: mancano solo venti chilometri alla tenda dei beduini che ci ospiteranno per la notte.
Pochi chilometri, ma da incubo. E’ buio, il terreno cambia continuamente: sabbia molle all’inizio, poi pietre, poi di nuovo sabbia. Finalmente la tenda è in vista: una donna anziana ci attende e ci prepara la cena a base di riso.
Chiediamo se è possibile avere della carne di capra. La donna ci accompagna direttamente nella stalla: da queste parti la capra si compra viva.
Gli animali sono molto sani. Chiediamo: “quanto costa?”  “10.000 Rial “ la risposta (poco più di 50 Euro). Ci guardiamo attorno, e con la scusa che è troppo cara, rinunciamo volentieri alla capra.
La notte trascorre lenta, sdraiati nei nostri sacchi a pelo, una leggera brezza scuote il nostro riparo.
E’ giorno, il sole splende su di noi …e sulla capra graziata. La cosa ci rende felici.
Partiamo, il fondo è sabbioso, dopo pochi chilometri arriviamo in vicinanza di alcune dune di sabbia, un vero e proprio parco giochi per il motociclista.
Durante la sosta per il pranzo, scattiamo alcune foto con il simpatico Akmed, il beduino alla guida del pick-up, ben felice di prestarci il suo Kalasnjikov AK47. Con raccapriccio ci accorgiamo che il fucile di Akmed è carico ed ha il colpo in canna.
Questa gente è veramente abituata alle armi: tutti i maschi portano con fierezza la “jambiya”, il coltello ricurvo inserito nella cintura simbolo di virilità e, chi può permetterselo, l’inseparabile Kalasnjikov che incute rispetto.
La media delle armi in questo paese è incredibile: tre armi pro capite! Compresi i neonati!
Acquistare un fucile o altro nei vari mercati delle armi è facilissimo ed i prezzi sono alla portata di tutti: AK 47 di fabbricazione russa o cinese 120 USD, un caricatore con 30 cartucce 15 USD.
Viaggiamo aperti a ventaglio per non respirare la sabbia sollevata dagli altri mezzi che ci precedono, la velocità è elevata: 100 km/h !!!
Ad un certo punto Akmed si ferma e ci consiglia di seguirlo in fila indiana: attenzione, pericolo di mine!!!
Seguiamo scrupolosamente i suoi consigli attraversando la zona di circa 20 km che ci separa dalla strada asfaltata: è completamente disseminata di rottami bellici abbandonati durante l’ultimo conflitto fra nord e sud.
Arrivati alla”civiltà” ci fermiamo in un locale per il pranzo, la gente seduta sul pavimento e senza scarpe ci accoglie con cordialità offrendoci piatti di carne di cammello.
Ripartiamo per Say’un, nella valle dell’Hadhramawt, il wadi più lungo della penisola Arabica. Si estende per 160 km ed è fertilissimo.
Sulla strada, rimaniamo sbalorditi dalla bellezza di Shibam, la più celebre città araba islamica costruita in stile tradizionale con i suoi palazzi alti anche 6/7 piani di mattoni di fango e legno.
Arriviamo a Say’un, la cittadina è la più grande della valle, il palazzo del sultano situato nel centro, vicino al suq, è gigantesco. La cena è ottima. Cordialissimi i locali, soprattutto con le nostre ragazze. Pernottiamo in uno squallido hotel con piscina: le zanzare ci divorano.
Visitiamo la cittadella di Tarim, famosa per le sue 365 moschee, una per ogni giorno dell’anno, ed i molti palazzi; particolarmente bello è il palazzo al-Kaf.  Oggi è Natale e ci dividiamo alcuni dolci italiani: come è lontano babbo Natale, il presepe, l’albero,  i re magi, l’oro. Per  l’incenso e la mirra invece ci siamo.
Partiamo all’alba per Al Mukalla, la strada per alcuni chilometri è agevole ed asfaltata, attraversiamo al Mashhad, un bel villaggio arroccato su un ripido pendio, famoso anche per il miele, poi ci infiliamo nel Wadi Daw’an uno sterrato abbastanza impegnativo. La pista prosegue per Sif, una polverosa località. Il fondo è ciottoloso e segue il letto di un fiume in secco, poi entriamo in un canyon mozzafiato. Nei campi circostanti, alcune donne completamente coperte di nero, con dei cappelli di paglia altissimi, lavorano la terra o sorvegliano il bestiame al pascolo.
Io, Paolo e Gianluca perdiamo i contatti con il resto del gruppo; molto probabilmente esiste una pista parallela alla nostra. Attraversiamo numerosi villaggi pittoreschi, chiedendo continuamente informazioni sulla direzione da seguire: la gente è molto cortese.
Ci fermiamo in un paesino, il caldo è soffocante, chiediamo acqua, ci viene indicato una rivendita “tuttofare”: bibite, biscotti, verdura, frutta, gelati e, ben in  evidenza, scatole metalliche piene  di cartucce da vendere sfuse, come fossero caramelle.
Ripartiamo, ormai convinti di ritrovare il resto del gruppo solo al prossimo posto di blocco militare. La strada incomincia a salire, lo sterrato si fa duro, le moto arrancano, ma dopo pochi chilometri siamo in cima.
Il paesaggio è maestoso: la pista sterrata abbastanza larga percorre un altopiano desertico. Di tanto in tanto sparuti villaggi appaiono per incanto, pochissime le jeep incontrate.
Non abbiamo problemi, l’unica preoccupazione è che non abbiamo attrezzature per un’eventuale sostituzione dei pneumatici in seguito a forature, ed il nostro abbigliamento è estivo, mentre la temperatura incomincia a scendere.
La strada attraversa un passo di montagna e poi, finalmente, l’asfalto. Fa molto freddo e dalla fitta nebbia spunta un posto di blocco dei militari. Non abbiamo lasciapassare, spieghiamo al comandante che ci siamo persi in montagna. I militari ci consigliano di aspettare il resto del gruppo.
Cala la  notte. Fa freddo, i militari telefonano nelle varie stazioni di montagna. Finalmente abbiamo notizie. Alcune forature, prima la moto di Andrea poi la jeep di Alì, la guida, hanno bloccato i nostri amici, che,  saggiamente hanno deciso di dormire in un funduq per evitare di guidare con il buio su strade sterrate già molto impegnative di giorno.
Finiamo per dormire da un meccanico gommista, che offre l’unico giaciglio dei paraggi.
Si tratta di un magazzino senza finestre con portoni metallici. Le moto vengono portate all’interno. Dentro c’è un vero mondo: gomme nuove e vecchie, materassi, coperte, ferri di ogni genere, carcasse di automobili. Ci stendiamo a terra su alcuni materassini di gomma piuma, le coperte non mancano. Stranamente tutti i militari, armati fino ai denti, dormono con noi. La sensazione è strana, comunque si dorme con le luci accese. A mezzanotte il generatore viene staccato ed è buio pesto. Penso a Gianluca che dorme dietro a me, che non ha tolto gli stivali pronto alla fuga in caso di pericolo e mi viene da ridere. Poi penso che se dovrò correre sarà lui a ridere di me.
Ci alziamo tardi, il resto del gruppo arriverà solo verso mezzogiorno.
Rimettiamo a posto la nostra “camera” e dietro alcune coperte spuntano armi di tutti i generi, ormai ci siamo abituati, ma alla vista di una mitragliatrice pesante antiaerea, con tanto di colpi pronta all’uso, rimaniamo stupefatti.
Finalmente il gruppo si ricompatta, abbracci fraterni come se non ci vedessimo da un anno, Letizia ha le lacrime agli occhi. Si parte.
La nebbia è fittissima e fa un freddo cane, la costa dista circa cento chilometri. Una jeep militare ci guida ad una folle velocità di 10 km/h. La strada è scivolosa, numerosi sono gli incidenti, nello Yemen  la nebbia è una rarità. Scendiamo da un altopiano, finalmente la costa è in vista. La nebbia si alza, ma piove fitto, a tratti la strada è allagata, in vista l’Oceano Indiano.
Ripariamo l’ennesima foratura di Andrea. Come se non bastasse anche il camion che trasporta i bagagli è finito fuori strada: l’autista, con la sua faccia da khmer cambogiano, ci racconta di aver perso il controllo del mezzo perché seguiva con lo sguardo un’auto che rotolava nel burrone!!!!
Entriamo ad Al Mukalla preceduti dalla jeep militare con la sirena accesa. La gente ci guarda incuriosita e saluta. Arriviamo ad un modesto hotel, 3000 rial (25 euro) per una camera doppia. Inizia una trattativa, la spunta il nostro Renato, da buon Salernitano per 2500 rial, colazione compresa.
La città vecchia non è male: belle alcune case in stile indiano, ottima la cena, a base di pesce in un ristorante del centro. Da uccidere il cuoco, che è riuscito a bruciare un fantastico pesce.
Ripartiamo all’alba, dopo aver aspettato la nostra immancabile scorta militare. La costa all’inizio è rocciosa, poi si trasforma in un deserto di dune bianche, talvolta molto alte. L’oceano è calmo, il cielo, prima coperto, si apre e si colora di un azzurro intenso. La temperatura è estiva. In cima ad un valico, due scheletri di carri armati abbandonati nell’ultimo conflitto dominano una valle desertica coloratissima. Dopo aver percorso 130 km arriviamo a Bir Ali, un villaggio di pescatori. La spiaggia è bianchissima e l’acqua trasparente  è invitante.
Il bagno nelle calde acque dell’oceano è molto rilassante. Poi arrivano brutte notizie: la scorta militare non può proseguire. Siamo bloccati. Solo dopo estenuanti trattative in napoletano stretto e tutto il savoir-faire  di Renato possiamo ripartire per Habban, un villaggio sull’altopiano.
E’ buio, mancano 50 km, la strada è infida, non si vede nulla; guidare in moto di notte da questa parti è rischioso, ma non abbiamo scelta.
Finalmente arriviamo ad Habban. Non esiste un vero e proprio funduq, l’unico del villaggio è stato chiuso anni fa. Trattiamo con i locali. Ci “affittano” un “camerone”  al primo piano di una casa per 1000 vecchie lire a testa, sopra un ristorantino. La scala a chiocciola in ferro, per arrivarci, è da panico.
Tolgono un po’ di sporcizia depositata sul pavimento da secoli, ci consegnano dei precari materassini ed il gioco è fatto. Dormiremo in questa “suite imperiale” in 12!!!
Discreta la cena, il conto è alto, il solito Renato “risolvogniproblema” mette tutto a posto: alla fine sconto 50%.
Di fianco alla nostra “camera” c’è una specie di ritrovo. La televisione è chiusa in una gabbia di ferro, ed i clienti sono seduti sul pavimento a fumare. Sembra di essere tornati indietro di 100 anni. La notte è un incubo: zanzare a volontà, caldo soffocante. Andrea se ne va a dormire nel cassone del camion, Gianpiero dorme su una specie di griglia da barbecue e Paola si chiude ermeticamente nel suo sacco a pelo tipo “super polar” garantito fino a –30° C, di lei rimane visibile solo una treccia.
Ripartiamo presto, la strada sale, il cielo si copre, pioviggina e fa freddo. Michele scivola con la sua fiammante Transalp rossa su una macchia di gasolio. Niente di grave, per fortuna. A parte alcuni danni alla moto, se la cava con leggere escoriazioni che gli danno un aspetto da vero motociclista incallito.
Ripartiamo, guidando con apprensione. Inizia un passo di alta montagna. L’ingegnere che ha progettato i tornanti con una pendenza assurda doveva aver qualche rotella fuori posto, oppure si era comprato la laurea.Scende un nebbione da fare invidia alla pianura padana, che ci mette in difficoltà. Finalmente arriviamo in cima. Il solito posto di blocco militare ci aspetta: cordialissimi i militari. Arriviamo a Dhawran in tarda serata: buono l’albergo per 5 euro  a persona.
E’ una fredda mattina, il sole splende, il cielo è turchese, e … Andrea ha di nuovo forato!               Ci dirigiamo a sud, verso Jiblah, una delle ex capitali degli altipiani Yemeniti. La strada lascia rapidamente l’altopiano per salire su un superbo passo a 2800 metri. Il panorama è fantastico: piccoli villaggi arroccati sui pendii della montagna, terreno coltivato su terrazze, asfalto perfetto, curvoni perfetti. Grande divertimento per i motociclisti.
Scendiamo ed arriviamo a Jiblah: il paese è un incanto. Ci accompagna una ragazza vestita di nero, parla un italiano perfetto, dice che lo ha imparato dai turisti. E’ dolcissima e ci apre tutte le porte per visitare il villaggio. La gente è molto cordiale e posa volentieri per le foto di rito. Un altro si presta per le foto all’interno della bellissima moschea della regina Arwa, purtroppo interdetta ai non islamici. Entriamo nell’hammam, in un labirinto di stretti corridoi collegati da porticine. Lasciamo questo villaggio con molta malinconia. Avevamo un permesso di visita limitato ad un’ora soltanto. I militari ci informano che proprio questa mattina un pazzo scatenato ha ucciso alcuni medici americani  ed alcuni  yemeniti in un ospedale nelle vicinanze.
Una Jeep con mitragliatrice  rinforza la nostra già numerosa scorta. Ci accompagnerà fino a Sanaa.
Arrivati al Sultan Palace, l’accoglienza di Abdullah Hamed è commovente. Salta sulla moto e mi abbraccia, più tardi ci regalerà del pane. Cibo donato da chi non ne ha.
Appena il tempo per parcheggiare le moto, prima di visitare il  vecchio suq. Il mercato è suddiviso per articoli: il legno, Il qat ( la droga afrodisiaca che tutti gli yemeniti maschi consumano giornalmente più o meno all’ora del the), la jambiya, le spezie. Nel tardo pomeriggio il suq è molto affollato di donne che acquistano. Incrocio spesso il loro sguardo. Nei loro occhi c’è tutto lo Yemen: la dolcezza, la bellezza, la curiosità nei confronti degli stranieri, la luce, la complicità, il mistero.
Si parte per il nord poco dopo l’alba,  accompagnati  dalla inseparabile scorta, l’andatura è lenta. Arriviamo ad Huth, un villaggio a 110 km. Ho l’impressione, che la popolazione sia più povera che nel resto dello Yemen. Ci fermiamo per il pranzo. La cucina mi incuriosisce. Il cuoco mi invita ad assistere alla preparazione  di uno dei piatti tipici: il salta. Su un fornello alcune ciotole di pietra si arroventano, completamente vuote. Il cuoco prende una ciotola e la mette sopra una specie di lanciafiamme verticale. Vi aggiunge farina di ceci, uova, verdura, spezie, carne, grasso di montone e brodo ed in pochi secondi il piatto è pronto.Il colore non è invitante, ma il sapore non è male.
Lasciamo Huth. Appena fuori dal centro abitato, inizia una pista polverosa, in alcuni punti attraversa un fiume in secca, in altri lambisce piccoli villaggi. All’orizzonte si intravede la meta: Shihara, chiamata anche nido d’aquila, per la sua posizione arroccata in cima ad un monte.
In un tratto polveroso, Andrea cade rovinosamente con la sua moto, la jeep di Alì inavvertitamente gli ha tagliato la strada. Il risultato è catastrofico: il radiatore della sua BMW F 650 è rotto. Tutto sembra compromesso, ma dopo due ore di lavoro, un miracolo: la moto funziona!
Arriviamo ai piedi della montagna ormai  stanchissimi. Alcuni di noi scelgono un comodo pick-up per salire a Shihara. Altri armati di tanto coraggio optano per la scalata in motocicletta.
All’inizio è una normale salita, poi, la strada si trasforma in una mulattiera molto impegnativa ed insidiosa. Le pendenze sono da capogiro. Arriviamo in cima al tramonto, il panorama è spettacolare.
Ci attende un tipico funduq in pietra di alta montagna, la cena è ottima, l’ospitalità anche. Oggi è l’ultimo giorno dell’anno. Per ingannare il tempo, la nostra scorta ci insegna i primi rudimenti dell’uso del Kalasnjikov, con la promessa che domani dalla teoria si passerà alla pratica.
Scendiamo nella piazza principale del paese poco prima di mezzanotte. L’intenzione è di chiamare con il cellulare i nostri amici in Italia. Non si vede un palmo.
Improvvisamente due guardie sbucano dal nulla e decidono di accompagnarci. Qualcuno deve aver raccontato a loro che il cellulare è una specie di radio che va “puntato” nella  direzione in cui si vuole telefonare. Uno mi chiede: “Da che parte è l’Italia? A nord ovest rispondo io. E lui: “Seguitemi”. Ci accompagna su uno strapiombo incredibile e improvvisamente il telefono prende la linea. Salutiamo i nostri gentili amici.
E’ l’alba del nuovo anno. Il paese è illuminato da una luce abbagliante. L’azzurro intenso del cielo contrasta il giallo ocra delle case. Shihara è un villaggio fortificato che per millenni ha resistito a tutti gli assalti degli invasori. Passiamo sopra un antichissimo ponte di pietra. La veduta è mozzafiato: tutta la montagna è coltivata a terrazze di qat, piccoli villaggi arroccati sulle montagne circostanti sbucano dalle nuvole e sembrano sospesi nel nulla.
Ci aspetta una camminata di tre ore. Arriviamo alla base esausti e con le gambe indolenzite.
Partiamo per Sa’da. Inaspettatamente la mia moto non parte. E’ un piccolo problema elettrico che mi trascino dall’Italia. Il gruppo se ne va, nessuno si accorge che sono fermo. Finalmente riesco a partire. Nessuno in vista. Mi ricordo vagamente la strada da percorrere. La mia moto su questi fondi sterrati è fantastica. Aumento l’andatura cercando di rientrare nel gruppo, le sospensioni assorbono incredibilmente le asperità del terreno, il motore gira bene. Mi sembra di volare, attraverso villaggi e campi coltivati, la strada si allarga e  fa caldo.
Esco dallo sterrato in una nuvola di polvere. Mi ritrovo esattamente davanti alla locanda del giorno precedente. Degli altri, nemmeno l’ombra.
Un gruppo di ragazzotti mi assale, più incuriositi dalla moto che da altro. Uno, che avrà non più quindici anni, estrae la sua jambiya e fa il gesto di bucarmi la ruota davanti. Un uomo anziano gli si avvicina e gli allunga un ceffone. Mi chiede scusa e mi da il benvenuto: “Welcome!”
Penso fra me: impulsività giovanile ed anziana saggezza.
Decido di aspettare il gruppo da un benzinaio. La polizia mi sta cercando. Partiamo tutti per Sa’da.
Sa’da è una cittadina circondata da antiche mura molto ben conservate, interessante il mercato, da non perdere la grande moschea del XII secolo.
Ripartiamo verso sud, il paesaggio è tipicamente di montagna. Ad Amran imbocchiamo una pista sterrata. In pochi minuti saliamo a 3000 metri.  All’inizio incontriamo parecchie pietre, poi, la pista diventa agevole. La nostra media è buona. Attraversiamo villaggi da fiaba, incontriamo spesso greggi di pecore e capre che tornano dal pascolo accompagnati da donne e bambini.
In poco tempo arriviamo a Thula, un villaggio in pietra dominato da una fortezza e ben conservato.
Il funduq nella piazza principale è molto caratteristico ed accogliente. Dormiamo tutti in una stanza all’ultimo piano. Gli abitanti sono abituati al turismo e sono abbastanza fastidiosi. Disposti a tutto pur di farci visitare i loro negozi.
Partiamo in tarda mattinata per visitare il villaggio di Hababah, arroccato su una montagna. Pernottiamo nel funduq di Shibam. Una donna con gli occhi verdi ci serve con grazia la cena. E’ alta e nonostante sia completamente coperta non può nascondere le sue curve sinuose. Solo dopo la nostra partenza, la guida Alì ci confesserà della stupefacente bellezza della donna.
Sconosciuto  il suo nome, mi resterà solo il ricordo dei suoi bellissimi occhi.
Sulla strada del ritorno ci fermiamo per una breve sosta nel wadi Dhahr, una valle fertile, costellata di piccoli villaggi e frutteti e visitiamo il Dar al-Hajar un edificio costruito su una roccia, diventato quasi il simbolo dello Yemen. Arriviamo a  Sanaa. Abdullah Hamed ci accompagna felice ad un ristorante. L’indomani sbrighiamo  le pratiche per la spedizione delle moto in Italia
E’ l’ultimo giorno. Sono sulla terrazza della galleria di arte contemporanea, sotto di me la città delle mille e una notte. L’ora x è arrivata. Il sole è appena tramontato,  il cielo si tinge di viola ed un leggero vento fresco mi fa rabbrividire. Parte dal primo minareto la preghiera della sera, in pochi attimi, gli fanno da eco altri centinaia di minareti. Dalla terrazza vicino alcuni fedeli pregano inchinandosi in direzione della Mecca e dietro alcune finestre delle donne velate mi fissano con i loro occhi inquietanti. Finisce così, la mia avventura nello Yemen e si chiude così il sipario su questa città e sul suo popolo: il vero protagonista di questo viaggio.