Turchia e Iran

Dal mio libro: Le Moto Raccontano

Turchia – Iran, agosto 1997

Io sono un pezzo di storia della motocicletta. Sono la mitica BMW R 80 GS Paris/Dakar, anno di fabbricazione 1986. Il mio incontro con Tawil è stato a dir poco casuale.
Reduce da un’impegnativa galoppata in Marocco, dove aveva incontrato Giovanni e Silvana una coppia di Bassano del Grappa, Tawil stava cercando una moto con una posizione di guida più consona alla sua statura fisica. Gli incontri della strada saldano forti amicizie più che in qualsiasi altra occasione e una volta tornati a casa al contrario degli “amorazzi” estivi che finiscono, continuano. Un’amicizia fondata non sulla frequentazione giornaliera, ma fatta di incontri dettati dalla voglia di vedersi, di discutere di mete lontane. In uno di questi incontri, casualmente, Giovanni e Tawil erano finiti in un concessionario di Vicenza dove in vetrina c’era in bella mostra un vecchio ma ambito modello di BMW. La trattativa non era nemmeno iniziata. Tawil aveva chiesto: “quanto costa?” Il proprietario aveva risposto: “Mi spiace, non è in vendita”. E la cosa era finita lì. Un mese più tardi, i due amici si erano sentiti telefonicamente e Tawil aveva confidato a Giovanni il desiderio di fare un viaggio in Iran con una moto adatta. Giovanni senza batter ciglio aveva detto: “Se vuoi, chiedo se la vecchia R 80 è in vendita, e, se è disponibile ad un prezzo equo, la blocco.” Neanche il tempo di pensare, che una telefonata da Bassano del Grappa confermava: “E’ tua! Puoi venire a prenderla quando vuoi”.
La prima impressione che ho avuto dal mio nuovo proprietario appena salito in sella e inforcata l’autostrada Venezia Milano, è che fosse di scarsa soddisfazione nel riguardo del nuovo acquisto, vale a dire io. Aveva l’abitudine di guidare una più potente e tecnologica K 100 RS. Il confronto non mi dava certo ragione ad incominciare dalla frenata lunga, dalle forcelle morbide e ballerine e dall’ammortizzatore posteriore obsoleto. Per il resto “il Lungagnone” mi sembrava abbastanza soddisfatto. Di me gradiva la posizione di guida con le braccia alte e tese in avanti e il rumore rasserenante del mio propulsore che non spingeva granché secondo lui, ma che gli aveva colpito la fantasia tanto da soprannominarmi fin dal primo giorno “Frullatore”. Del mio proprietario ho sempre ammirato la grande passione per le due ruote e la forte convinzione nello studio e nella realizzazione di un progetto. Il progetto, vale a dire il viaggio di questa estate, era particolarmente stimolante e nello stesso tempo anche impegnativo. L’Iran dopo la caduta dello Scia e la rivoluzione Komeinista si stava da poco proponendo al mondo esterno, ma un conto era andarci con un comodo volo aereo, tutt’altra cosa era andare e tornare via terra con una motocicletta. Per la preparazione della sottoscritta aveva avuto un colpo di fortuna nel trovare Tenconi, un bravo ed esperto meccanico che aveva apportato una modifica all’impianto frenante, aggiungendo un disco anteriore e sostituendo la pompa sottodimensionata con una più potente, sostituendo le flaccide molle delle forcelle davanti con materiali più moderni e cambiando l’ammortizzatore ormai esausto con un nuovo gioiello Ohlins. Tutto era pronto. L’estate del Nord Italia era entrata nel suo massimo turgore. Ci attendevano gli spazi sconfinati dell’Asia e un caldo asfissiante. Nessun problema per una bicilindrica raffreddata ad aria come la sottoscritta, ma al “Lungagnone” abituato alle Alpi svizzere riuscirà il miracolo di trasformarsi in un “Feroce Saladino?”
Salah-al-din aveva scelto di evitare la ex Yugoslavia ancora con qualche problema etnico, per una comoda nave che da Ancona ci avrebbe trasportati verso Igoumenitsa, in Grecia.
Sbarchiamo nella terra di Ulisse poco prima dell’alba. La temperatura è fresca e la strada poco affollata. Dopo pochi chilometri ci lasciamo alle spalle anche le poche auto che sono sbarcate con noi e ben presto ci troviamo sui ripidi pendii che conducono in cima al Passo di Katara. Le Meteore sono il luogo ideale per trascorrere la prima notte del viaggio. Incontriamo una giovane coppia diretta in Turchia su un’anziana Yamaha Tenerè. Decidiamo di viaggiare insieme fino ad Istanbul. Il Feroce Saladino non ha mai visitato la vecchia Costantinopoli e questa potrebbe essere l’occasione giusta per vedere la città sul Bosforo. Questa città per molti secoli è stata la capitale del mondo. Istanbul è la vera metropoli di questa nazione anche se da quasi ottant’anni è Ankara la capitale turca. Affacciata sul Bosforo in posizione strategica la città rappresenta oggi il centro culturale e commerciale del paese. Accostare la vecchia Bisanzio dal Mare di Marmara e vedere all’orizzonte le sagome degli esili minareti e delle cupole tondeggianti delle moschee è un’emozione forte. Chi invece arriva dall’autostrada come noi, superato il casello di alcuni chilometri rimane annichilito davanti all’imponenza delle vecchie mura. Superata la Porta di Edirne si entra nel cuore della città. Salah-al-din, aiutato dal suo amico Giovanni che conosce molto bene la città, ha prenotato dall’Italia un albergo molto grazioso. E’ una vecchia villa in stile ottomano, a pochi passi dalla porta di Edirne, in cui sono state ricavate sette camere. L’unico neo sta nel fatto che in questo albergo non esiste un parcheggio. Di conseguenza le mie notti saranno tutte in compagnia dei passanti, del marciapiede e delle preghiere del Muezzin della vicina Moschea di Kariye. Girare in moto una città con più di dieci milioni di abitanti non è facile. La difficoltà sta tutta nel traffico caotico, nello smog e nel caldo infernale. Per quanto riguarda l’orientamento, grazie ai turchi disponibili e cortesi, invece non è un problema. La città è divisa in due parti dall’ampio canale del Bosforo. I quartieri in cui si concentra la maggior parte degli alberghi, ristoranti e monumenti si trovano nella parte europea sulla riva occidentale. Il Corno d’Oro divide a sua volta la parte europea di Istanbul in due settori, la città vecchia a Sud e il quartiere di Beyoglu a Nord. La città vecchia corrisponde a Bisanzio/Costantinopoli/Istanbul. Nella zona compresa tra la Punta del Serraglio, una piccola sporgenza affacciata sul Bosforo, e le colossali mura cittadine, si trovano i grandi palazzi, le moschee più importanti, le colonne monumentali, le chiese antiche e il mercato coperto. Un altro punto di riferimento della città è il nuovo ponte di Galata, costruito nel 1992 dove sorgeva la vecchia struttura ottomana sostenuta da pontoni che collega i quartieri di Eminonu e Karakoy. Nella città vecchia si trovano a pochi passi uno dall’altro il palazzo del Topkapi, Aya Sofia, la Moschea Blu, l’ippodromo e la basilica cisterna. Il Palazzo del Topkapi è stato per quasi tre secoli la residenza dei sultani e testimone dell’impero ottomano. La Chiesa della Divina Sapienza (Sancta Sophia in latino, Haghia Sophia in greco e Aya Sofia in turco) non è dedicata a un santo bensì alla sofia vale a dire la sapienza. La basilica fu costruita dall’imperatore Giustiniano nel 548 e rappresentò il santuario più imponente della Cristianità fino alla conquista di Costantinopoli avvenuta nel 1453 ad opera di Mehmer il Conquistatore che ne prese possesso in nome dell’Islam. Aya Sofia divenne una moschea per quasi cinquecento anni. Nel 1935 Ataturk, l’eroe nazionale turco che abolì il sultanato a favore della prima repubblica turca, la dichiarò museo. Decisione estremamente saggia se si pensa che tanto i cristiani quanto i musulmani avrebbero desiderato che fosse un luogo di culto della propria religione. La Moschea Blu conosciuta anche con il nome di Sultan Ahmet Camii vale a dire la moschea del sultano Ahmet fu costruita tra il 1606 e il 1616, pur inferiore ad Aya Sofia, rappresenta un’opera architettonica straordinaria. Molto interessante anche la Yerebatan Saray vale a dire la basilica cisterna. L’enorme cisterna bizantina costruita da Giustiniano è larga settanta metri e lunga centoquaranta metri. Il suo soffitto è sostenuto da 336 colonne, una di queste ha il capitello alla base invece che all’estremità, anomalia diventata motivo d’attrazione turistica. Un altro luogo gremito dai turisti è il Gran Bazar o mercato coperto, un gigantesco labirinto di strade lungo le quali si trovano più di 4000 negozi. Visitiamo anche la più grande moschea di Istanbul, vale a dire la moschea di Solimano il Magnifico e la graziosa moschea di Rustem Pascia. Verso il tramonto Saladino si dirige verso il Caffè Pierre Loti, un locale da cui si gode uno stupendo panorama della città. Situato in un dedalo di vicoli, in cima ad un promontorio il caffè è circondato dal cimitero di Eyup.
Chi attraversa il nuovo ponte autostradale non solo si lascia alle spalle l’immensa Istanbul, ma dice addio anche all’Europa. Dopo un centinaio di chilometri scoppia un violento temporale che ci costringe a ripararci in una stazione di servizio. Ripartiamo appena in tempo, complice un inaffidabile indicatore del livello del carburante della moto di Monica, per rimanere senza benzina. Risolviamo il problema travasando alcuni litri del prezioso liquido dal mio serbatoio prima in una bottiglia di plastica poi nel serbatoio dell’assetata Yamaha. Superiamo la capitale Ankara e puntiamo verso Sud per una sosta in Cappadocia. Nevsehir, una città di cinquantamila abitanti, è il luogo ideale per visitare la città sotterranea Dirinkuyu che significa pozzo profondo. Ci spostiamo verso Est dove inizia il paesaggio sabbioso e ondulato tipico della Cappadocia e le strane formazioni rocciose dei camini delle fate. E’ giunto il momento di salutare la simpatica coppia di motociclisti italiani che si fermeranno ancora qualche giorno per visitare Urgup, Zelve e la valle di Gorene, mentre io ed il Feroce Saladino, dopo una breve sosta per vedere lo strano promontorio roccioso crivellato di gallerie e finestre di Uchisar, ci dirigiamo verso “la conquista” dell’Anatolia Orientale e Sivas che raggiungiamo in tarda serata. Questa città ha origini antichissime: i romani la chiamarono prima Megalopolis, poi Sebastea, infine i turchi abbreviando il suo nome la chiamarono Sivas. Interessante il centro storico ed alcuni dei suoi edifici che risalgono al 1200 come i minareti gemelli la Sifaiye Medresesi vale a dire la scuola di medicina e ospedale che risale allo stesso periodo e la grande moschea Ulu Cami con le sue cinquanta colonne che è ancora più antica. Continuiamo il nostro viaggio verso Est incontrando convogli militari sempre più lunghi e numerosi. Il loro superamento non è sempre facile, poi è sufficiente una sosta per qualche scatto fotografico per farci ritrovare ancora una volta dietro i convogli appena superati. Saladino saluta tutti i militari che incontra che ricambiano con cordialità. La maggior parte di loro non supera i vent’anni. Facce allegre cariche di preoccupazione per la situazione curda sempre più complicata e spinosa. Erzurum, con i suoi 1800 metri sul livello del mare, è la più grande città dell’altopiano Anatolico. Ha un aspetto un po’ sinistro da posto di frontiera, ma colpisce anche per il calore della gente nei confronti degli stranieri, le donne che portano il velo ed il numero elevatissimo dei militari in circolazione. Mentre Salah-al-din sta caricando i bagagli sul mio portapacchi, il proprietario dell’albergo si avvicina incuriosito: “Dove sei diretto?” “In Iran” risponde Tawil. “Caro amico ti aspetta un lungo viaggio. Ti auguro tanta fortuna.” “Grazie, ne avrò bisogno. Ho con me un porta fortuna che mi ha regalato Caterina, la mia compagna. E’ qui vicino al mio cuore, in questa tasca e… porca miseria, l’ho perso.” L’albergatore molto colpito dall’affermazione e dalla faccia smarrita del Feroce Saladino aggiunge: “Non preoccuparti, accetta questo piccolo omaggio. E’ l’occhio di Allah. Vedrai ti porterà fortuna.” Tawil adesso è più sereno. Partiamo. La strada che conduce a Kars si inerpica in una zona panoramica ricca di campi coltivati, mandrie di bovini, greggi di pecore e parecchi posti di blocco che non c’è modo di evitare. Ad un controllo un ufficiale dopo aver controllato il passaporto di Salah-al-din e i documenti della sottoscritta chiede a bruciapelo: “Dove vai?” “Kurdisthan” risponde Tawil. “No Kurdisthan, solo Turchia” ribatte il militare. La statale ad un certo punto esce dalle lussureggianti valli montane e dalle foreste sterminate di abeti per entrare in una vasta zona di steppe ondulate. Entriamo a Kars che oltre al castello ed a un numero stratosferico di militari ha ben poco da offrire. Troviamo una specie di albergo in centro dove il gestore consiglia a Saladino di incatenarmi a un blocco di cemento proprio davanti all’ingresso. Tawil si è fermato in questa città solo per visitare le rovine di Ani. Per visitare Ani, che è vicinissima al confine con l’Armenia, bisogna avere il permesso delle autorità turche. Si inizia compilando un modulo all’ufficio turistico, poi bisogna portarlo e farlo timbrare ai poliziotti con la divisa verde del Direttorato della Sicurezza, infine è necessario acquistare il biglietto al museo di Kars perché ad Ani non esiste biglietteria. Con i preziosi documenti in tasca partiamo per questo imperdibile sito archeologico. Usciti dalla città, lasciamo immediatamente l’asfalto per una strada sterrata che in poco meno di cinquanta chilometri ci condurrà a destinazione. Il paesaggio è spoglio, ma spettacolare. Superiamo il villaggio di Ocakli Koyu adagiato in mezzo a sterminati campi di grano che ci accompagnano fino alle mura della cittadella. Durante il periodo sovietico Ani era inserita nei settecento metri della terra di nessuno controllata da Mosca. Per fortuna oggi la situazione è cambiata e al Feroce Saladino basta mostrare il biglietto d’ingresso e il passaporto per entrare nel sito. Ani è una specie di città fantasma adagiata a pochi passi dalla gola che delimita il confine tra la Turchia e l’Armenia. Il primo impatto è sbalorditivo: le rovine dei grandi edifici sparse in un mare di erba stepposa testimoniano che in passato questo luogo era abitato da più di centomila persone. Lasciamo in fretta questo posto magico perché è in arrivo un violento temporale. La tempesta ci insegue a grandi falcate per una trentina di chilometri, poi ci inghiotte in un mare di lampi, tuoni e secchiate d’acqua. In alcuni momenti le saette sembrano sul punto di abbrustolire il mio luccicante manubrio insieme al Feroce Saladino, ma spavento a parte, raggiungiamo l’albergo. Da Kars a Dogubayazit sono meno di cento chilometri, ma Tawil, che ha la faccia di uno che non ha chiuso occhio per tutta la notte, ha deciso di partire all’alba. Leggo nella sua mente tutti gli incubi che lo hanno assillato durante la notte e del trambusto degli avventori dell’hotel che hanno reso impossibile il suo sonno. Dogubayazit è una città polverosa. Alle spalle ha una catena di montagne spoglie e frastagliate mentre davanti ha una distesa di campi di grano e pascoli. All’estremità settentrionale di questa zona pianeggiante si erge il Monte Ararat con i suoi 5165 metri, un cono vulcanico coperto di ghiaccio e sempre avvolto da nuvole scure. Questo monte, fin dalla notte dei tempi, è ritenuto quello in cui si posò l’arca di Noè. Interessante anche la residenza di Isak Pasa, un complesso che combina una moschea, un palazzo e una fortezza appollaiato su un cocuzzolo che domina la città. Se di giorno Dogubayazit è una città normale abitata da persone normali, di notte si trasforma in un fortino inviolabile guardato a vista da due blindati e dai suoi abitanti armati di Kalashnikov. Incontriamo due giovani motociclisti italiani. Massimo e Claudio, per gli amici Click e Ciocio, sono partiti da Savigliano una settimana fa con le loro moto cariche di bagagli e speranze, incontreranno le rispettive compagne a Tehran e si dirigeranno in India. Ci diamo appuntamento al confine iraniano per la mattina seguente. La coda in dogana è impressionante. Centinaia di camionisti incolonnati che aspettano il loro turno per entrare nel paese di Komeini. Superate le formalità turche facciamo la conoscenza con le forze militari iraniane. Il problema sta tutto nel comprendere chi sia la persona giusta per il controllo dei documenti e soprattutto in quale ufficio andare, per il resto i tanto temuti iraniani e la loro proverbiale severità con gli stranieri sono poca cosa. Superiamo la dogana in tre ore. Ci aspettavamo, dopo un’Anatolia selvaggia e piena di tensione, un Iran altrettanto militarizzato, invece, a parte i numerosi posti di blocco militare, abbiamo subito capito che siamo in un paese di gente cordiale e simpatica e piena di curiosità nei confronti degli stranieri. Tawil guida il gruppo dei tre motociclisti italiani. Convinto di pilotare il suo “frullatore” vale a dire Io alla supersonica velocità di centoventi chilometri orari, che sarebbe un bell’andare su queste strade, non sospetta minimamente che il mio sballato contachilometri bari clamorosamente di quaranta chilometri orari in più. Arriviamo nella torrida Tabriz nel tardo pomeriggio con Salah-al-din e gli altri saraceni sudati e stanchi e le Mie Compagne di viaggio, una potente BMW R 1100 GS e una Honda Africa Twin, sprofondate nella noia e nel torpore grazie alla lenta andatura del Feroce Saladino che non ha permesso loro di inserire nemmeno la quarta marcia. Tabriz è famosa per il suo bazar e per la Moschea Blu che risalgono al 1500. La moschea è stata ridotta piuttosto male dai numerosi terremoti che si sono abbattuti in quest’area. Tawil, dopo avere salutato i due amici piemontesi che puntano sulla capitale Tehran, si dirige verso le regioni del Caspio. Lungo la tortuosa, ma spettacolare strada di montagna che conduce ad Ardebil incontriamo numerosi lavori in corso. In uno di questi, lungo più di venti chilometri, siamo costretti ad attraversare un tratto in cui gli addetti ai lavori hanno steso un manto di catrame liquido e fumante. Il risultato? Salah-al-din ha sporcato irrimediabilmente i pantaloni e gli stivali mentre la sottoscritta avrà le due testate del motore intaccate dal catrame per l’eternità. Il clima fresco della catena montagnosa su cui svettano i 4800 metri del Kuh e Sabalan lascia in fretta il posto al caldo umido di Astara e del Mar Caspio. Percorriamo la strada litoranea fino a Bandar Anzali e facciamo sosta per la notte a Ramsar nell’omonimo albergo che domina la città. La fitta vegetazione delle foreste dell’Alborz arrivano in questa zona fino al mare. Lasciamo la regione del Mazandaran per entrare nella regione della capitale Tehran. Piombare dalle fresche cime montane nel caos di una metropoli come Tehran può essere un’esperienza indimenticabile in tutti i sensi. Si passa dal terribile traffico strombazzante immerso in una caldana di smog oltre ogni immaginazione, alle vie che, dopo la rivoluzione islamica di Komeini, hanno cambiato nome e nessuno sa darti un’indicazione, all’affascinante l’impatto con chi vive in questa città e ti accoglie con un sonoro “welkome” e pur di aiutarti sale su qualsiasi mezzo motorizzato o non e ti accompagna di persona all’albergo che altrimenti non avresti mai trovato. Tehran oggi è abitata quasi da quindici milioni di persone e se le cose non cambieranno nei prossimi anni diventerà una delle città più popolate del pianeta. La città ha molto da offrire. Interessante il museo del vetro e della ceramica. Imperdibile il museo archeologico Iran é Bastan. Conoscere Tehran significa anche fare una visita al cuore commerciale della città vale a dire il bazar e per gli amanti dei tappeti obbligatoria una puntatina al Museo Farsh. Per chi invece vuole accostarsi all’islam può visitare la grande moschea Emam Khomeini. Il Feroce Saladino deve incontrarsi con un iraniano conosciuto mesi fa ad una mostra milanese che ci accoglie a braccia aperte e che diventa la nostra guida in questa caotica, ma rivoluzionaria città. Approfittando della incredibile ospitalità persiana Salah-al-din chiede all’amico iraniano dove potrebbe acquistare un tappeto. L’indicazione ci porta in un grande negozio gestito da un abile venditore che, dopo una breve trattativa vende a Tawil un tappeto Nain di buona fattura con un rosone centrale color azzurro intenso ad un prezzo onesto. Riprendiamo il nostro viaggio solitario verso una delle città più interessanti del paese. Isfahan colpisce per il fresco azzurro delle piastrelle smaltate in netto contrasto con il calore torrido del paesaggio e per la sua atmosfera molto rilassata. Finora non mi era mai capitato di entrare in uno spazio enorme come la piazza Meidun è Emam e di trovarmi di fronte a tanta bellezza. Le piastrelle azzurre della Masjed è Emam vale a dire la moschea, cambiano tonalità a seconda delle condizioni di luce, cosicché questo gioiello architettonico appare con un volto diverso in ogni ora del giorno. Fantastico anche il ponte dei trentatre archi che collega i due tratti della Kheyabune Chahar Bagh. Ci spingiamo ancora una volta, l’ultima, verso Sud per visitare Shiraz. Trenta chilometri prima di entrare in città facciamo una deviazione per visitare uno dei siti archeologici più famosi del mondo. Persepoli fu costruita da Dario il Grande che eresse questo complesso di palazzi. In persiano questo sito si chiama Takht è Jamshid, Trono di Jamshid. Le rovine che si vedono oggi sono solo pallide ombre di quello che doveva essere questa città prima che venisse data alle fiamme da Alessandro il Grande nel 331 a.C. La cosa più interessante oggi è lo splendido rilievo che decora le scale dell’immenso Apadana, il palazzo dove i re tenevano udienza e ricevevano i visitatori. Riprendiamo la bella strada asfaltata per Shiraz. Entriamo in città seguendo un gradevole viale alberato che ci conduce nella cittadella fortificata di Karim Khani. Nel mondo medioevale islamico Shiraz era una delle città più importanti. In questa città nacquero e vissero i due poeti persiani più famosi Hafez e Sa’dì ed entrambi hanno il loro mausoleo. Grazie ai suoi numerosi artisti e studiosi il nome di Shiraz è divenuto sinonimo di cultura, poesia, rose e vino. Entriamo in uno dei più famosi bazar iraniani. Il Vakil Bazar, vale a dire il bazar del reggente, costruito per volontà di Karim Khan ha il soffitto a volta in mattoni che assicura nel suo interno una temperatura fresca nonostante le torride temperatura di questo periodo. Salah-al-din vaga da due ore tra negozi di tappeti e souvenir vari. Sta cercando qualcosa, forse un oggetto dell’artigianato locale. In una minuscola vetrinetta ci sono centinaia di monili in ferro e argento e decine di pietre con incisioni. Ad un certo punto afferra una pietra color caramello di forma circolare con delle scritte in arabo. “Sto cercando un potente talismano” dice al venditore stupito. “Pensi che mi porterà fortuna” ribatte Tawil ormai convinto dell’acquisto. “Se tu ci credi ti porterà sicuramente tanta fortuna” risponde il negoziante, poi commenta “Le scritte su questa agata non lasciano dubbi sul fatto che oltre a portarti fortuna questa pietra protegga chi la indosserà in ogni luogo. I nomi incisi sono quelli di Allah, Ali, Mohammed, Hassan, Hossein e Fatima, vale a dire Dio e i suoi profeti”. “E’ proprio quello che cercavo” conclude il Feroce Saladino. Con questo potente amuleto al collo Tawil si sente più vicino all’islam. E’ il momento giusto per visitare la moschea del reggente che è a due passi dal bazar ed ammirare le due grandi sale aperte rettangolari ed il meraviglioso cortile interno circondato dai portici decorati con belle piastrelle. Interessante anche la moschea Shoada vale a dire dei martiri con il suo immenso cortile di undicimila metri quadrati. Imperdibile anche la tomba del “Re della Lampada” Sayyed Mir Ahmad fratello dell’iman Reza con le sue piastrelle di vetro abbaglianti. Anche la tomba del poeta Hafez conosciuto come “colui che può recitare il Corano a memoria” è da non perdere. Non ne valeva la pena di spingerci fino al Golfo Persico per vedere Bandar Bushehr avvolta in una cappa umida dal calore insopportabile, ma il Feroce Saladino voleva assolutamente vedere il mare. Stiamo attraversando una delle zone più ricche di petrolio dell’Iran. Non c’è molto da vedere ad Ahwaz, una città industrializzata, c’è solo da ricordare che è stata sotto le bombe irachene per tutta la durata della sanguinosa guerra che ha sconvolto questa parte del mondo per anni. Puntiamo decisamente a Nord. Prima di svoltare verso la città di Bakhtaran, con grande stupore abbiamo visto un cartello che indicava Baghdad a soli quattrocento chilometri. Gli abitanti di Bakhtaran sono quasi tutti di origine curda. Questa città è un’ottima base di partenza per visitare i bassorilievi di Bisotun e Tagh è Bostan. Hamadan, abitata prevalentemente da persiani, si trova su un altopiano situato sotto la vetta del Kuh è Alavand. La città non offre granché, ma il clima è molto gradevole. Stiamo andando forte, con tappe di cinquecento chilometri al giorno. Questa è una delle aree, dal punto di vista paesaggistico, più belle dell’Iran. Mentre attraversiamo una zona boschiva un gruppo di giovani Pasdaran, i militari iraniani, dalle barbe nere e ispide, ci ferma. Un giovane in divisa ha preso il passaporto del Feroce Saladino ed è scomparso da mezz’ora lungo il sentiero che entra nella fitta boscaglia. Arriva dalla stessa parte un altro militare che ci “invita” a seguirlo. Il sentiero finisce in una radura davanti ad una piccola caserma. L’edificio, apparentemente disabitato, formato da un unico locale a pian terreno ospita un’intera compagnia. Dall’unico ingresso esce un fetore di piedi da stendere un dinosauro. Salah-al-din, che rischia lo svenimento per asfissia, deve entrare per ritirare il passaporto, ma un attimo prima di superare la soglia fatale gli si para davanti un’altro militare con i documenti in mano che chiede severo: “Walter is your name?” “Yes my name is Walter” risponde Tawil. “Sì, Salah-al-din ossia il Feroce Saladino” aggiungo io. “You from Italy?” “Yes!” “Which city?” “Mozzate!” “Mozzate near Milano?” “Yes!” “Milano A.C. Milan?” “Yes.” “Baresi, Maldini?” “Yes.” A questo punto l’intera compagnia si lascia andare ad un boato da stadio dopo un gol nel derby. Il Milan in Iran è molto conosciuto. Tutta la nazione ha seguito le partite di campionato e di Coppa dei Campioni dei rossoneri. Salah-al-din “finalmente” ha varcato la soglia della caserma. Uscirà dopo più di un’ora sudato fradicio, ma felice. I “terribili” Pasdaran hanno festeggiato insieme all’inaspettato ospite “milanista” le ultime fantastiche imprese della squadra milanese con dolci tradizionali al miele e zam zam ghiacciata, la coca cola prodotta in Iran. Attraversiamo velocemente il Curdistan che in Iran si chiama Kordestan e la città di Saanandag, per dirigerci a Nord. Un programma vero e proprio non esiste. Il Feroce Saladino per ora si sta solo godendo il paesaggio. Verso il tramonto siamo in vista del lago Daryace ye Orumiye e solo in questo preciso istante Salah-al-din decide di girare a destra invece che a sinistra. Maraghè, che significa “luogo in cui sguazza la bestia” situata sulle pendici del monte Kuh e Sahand ha origini antichissime. Per un breve periodo fu la capitale mongola della dinastia di Il-Khanid che preferì questo posto perché offriva migliori pascoli ai loro cavalli. Oggi Maraghè è rinomata per la sua ottima uva senza semi. A parte il nome inquietante è un posto tranquillo per passarci una notte. Nell’albergo che ci ospita però, questa sera impazza la festa di una giovane coppia di sposi che con duecento invitati non lesina certo in balli, schiamazzi e abbondanti libagioni. Per farla breve il Feroce Saladino dopo una notte in bianco, stanco sì, ma allegro per aver fatto la conoscenza con questo popolo sempre pronto ad accogliere cordialmente gli stranieri, sotto gli occhi esterrefatti di una parte degli invitati alle cinque di mattina sistema i bagagli sul suo frullatore, vale a dire me, e parte verso valle. La temperatura, visto che siamo sulle pendici del monte Kuh e Sahand, alto ben 3710 metri, è molto gradevole, ma non si vede a un palmo dal naso. La stretta strada secondaria, che conduce verso il lago, oltretutto è appena stata asfaltata con un nerissimo asfalto che mimetizza perfettamente centinaia di pecore dello stesso colore accovacciate sul manto stradale. E’ come entrare in un campo minato: impossibile superare i dieci chilometri orari! Raggiungiamo il lago con le prime luci dell’alba e dopo tre ore entriamo in una addormentata Tabriz. Grazie ad Allah Grande e Misericordioso invece Salah-al-din è sveglio ed evita scrupolosamente i tombini della città che sono sprovvisti del coperchio. Tutti! Risaliamo verso il confine turco ad una andatura più che decorosa. Nessuno ci rincorre, ma abbiamo una specie di appuntamento con una coppia di motociclisti di Torino che stanno rientrando in Italia e una guida iraniana che ci darà assistenza in frontiera. Oggi Hossein Nemarpouri, che parla un italiano perfetto, oserei dire imbarazzante per “noi” italiani, lavora in dogana tutto il giorno. E’serio e molto scrupoloso. Ripete fino allo sfinimento ai due centauri italiani che è vietato esportare oggetti di antiquariato, alcool e riviste sconce dalla repubblica iraniana. Salah-al-din risponde sereno che noi non abbiamo niente di tutto ciò. L’unica cosa che abbiamo è il tappeto Nain acquistato a Tehran. “Anche i tappeti non si potrebbero esportare” dice Hossein, ma il mio consiglio, visto che il manufatto è nuovo, è di buttare sul piazzale della dogana davanti agli occhi della polizia di frontiera tutte le cose contenute nei bagagli”. Il Feroce Saladino guardando il piazzale gremito di camion e di enormi macchie di gasolio preferirebbe mettere mano alla scimitarra piuttosto che stendere lo splendido tappeto sul sudiciume. Infatti all’ultimo momento preferisce infilare il prezioso tappeto nella borsa con la biancheria sporca. L’espediente funziona. Nessuno ha il coraggio di infilare le mani in mezzo ai calzini puzzolenti usati in questa torrida campagna d’Asia. Lasciata alle spalle la dogana ed il villaggio di Dogubayazit puntiamo decisamente a Sud verso il lago Van. La strada che conduce verso Muradiye, tutta curve e saliscendi, è degna di essere percorsa da una motocicletta. Entriamo nella cittadina di Van, un tempo sulla famosa via della seta, che si affaccia sulle acque color turchese del lago. Il colore invitante delle acque non deve trarre in inganno, questo lago altamente alcalino è molto inquinato soprattutto nelle vicinanze della città. Partiamo molto presto con l’intento di percorrere parecchi chilometri. L’idea del Feroce Saladino è quella di imbarcarsi sulla nave che fa rotta da Antalya a Venezia. Quindi seguiremo la direttrice verso Elazig e Malatya per arrivare approssimativamente in serata a Kayseri. E’ incredibile come la fatica e le intemperie, oggi un temporale ci ha annegati sotto tonnellate d’acqua, non riescano minimamente a scalfire la corazza che si è formata addosso al valoroso Salah-al-din in questi quaranta giorni di viaggio. Arriviamo a Kayseri, che una volta era la capitale della Cappadocia un’ora dopo il tramonto e quattordici ore consecutive di guida. Konya situata nell’immensa steppa dell’Anatolia, oggi rappresenta il granaio della Turchia. Il centro della città è molto vecchio e la gente molto religiosa e devota all’islam. Una delle cose più interessanti della città è il Museo Mevlana, quello che una volta era il monastero dei dervisci danzanti. Il termine “derviscio” in lingua farsi significa “cercatore di porte”. In campo mistico il termine ha il significato di colui che cerca il passaggio, l’entrata che porta da questo mondo materiale ad un paradisiaco mondo celestiale. I dervisci sono asceti che vivono in mistica povertà, simili ai frati mendicanti. L’entrata del Museo, che in realtà è un santuario, avviene attraverso un grazioso cortile dove c’è una fontana per le abluzioni. Poco più in la c’è la tomba di Rumi e dei suoi seguaci, un luogo molto frequentato e venerato dai fedeli. Interessante anche la moschea Selimiye e la Moschea di Alaettin. Da Konya ad Antalya è una volata tutta in discesa, l’ultima tappa verso il Mare Mediterraneo e la nave che ci riporterà a casa. Salah-al-din entra nel porto, acquista un biglietto di sola andata, per noi di ritorno, in Italia. La nave partirà tra due ore. Sulla banchina del porto, prima di salire sulla nave, c’è ancora il tempo, di fare la conoscenza con un gruppo di motociclisti di Padova che rientrano da un viaggio in Siria e Giordania. Se ho ben capito, la discussione è girata sulla destinazione del prossimo viaggio. Ho sentito parlare del Marocco. La passione per la moto è contagiosa. Il bello di questi viaggi “fuori porta” ti porta oltre che a vedere cose straordinarie, anche ad incontrare persone della stessa fede. Sconosciuti, che con il passare del tempo, forse diventeranno gli amici più cari.