Dal mio libro: Le Moto Raccontano
Varanasi, dicembre 2008
Un cane color caffellatte dal pelo ispido si è accovacciato e dorme tranquillo lungo una delle tante strade che attraversano le pianure dell’India. Una cosa normale, se non fosse che il giovane cucciolo riposa proprio a cavallo delle due corsie in mezzo alla strada. Immagino che il quadrupede non si renda conto e che la sua non sia una sfida al caotico traffico indiano, ma una casualità. Rimane il fatto che se ne sta lì tra il polverone della stagione secca e lo strombazzare dei camion, dei bus, delle auto e delle motociclette. Se non fossimo in India non avrebbe scampo. Ma da queste parti finché i guidatori si accorgeranno di lui lo eviteranno. La vita è sacra. Se invece non lo vedranno, non avrà scampo e finirà schiacciato. Le strade dell’India sembrano tutte uguali: lunghi rettilinei ben pavimentati e rilassanti che attraversano sterminate campagne, poi, all’improvviso sparuti villaggi che si materializzano dallo smog e vetusti e sconnessi pavé che annunciano il traffico caotico di tuk tuk, biciclette, risciò, mucche sacre ciondolanti e luccicanti bufali neri. Questa però non è una strada qualsiasi. E’ la strada che conduce a Varanasi. In India tutte le strade conducono a Varanasi, la città santa degli Indù, la città Eterna in cui dimora Shiva. Considerata la più antica città del mondo sorge sul triangolo delimitato dal Gange e dai suoi affluenti Varana e Asi. Il Gange è il cuore di Varanasi, è la Madre Ganga che purifica dai peccati e allontana le sofferenze. Basta dare una rapida occhiata per accorgersi che la vita scorre solo lungo la riva occidentale, fra i numerosi ghat, le scalinate che conducono migliaia di fedeli al sacro fiume, il Gange, per le abluzioni, che i templi, i palazzi e le guglie si elevano solo da un lato mentre l’altra sponda desolata e senza vita è considerata impura.
Alba: Nebbia e Cenere.
Le piccole imbarcazioni di legno a remi partono alle cinque e mezza. Notte fonda. La nebbia fittissima e il freddo entrano nelle ossa. Non si vede a un palmo e il silenzio è interrotto solo dallo sciacquio dei remi che si tuffano nelle nere acque del fiume. All’improvviso un’orgia di rumori ci investe dagli invisibili ghat, distanti solo pochi metri. Campane, tamburi e canti tra raggi di luce rossastra che incendiano la foschia. Sembra di essere in uno di quei film di Hitckook tanto inquietante da far accapponare la pelle, invece sono solo le preghiere del mattino. Di tanto in tanto, sbucano dall’oscurità, trasportati dalla corrente, centinaia di piccoli cestini di carta colmi di fiori e illuminati solo dalla flebile luce di una candela. Sono le offerte che i fedeli regalano alla madre di tutti i fiumi, il Gange, che ora sembra inghiottire l’oscurità. E’ l’alba! La luce trionfa. Le case, i templi, seppur ancora velati dalla nebbia incominciano ad essere visibili. Prendono forma anche figure umane che lavano pesanti stoffe sbattendole sulle levigate pietre che affiorano vicino alla riva del fiume. La barca ci deposita sulla minuscola spiaggia del crematorio di Manikarnika. Lo spettacolo è terribile. Alcuni individui, aiutati da un bastone, stanno rimescolando le ceneri ancora fumanti di ciò che resta delle pire funerarie, in cerca di qualcosa. Insieme agli umani ci sono anche i cani che frugano nel mucchio, mentre una capra, che sfoggia un’elegante felpa grigia, rosicchia con gusto un pezzo di legno. Un gruppo di paria, la casta addetta alle cremazioni, lavora freneticamente per preparare nuove pire. Il sacro fuoco delle cremazioni deve ardere perennemente. Solo le mucche, calme e rilassate come sempre, riposano accovacciate sui gradini in mezzo ad enormi e ordinate cataste di legna. Otto o novecento chili di legna, costano l’equivalente di un centinaio di euro e costituiscono un buona pira. Una buona pira consente la totale cremazione di un corpo in una decina di ore. A giudicare dall’abbondanza delle ceneri, il crematorio ha lavorato a pieno regime. A pochi metri dalle ceneri, che presto verranno gettate nel Gange, alcuni pescatori sono in frenetica attività per la preparazione delle esche per la pesca. Mentre poco più in là, il corpo in putrefazione di un uomo compie il suo ultimo viaggio trasportato dalla corrente. Non tutti hanno la possibilità economica di essere cremati. I poveri, le donne incinte, i lebbrosi, gli sadhu, i bambini, quelli passati a miglior vita in seguito a un morso di serpente e altre eccezioni non hanno il diritto di finire in cenere, quindi vengono gettati direttamente nel Gange. Risaliamo in barca e ci allontaniamo dal crematorio. Le acque del sacro fiume adesso creano un uniforme e melenso colore grigio con la foschia del cielo. Lo stesso colore delle ceneri.
Giorno: Il Fuoco.
Girare per Varanasi con un taxi è praticamente impossibile. Il traffico è caotico e il più delle volte si è fermi in colonna in mezzo al caos. Meglio affidarsi ai tuk tuk che si infilano da tutte le parti a suon di clacsonate e tamponamenti, ma anche con questi mezzi ad ogni sosta si è assaliti dai mendicanti e dai venditori che sembra si siano divisi la città secondo le loro esigenze. Ci sono “agili” storpi che si avvicinano barcollando sostenuti da vetuste grucce, i ragazzini funamboli che con grande abilità improvvisano giravolte e capriole acrobatiche seguendo il ritmo di un tamburello che un compagno ha costruito con materiali di recupero, poi, gli incantatori di serpenti e… il serpente è sempre un cobra e… mi domando: “Ogni sera questo individuo va a dormire con un cobra sotto il letto?” Non mancano nemmeno quelli che fanno ballare la scimmia e se non molli qualche rupia la scimmia si incazza, e i venditori di ogni genere di mercanzia. Molti sono finti mendicanti che mettono in scena ogni giorno quello che sanno fare e lo fanno per vivere, ma alcuni sono veramente messi male. Basta guardare con più attenzione e non si può non vedere chi non ha l’uso delle gambe e si trascina su un carrello di legno o chi ha ferite terrificanti sulle mani o la lebbra, oppure quelli che invece non hanno neanche la forza di chiedere qualcosa e se ne stanno seduti in disparte in un angolo. Chi sopravvive a tutto questo arriva a uno sbarramento dove è consentito solo proseguire a piedi. Nella zona pedonale, c’è l’assalto all’arma bianca dei procacciatori dei negozi, barche, santoni, massaggi, cambiavalute, alberghi, ristoranti, taxi e guide di ogni genere. A questo punto se non vi è ancora venuto un attacco di panico e riuscite a controllare la voglia irrefrenabile di strangolare qualcuno siete arrivati nei labirinti della città vecchia. Le case sono così alte e le vie tanto strette che il sole non si vede mai. E’ fresco, ma manca l’aria. Le mucche e i bufali sono così numerosi che spesso bisogna farsi da parte per lasciare loro libero il passaggio. Ad ogni angolo uno scorcio di vita quotidiana: un gruppo di bambini che si rincorrono in una piazzetta circondata da muri color indaco; anziani seduti tranquillamente a conversare sui gradini davanti all’uscio di case “aperte” che mostrano gli arredamenti semplici ed essenziali dei letti di corda, tavoli rustici e sedie spaiate. Numerosi e minuscoli sono anche i negozi che vendono braccialetti in argento, sari in seta, verdura, frutta, bevande e alimenti. E’ un’orgia di colori, un miscuglio di odori di incenso profumato, fritture infernali, puzze maleodoranti di fogne e dello sterco degli animali. Sono però le donne, che indossano coloratissimi ed eleganti sari, che trasformano questo posto in un luogo magico e senza tempo. Trovarsele di fronte nei vicoli cariche di mercanzie e armate di sorrisi che disorientano è sempre un piacere. “Quando le donne smetteranno di indossare sari e le mucche non gireranno più indisturbate per le vie anche l’India sarà cambiata inesorabilmente”, scriveva Terzani. Usciamo dal labirinto. La strada precipita verso i ghat e il fiume. Abbiamo solo pochi secondi per gustarci i raggi del sole alto nel cielo, la luce abbagliante e il caldo. Solo un attimo, poi, nuvole nere e dense di fumo e cenere ci avvolgono. Sono cinque le pire ardenti. Le fiamme sono talmente alte che il caldo è insopportabile. Ma non è il caldo che colpisce. E’ il crematorio in piena attività che lascia sgomenti e che smarrisce. Da una parte, la testa di un uomo sbuca dalle fiamme. E’ intatta, serena, quasi compiaciuta. Da un’altra parte invece sbucano solo i piedi attaccati agli arti ormai completamente carbonizzati. Un gruppo di sei paria, sorveglia i falò ed interviene ributtando tutto ciò che non brucia nelle fiamme con un bastone. Gli spettatori invece sono tanti. Alcuni sono turisti, altri solo curiosi. Qualcuno ha preso posto in prima fila e fissa impietrito le pire aspettando l’istante in cui il corpo verrà dissolto dalle fiamme. Altri invece conversano tranquillamente come fossero al bar. Un macabro spettacolo teatrale, interrotto solo, quando il primo attore, la morte, entra in scena trasportata a spalla su una lettiga di canne di bambù. Un silenzio incredibile, interrotto solo dal crepitare della legna, cala sul ghat. Ma è solo un attimo, poi quando la salma viene immersa nelle acque purificatrici del Gange, tutto ricomincia come prima. Colpisce la curiosità morbosa della gente che assiste alle cremazioni. Forse la morte degli altri è una sorta di esorcismo che allontana la propria. Il cadavere viene svestito dei drappi arancio, il colore di Varanasi e posto sulla pira. Alcune volte un paria colpisce violentemente con un bambù la testa della salma per permettere all’anima di uscire dal corpo e salire in cielo. Poi, il corpo senz’anima, un inutile contenitore vuoto, viene dato alle fiamme. Chi muore a Varanasi beneficia della Moksha e blocca finalmente il ciclo delle rinascite e raggiunge direttamente il Nirvana. Esiste anche un altro aspetto, forse il più orribile, del crematorio di Varanasi. Le fotografie sono assolutamente proibite per rispetto nei confronti del defunto e della religione. Sono perfettamente d’accordo! “Seri e onesti” controllori si aggirano per il crematorio ripetendo fino alla nausea: “No foto, no foto” e poi, con un sorrisetto malizioso, ti invitano su un terrazzo in prima fila per la foto ricordo: pagamento anticipato! In cima alla scalinata del ghat di Manikarnika si trova un luogo in cui, secondo la tradizione, Parvati lasciò cadere un orecchio e Shiva per recuperalo scavò una vasca che riempì con il sudore. Lasciamo il crematorio e torniamo alla vita. I ghat brulicano di migliaia di fedeli che fanno il bagno nelle scure acque del Gange. E’ difficile comprendere il rapporto profondo che lega gli indù al fiume. Questo fiume, una divinità che ha abbandonato il mondo degli dei per scorrere attraverso l’India per dare la possibilità ai fedeli di purificarsi nelle sue acque. C’è chi beve o si lava i denti, chi si immerge completamente e compie i riti per purificarsi dai peccati. Non si può evitare di pensare al livello elevato dell’inquinamento del Gange e a tutti i batteri che contiene, eppure ogni giorno più di cinquantamila fedeli scendono dai ghat della città per compiere le sacre abluzioni. Vestiti, seminudi o nudi non importa e non c’è vergogna, ma solo gioia, perché la morte e la vita a Varanasi sono semplici accadimenti.
Tramonto: La preghiera.
All’imbrunire lasciamo il Nepali Temple decorato con sculture a soggetto erotico che troneggia sopra il Meer ghat. Le giornate d’inverno sono corte e c’è un’ora, poco prima del crepuscolo, in cui tutti i pellegrini, i turisti e i curiosi si ritrovano sul ghat di Dasaswamedt per la Puja, la preghiera. All’evento partecipano migliaia di persone. I controlli della polizia sono molto severi e prima di entrare nel ghat è obbligatorio passare attraverso il metal detector. La cerimonia è intensa, vibrante e ricca di suoni. I canti dei fedeli salutano gli dei, il sacro Gange e Shiva, mentre i bramini spargono l’incenso e gli sadhu, avvolti nei sacri abiti color arancio e rosso, intonano i sacri mantra. Il colore dell’abito simboleggia che stanno attraversando la vita, dopo avere abbandonato ogni bene terreno, avvolti nelle fiamme, e per questo motivo dopo la morte il loro corpo non verrà bruciato. Gli sguardi degli sadhu sono incredibilmente colorati. Ce ne sono alcuni veramente grotteschi completamente arrotolati nei drappi arancio e oro strappati ai cadaveri prima della cremazione. La preghiera finisce con la benedizione dei pellegrini in preghiera a mani giunte davanti al sacro fiume. E’ la fine di un giorno.
L’India non finisce mai di stupirmi. Ogni volta che visito questo paese mi trovo di fronte molti contrasti e sono sempre in bilico tra amore e odio, attrazione e nausea. Ci sono momenti in cui vorrei essere altrove, ma sono solo attimi, poi la voglia di India prevale su tutto. La vera forza di questo paese sta nella gente. E’ pur vero che ho incontrato persone che per un pugno di rupie avrebbero venduto anche l’anima, ma la serenità con cui gli indiani affrontano la vita è disarmante e arriva diretta al cuore. Visitare l’India è come entrare in una grossa centrifuga che ogni volta riesce a tirarti fuori qualcosa di nuovo che era parcheggiato dentro di te e non voleva uscire. Varanasi per gli Hindù è il centro del mondo, un’antenna che collega direttamente con il divino. In un mondo in cui non c’è più nemmeno il tempo per pensare, dove tutto corre a mille all’ora, l’India riesce ancora a farti viaggiare nell’universo che sta dentro di noi. Solo conoscendo bene noi stessi sapremo cosa fare. Sono convinto che l’umanità stia attraversando un periodo storico di transizione. Dopo secoli di scoperte geografiche e scientifiche adesso sia sprofondata in una sorta di limbo. Un luogo in cui non succede quasi nulla, una specie di letargo. Mi auguro che l’umanità si svegli e comprenda che solo il fatto di esistere e di vivere su questo pianeta sia un miracolo. Un po’ come il nostro cucciolo dal pelo ispido color caffellatte. Gli basterà svegliarsi e togliersi dalla strada. Avrà davanti a se una vita meravigliosa.