Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 153 – Settembre 2007
Uno sguardo dall’India
Immagini, ricordi, emozioni: un viaggio arricchisce sempre! Sono ancora nitide le belle immagini del Nord dell’India con i suoi maestosi paesaggi, le alte vette himalayane, i pittoreschi monasteri e, ancora più vivi, indelebili, sono gli sguardi della gente. I ritratti, foto rubate o semplicemente prese grazie alla gentilezza dei diretti interessati, mi accompagnano sempre. Ogni sguardo è un regalo prezioso. Un attimo in cui il soggetto ti trasmette tutta la sua energia vitale. Una frazione di secondo per tutta una vita: “straordinario!”
Con l’India nel cuore, non potevo certo rifiutare la proposta dei miei amici, compagni di tante campagne motociclistiche in giro per il mondo, ad intraprendere un nuovo viaggio. E non importa se, dopo le mille peripezie patite nel Kashmir, avevo giurato sulla tomba dei miei avi di non risalire mai più su una Royal Enfield a nolo. Si torna in India nel Rajasthan, con una “poderosa” moto “indiana”.
New Delhi non sembra cambiata per nulla: stessa via per l’albergo, stesso custode, identico il noleggiatore delle moto. Poi, quando arriva Imran, il meccanico conosciuto ad agosto, al quale abbiamo regalato un casco, che mi abbraccia, beh… penso proprio di essere tornato a casa. La temperatura invece è completamente diversa: niente afa e 42 gradi all’ombra, ma un frescolino che rende piacevole il fatto di indossare l’abbigliamento pesante da moto. Otto i motociclisti provenienti da svariate località del Centro/Nord Italia, più il “Mitico” René, professore di educazione fisica, cuoco, laurea in scienze della comunicazione umana e animale e abile illusionista, insomma un Napoletano DOC. Ognuno di noi ha prenotato la moto in base alla cilindrata, ma è la sorte o il karma, che attribuisce la “nuova compagna di viaggio” che risponde al nome di Royal Enfield Bullet. Completano l’allegra compagnia Kumar, l’autista del pulmino che trasporta quattro passeggere e i bagagli, e lo smilzo e taciturno Filuss, uomo tuttofare. Ci lasciamo alle spalle in fretta la caotica New Delhi in una fredda mattina. Agra è la prima tappa e fa una certa impressione camminare sui gelidi marmi bianchi del Taj Mahal avvolto dalla nebbia. Il clima in questa stagione è buono: niente pioggia, cielo sereno, fredde e velate le prime ore dell’alba, caldo e soleggiato il pomeriggio, poi, dopo il tramonto, di nuovo la temperatura che scende a dieci gradi. Colpiscono al cuore le immagini della miseria profonda dell’Uttar Pradesh con i villaggi di baracche fatiscenti, le mucche magrissime e la gente che si scalda attorno ad un flebile falò di arbusti e il fumo che toglie il respiro, denso e nero, che rende ancora più sinistro il paesaggio. Spettrale ma reale. Ad una sosta per la colazione, il gestore prepara tutto ciò che ha a disposizione, cioè chapati (pane) e tè, che ha più l’impressione di una scura brodaglia, ma la buona volontà del ristoratore e la compagnia di una cagnetta con i suoi cuccioli ben felici di dividere con noi la colazione, rende la sosta molto gradevole. Prima di entrare nel Rajasthan, la “terra dei re”, facciamo una deviazione per visitare i templi hindu del centro religioso di Mathura. Si pensa che il sito, molto frequentato dai fedeli hindu, sia il luogo di nascita di Krishna. Lasciamo la campagna punteggiata da maleodoranti stagni per addentrarci in stretti e luridi vicoli. Neanche Kumar, che è seduto sul sellino posteriore della mia moto, conosce bene l’ubicazione del tempio e non è facile guidare nel caos infernale dei mezzi a motore, carretti e risciò. Parcheggio la moto in uno slargo vicino ad un devoto dallo sguardo tenebroso che somiglia moltissimo a Gesù Cristo, supero alcuni gradini in pietra e mi fermo in una piazzetta in posizione dominante rispetto allo sciame di gente chiassosa e colorata che si muove in ogni direzione. Sul selciato, da un lato, contro il muro, ci sono una fila di mendicanti accucciati uno dietro l’altro con il loro pentolino di metallo in bella vista per le offerte in cibo o in denaro. Facce incredibili di un’umanità meno fortunata prostrata ai piedi di un’altra umanità più agiata. Gli sguardi filtrati e ingranditi da un teleobbiettivo non sono mai così spaventosi come nella realtà. E’ la vita ad essere crudele. In questi frangenti sono molto combattuto fra “scattare” o passare avanti. Prevale la mia passione per i ritratti, ma alla condizione di essere ben visibile e fare scatti ravvicinati. E’ l’unico modo per capire se gli interessati, che mi vedono, siano o meno consenzienti ma anche per scaricare di responsabilità la mia coscienza ipocrita. Sono loro a decidere! Alcuni mi rimproverano alzando le braccia e la voce, mentre altri accettano composti e con dignità. Scorrono in pochi metri decine di volti di anziani, donne e bambini; occhi curiosi, profondi, velati, rassegnati, ma attaccati alla vita. Questa vita. Mi colpisce una donna con un viso dolce come una poesia d’amore e senza tempo che, avvolta in una coperta di lana verde, appena mi avvicino, accenna un sorriso, e poi, accetta con gratitudine di essere fotografata, felice di esistere. Qualche volta inquadro, ma non scatto per rispetto verso chi non ha nemmeno la forza di reagire alla mia fastidiosa presenza. La solidarietà umana è notevole quanto razionale: il primo della fila cambia le banconote con mucchietti di piccole monete in modo che tutti, anche se misera, abbiano la loro parte. Se fossi Dio muterei queste sudicie monete da una rupia in scintillanti monete d’oro e questi pochi chicci di riso in pesanti sacchi, ma sono solo l’uomo della strada e tutto quello che posso fare è di non essere indifferente. Il tempio non è gran cosa e quasi scompare davanti alla folla immensa. Riprendiamo la strada. Il magnifico palazzo fortificato di Amber si erge sul fianco roccioso di un monte a una decina di chilometri dalla capitale Jaipur. L’edificio che è raggiungibile a piedi è frequentato da numerosissimi turisti indiani. Jaipur invece, che nel 1876 in occasione della visita del Principe di Galles e futuro Re d’Inghilterra, fu fatta dipingere di rosa, simbolo di ospitalità, dal maharaja Ram Singh, ci accoglie con il solito traffico caotico. Dalla spessa coltre grigia di smog emerge lo stupefacente Hawa Mahal, il Palazzo dei Venti. Questo edificio di raffinata architettura a nido d’ape risale al 1799 e costituisce un esempio del livello artistico raggiunto dai Rajput. Pernottiamo in un centralissimo e moderno hotel con modeste camere rivestite da una “vissuta” moquette alta tre centimetri. Lasciamo Jaipur in un nebbione da far impallidire anche gli abitanti di Lodi. La temperatura piuttosto bassa si alza solo nel pomeriggio nella regione dello Shekhawati dove facciamo una sosta per visitare le stupefacenti “haveli” di Mandawa. Queste dimore situate strategicamente sulle rotte commerciali che collegavano il mare Arabico alle fertili valli del Gange, furono la residenza dei ricchi mercanti fino al 1947. Dopo la divisione del paese e la chiusura del confine con il Pakistan, il commercio per ovvi motivi finì e i ricchi commercianti abbandonarono la zona. Un uomo anziano ci spalanca la bella porta d’argento della sua casa. Indossa lunghi calzoni bianchi di forma araba, un lungo camicione di cotone dello stesso colore e due giacche all’europea spaiate. Del suo viso, incorniciato da un turbante chiaro annodato sopra un cappello di lana marrone, corrucciato e segnato dalle rughe e dalla barba bianca non rasata da più giorni, mi colpiscono gli occhi velati di un uomo che da tempo non vede più nitidamente. Occhi che si sono spenti come lo splendore di questa dimora, giorno dopo giorno fino al completo abbandono. Bikaner è lontana. Oltretutto, alcune moto si fermano per banali guasti elettrici. Si va avanti a singhiozzo fino al grippaggio del motore della moto di Michele. E’ notte fonda quando il gruppo si allunga ed io rimango solo. Di giorno a tutta velocità la mia Royal Enfield 350 Electra, spinta dai suoi “temibili” 18 cavalli, arriva a sfiorare i 100 chilometri orari. Nell’oscurità, anche su una buona strada asfaltata come questa, non supero mai i 60 km/h. Lungo la via ci sono un sacco di animali che “pascolano” liberamente e le mucche dal pelo scuro sono invisibili. Per questo motivo, quando alle mie spalle si materializza un grosso camion, decido di farmi superare. I suoi fari sono così potenti da illuminare la careggiata a giorno. Dietro, a parte una terribile puzza di gasolio, sono al sicuro. Ad una stazione di servizio il gruppo si ricompatta, giusto in tempo per riparare una foratura. Imran, come sempre, ci mette una pezza, poi… in albergo. La cena è abbondante e vegetariana: riso, lenticchie, verdure cotte e l’immancabile chapati, poi, sopraffatti dalla stanchezza, tutti a dormire. Tutti… tranne il solito Imran, che in tre ore sostituirà il pistone e le fasce elastiche del motore grippato. Il “metodo indiano” di “uso e manutenzione della motocicletta” è tanto semplice quanto raccapricciante e consiste nello svitare i dadi della testa, accendere il motore e dare gas finchè il pistone non stacchi la testa dal cilindro!!! A Deshnok, trenta chilometri da Bikaner, visitiamo un luogo assai bizzarro: Il Tempio dei Topi. Secondo la leggenda, Karni Mata, vissuta nel XIV secolo, chiese al dio della morte Yama, di riportare in vita il figlio di un cantastorie. Yama rifiutò e Karni Mata fece reincarnare in topi tutti i cantastorie defunti affinchè Yama fosse privato di anime umane. Oggi i ventimila sacri roditori sono venerati e il tempio è un’importante meta di pellegrinaggio per gli hindu. Offrire cibo ai “topastri” è segno di buon auspicio ed anch’io non mi sottraggo al rito propiziatorio offrendo una castagna secca della mia scorta personale portata dall’Italia. La “provvidenza divina” di incontrare uno dei rari topolini bianchi, considerati come dispensa di enorme fortuna, invece non mi è concessa e nemmeno mi attira mangiare il cibo contenuto nella grossa pentola e “toccato” dai roditori, considerato un grande privilegio. Trecentocinquanta chilometri ci separano da Jaisalmer. Al settantesimo chilometro la poderosa e nera Royal Eenfield 500 Bullet del 1995 di Giorgio lascia dietro di sè una scia azzurrognola. In un primo momento pensiamo a un grippaggio. Niente di più sbagliato! E’ un problema elettrico: l’intero cablaggio si è fuso ed è ridotto ad un tizzone nero. Il nostro bravo meccanico lo sostituirà con uno nuovo in meno di un’ora. Ripartiamo, ma è il turno della moto di Michele, che fuma come una vaporiera, che ci costringe ad una sosta. Il verdetto di Imran questa volta non lascia scampo: “motore finito!” Un lunghissimo rettilineo e un’accecante grossa palla arancio, che sembra inghiottirci come tante frecce scagliate da un gigantesco arco, ci separa da Pokaran. Entriamo in città con il buio. Jaisalmer per oggi è irraggiungibile. Dopo un’ora arriva Imran in sella alla moto fusa trainato dal bus di Kumar. Il giovane indiano ha percorso sessanta chilometri con la mano legata ad una fune rischiando ad ogni strattone l’osso del collo. Pokaran è tristemente famosa per essere stata teatro delle cinque esplosioni nucleari del governo indiano nel 1998. Secondo l’antica cosmologia hindu, il tempo si divide in quattro grandi epoche. Ad ogni era corrisponde uno dei quattro lanci del tradizionale gioco dei dadi indiano. L’età dell’oro corrisponde al lancio con il punteggio più alto mentre il punteggio più basso si riferisce al periodo attuale: l’Era di Kali! “ Alla fine, incapace di sopportare la bramosia dei suoi re, il popolo dell’Era di Kali si rifugierà tra le montagne, indosserà vesti lacere, e non potrà sfamare la propria progenie. Così nell’Era di Kali contese e rovine si produrranno incessantemente, fino a portare la razza umana all’annientamento.” (Visnu – Purana VII secolo) Secondo i Purana, il mondo verrà distrutto dal “ fuoco dai mille soli” alla fine dell’Era di Kali. Scaccio dalla mia mente tutte le nefandezze compiute da chi, invece di sganciare bombe atomiche, dovrebbe preoccuparsi di fare qualcosa di buono per il suo paese e per l’umanità. Pokaran, oltre a radiazioni da record e ad un pulcioso motel, offre anche una fantastica residenza fortificata trasformata in un lussuoso hotel. L’edificio in arenaria rossa, anticamente residenza di caccia del maharaja di Jodhpur, risale al XIV secolo. La trattativa fra il nostro abile Renè e il direttore dell’albergo è estenuante, ma le sei magnifiche suite riccamente arredate ad un abbordabilissimo prezzo di quindici euro a persona, colazione e cena comprese, sono straordinarie. La moto di Michele richiede la completa sostituzione del motore, mentre i ricambi, purtroppo, non sono disponibili. Parzialmente appiedati, decidiamo di visitare Jaisalmer senza le moto. La cittadella, simile ad un gigantesco castello di sabbia, sorge su una collina che domina sul paesaggio desertico e arido del Thar. Completamente circondata da novantanove torrioni, che racchiudono strette viuzze, è considerata patrimonio dell’umanità. Si accede alla fortezza attraverso enormi portali che conducono nella piazza del palazzo del maharaja. Il palazzo, nonostante l’enorme affluenza di turisti, è straordinario. A poca distanza dalla residenza visitiamo anche alcuni templi giainisti in arenaria gialla, che risalgono al XII secolo. Il giainismo, fondato nel VI secolo A.C., come reazione alle restrizioni dell’hinduismo dominato dai bramini, crede che la liberazione possa essere ottenuta solo raggiungendo la totale purezza dell’anima. Essenziale a questo scopo è una condotta retta fondata sulla non violenza verso qualunque essere vivente. Grande!!! Una calca incredibile aspetta il proprio turno per entrare nei templi. Ne approfitto per “cogliere” negli sguardi dei devoti l’immensa spiritualità. La vita della piazza è frenetica: donne fasciate da sari coloratissimi spazzano il selciato con flessuose scope in saggina. Mentre un’anziana con il viso segnato dagli anni controlla che il lavoro sia ben fatto, un santone prega in mezzo al frastuono di motorini, tuk tuk, auto strombazzanti, venditori ambulanti e turisti in canottiera. A parte il santone, l’unico essere che mantiene una calma serafica, è la mucca. Adoro le mucche indiane, magre e ciondolanti. Esseri senza tempo, che appartengono all’India che non ha fretta. Se fossi un pittore, mi basterebbero poche abili pennellate per cancellare auto, moto, risciò, venditori di bibite e turisti, per ridare a questo luogo tutta la magia di un tempo. Non più tardi di quarant’anni fa Pasolini ritraeva queste stesse immagini con uno spirito completamente diverso. “E le vacche per le strade: che andavano mescolate alla folla, che si accovacciavano tra gli accovacciati, che deambulavano coi deambulanti, che sostavano tra i sostanti. Povere vacche dal mantello diventato di fango, magre in modo osceno, alcune piccole come cani, divorate dai digiuni, con l’occhio eternamente attratto da oggetti destinati a un eterna delusione. Era quasi notte, ed esse si accovacciavano ai bivi, sotto qualche semaforo, davanti ai portoni di qualche disordinato edificio pubblico, mucchi neri e grigi di fame e smarrimanto.” L’odore dell’India – Pier Paolo Pasolini 1961. Rientriamo a Pokaran nella lussuosa residenza del maharaja. Il general manager dell’albergo, un uomo schivo, gentile e sofferente, ci viene incontro: “sta arrivando il maharaja” dice. Un signore elegante di mezza età, in un inglese perfetto, ci racconta la storia della sua famiglia che viveva a Jodhpur, del bisnonno che faceva parte del governo di Delhi e dei suoi figli. “Mi spiace di non potervi ospitare anche per questa notte nelle nostre camere. Sono tutte prenotate! Se volete, potete dormire nella torre di guardia. Per secoli ci hanno dormito le mie guardie. Vi troverete benissimo”. Una scala in pietra, molto ripida e senza riparo, conduce sugli spalti della fortezza, poi, attraverso un’angusta porticina, si entra in un locale di sei/sette metri per lato. Le coperte e i materassi, forse ancora quelle usate per secoli dalle guardie, sono molto vissuti, ma il luogo, oltre che tranquillo, è molto suggestivo. Nella notte, Imran, che era andato a cercare i ricambi a Jodhpur, è tornato a mani vuote. Nessun problema! Un secondo meccanico è partito da Delhi e ci raggiungerà in un paio di giorni. Dopo aver temporaneamente abbandonato la moto in avaria, attraversiamo una zona desertica. Lungo la strada, purtroppo, non mancano le carcasse degli animali investiti dai mezzi a motore: una coppia di dromedari; una femmina con il suo piccolo sono stesi senza vita sull’asfalto scuro. Molto probabilmente un mezzo pesante li ha investiti durante la notte e fa una certa impressione vedere i due splendidi animali senza vita uniti da un simile crudele destino. Jodhpur è caratterizzata da un colore azzurro intenso, che per tradizione è il colore che contraddistingue le case dei brahmini. La vista dalla terrazza dell’albergo è straordinaria, e la sua posizione è strategica per visitare il Meherangarh, cioè il “forte maestoso” che si estende sulla collina che sovrasta la città. Seguendo una breve deviazione lungo la salita che conduce al forte visitiamo il tempio di Jaswant Thada con le sue singolari cupole in marmo bianco. Molto suggestiva anche la cena rigorosamente vegetariana servita al lume di candela. La lunga trasferta per il Monte Abu non è priva di insidie: Paolo, forzando con la pedivella della sua Bullet, si è procurato uno strappo al polpaccio e ha dato forfait; la Royal Enfield di Marco ha seri problemi di alimentazione; la moto di Michele, che ci ha raggiunto insieme a Imran e a un nuovo meccanico, nonostante due sostituzioni di testa, cilindro e pistone, ancora non va e il traffico è aumentato paurosamente. Il Monte Abu è l’unica stazione montana del Rajastan. E’ la meta preferita per le vacanze dei rajastani e degli abitanti del Gujarat. Si arriva ad una quota di milleduecento metri dopo una strada tortuosa che passa attraverso rigogliose colline boscose. Il luogo, oltre ad essere rilassante e fresco, offre una serie di templi giainisti fra i più spettacolari dell’India. Si racconta che gli artigiani venissero pagati in funzione della polvere di scarto che raccoglievano. In tal modo erano incoraggiati a scolpire rilievi sempre più complessi. La squisita fattura delle opere è così raffinata da rendere la pietra quasi trasparente. E’ un’impresa trovare un ristorante nel caos della cittadina fra i numerosissimi turisti indiani e solo l’estrema cortesia del gestore ci consente di sedere ad un tavolo. La cena rigorosamente vegetariana è “rinforzata” da parmigiano e salamini portati dall’Italia e annaffiati da un discreto cabernet sauvignon indiano. Chiudiamo la serata, l’ultima dell’anno, con gli “strufoli”, un tipico dolce napoletano preparato con amore dalla mamma di Renè, poi tutti a nanna, mentre Imran e Anis, i nostri bravi meccanici, sono alle prese con la sostituzione della testa della moto di Marco e dei cuscinetti di banco di quella di Michele. E’ commovente vederli lavorare con tanta passione e non ci sono dubbi: domani mattina sarà tutto a posto. L’avventura con queste poderose, ma jurassiche Royal Enfiel continua. Giove pluvio questa notte si è divertito alle nostre spalle inzuppando la tortuosa discesa che dal Monte Abu porta verso le pianure. La strada, ieri molto divertente, si è trasformata in una viscida trappola. Arrivati in pianura, invece, per la serie “anno nuovo vita nuova”, si rompe il cavo del gas della moto di Andrea. Durante la sosta forzata ad una stazione di servizio, uno sciame di bambini ci circonda. Mi colpisce la loro spontaneità, freschezza e la gioia di chi non è stato ancora contaminato dagli eccessi di questo pianeta. La moto li affascina. Una bambina di incredibile bellezza si è seduta sul sellino della mia moto e vuole essere fotografata. Ripartiamo a malincuore. Percorsi pochi chilometri lasciamo la strada principale per seguire una stretta via lungo una valle fertile, punteggiata da villaggi pittoreschi e di gente coloratissima. Udaipur, con i suoi bellissimi palazzi affacciati sul lago Pichola, ci accoglie sotto il suo fresco cielo azzurro. Il City Palace, sormontato da torri, balconi e cupole è imponente. Entrando dalla porta di Tripolia, le sette arcate ricordano l’antica consuetudine secondo la quale i maharaja si pesavano e distribuivano alla popolazione l’equivalente del loro peso in oro o in argento. Nell’interno, interessante il museo con i ricchi mosaici che raffigurano i pavoni, gli uccelli preferiti nel Rajasthan, il Manak Mahal, ossia il palazzo del rubino con decorazioni in vetro e specchi, e il Krishna Vilas che vanta una notevole collezione di miniature. Di buon mattino la vita riprende lungo i ghat (gradini) del lago dove la popolazione si lava con grande puntiglio, incurante della bassa temperatura delle acque. Dall’imbarcadero è possibile affittare una barca per visitare le isole Jagniwas e Jagmandir, e di notte quando le luci dei palazzi si riflettono nelle scure acque del lago, la città assume il suo aspetto magico. Udaipur colpisce e coinvolge per la sua bellezza e tranquillità, e non si vorrebbe lasciarla mai. Ci spostiamo decisamente verso Sud. Un paio di forature e qualche guasto di poco conto trasformano la mattinata in una sorta di Via Crucis, poi, quando la moto di Giuseppe prende fuoco, la “compagnia”, per sdrammatizzare, mette in scena un’allegra tarantella scacciaguai che diverte anche gli esterefatti e simpatici indiani. Le fiamme sprigionate da uno straccio, usato come turafalle del carburatore, hanno procurato gravi danni al serbatoio e alla sella, mentre il pilota per fortuna è illeso. Abbandoniamo momentaneamente i due meccanici e la moto bruciata, che un’ora più tardi (non avevo dubbi), mentre facciamo rifornimento, sbucano dal polverone e si ricompattano con il gruppo. Anis, che guida la moto di Paolo, ha spinto con il piede, modo folcloristico ma efficace la moto di Imran, in avaria. I due bravi ragazzi sono legati alle moto come fossero loro creature: niente li può fermare perché affrontano la vita con entusiasmo. Champaner, l’antica capitale del Gujarat, si sviluppa su un’altura vulcanica di ottocento metri. Sulla cima il tempio di Kalika Mata è un importante meta di pellegrinaggio, mentre la Jama Masjid, la moschea edificata nel millecinquecentotredici, è un vero e proprio gioiello. Non abbiamo scelta invece per l’albergo. Le camere dell’omonimo hotel sono spartane e apparentemente pulite ma, come spesso accade, alcuni materassi sono abitati da voracissimi insetti che rendono la nottata molto sgradevole e “grattugginosa”. Se le camere sono modeste, il parco continuamente irrigato dai numerosi giardinieri e abitato da una moltitudine di scimmie e uccelli è meraviglioso. Ad un certo punto un cinguettio frenetico attira l’attenzione dei giardinieri. In cima ad un albero una scimmia si è avvicinata troppo ad un nido e il povero uccello ha lanciato l’allarme. E’ incredibile, il mondo si è fermato e stanno tutti con il naso all’insù! Questa è una delle cose che mi piace di questo paese. La gente è ancora attenta alle manifestazioni della vita che li circonda. La scimmia si allontana e la vita riprende il suo corso. Durante la notte Imran ha sostituito la frizione della mia moto e di quella di Marco. Riprendiamo il viaggio. Il traffico pesante è asfissiante e rende questa lunga tappa di trasferimento, già di per sé noiosa, molto dura. Attraversiamo una zona industriale da panico: centinaia di ciminiere sbuffano zaffate di fumo nero come l’inchiostro nel cielo lattiginoso. L’aria è irrespirabile! Quando penso ai nostri politici che si fanno “splendidi” davanti alle telecamere mentre annunciano una domenica di blocco totale del traffico mi viene da ridere. Che senso ha tenere il “giardinetto” di casa nostra pulito mentre in un paese sterminato e in pieno boom economico come l’India non ci sono regole? Quando capiremo che il problema dell’inquinamento è un problema planetario forse sarà troppo tardi. Verso le quattro del pomeriggio, durante una sosta per il rifornimento, le esigenze del gruppo si dividono. C’è chi vuole andare al mare, che dista centoquaranta chilometri, e chi invece si vuole fermare per la notte. La discussione viene risolta da una democratica votazione. Si va avanti! In passato mi sono trovato nel buio più fitto a dover guidare fino alle due di notte. Non avevo scelta, non c’era niente per chilometri e chilometri e dovevo proseguire, ma adesso “scegliere” di guidare su queste strade di notte, oltre che rischioso, è insensato. Forse è arrivato il momento di “rallentare”. Non ho mai concepito l’idea di viaggiare come un modo di spostarsi da un punto all’altro, per arrivare. Arrivare non è fondamentale. Fra i due punti possono esserci cose talmente importanti da cambiarti la vita. Solo prendendosi tutto il tempo necessario si può vedere. In India ho capito che, più mi avvicino alle cose, più le comprendo. Ho visto cose che neanche immaginavo, ma sono gli umani, i loro sguardi, così diversi uno dall’altro, che mi attirano sempre di più. Il buio della notte mi avvolge. La strada è molto buona, ma non posso raccontarmi le favole: non ci vedo! Rallento. Il gruppo allunga. Rimango solo con i miei angeli custodi Imran e Anis che mi tallonano da vicino. Il tempo si dilata, sembrano le due di notte invece sono le otto. In giro non c’è nessuno. Ricordo soltanto che ad un certo punto devo svoltare a destra, ma francamente quanti chilometri manchino non lo so. Mi fermo a chiedere informazioni. Un signore avvolto da un enorme turbante dice: “venticinque!” Un altro con un paio di baffoni neri replica: “quarantacinque chilometri!” Il gruppo è guidato da Andrea. Il bergamasco reduce da un’ottimo piazzamento al rally dei faraoni è una sicurezza, invece dietro, da qualche parte, c’è il pulmino di Kumar, ma chissà dov’è adesso. Ad una stazione di servizio il gruppo si ricompatta. Ripartiamo, ormai siamo vicini. Un botto assordante squarcia la quiete della notte: la catena della moto di Giuseppe si è spezzata! Riprendiamo la strada lasciandoci dietro i soliti Imran, Anis e i rottami da riparare. Finalmente arriviamo a Daman dove ritroviamo anche il mini bus di Kumar, che da buon indiano conosce bene le strade di questo enorme paese. Centoquaranta chilometri in cinque ore: una bella media! L’alloggio è uno dei migliori del viaggio. Una villa coloniale ben ristrutturata sarà il nostro giaciglio per due notti. Ottima anche la cena a base di carne di pollo, montone, pesce e una montagna di patate fritte. La cittadina, che fino al 1961 era un’enclave portoghese come Diu e Goa, oggi è una stazione turistica balneare, ma è conosciuta più per la vendita delle bevande alcoliche che in India sono sottoposte a rigidi regolamenti. Interessante anche il forte di Moto Daman che risale al 1559. Prima del tramonto la gente si ritrova sulla spiaggia dove nonostante i numerosi rigagnoli scuri delle fogne a cielo aperto, si respira un aria tranquilla e informale. E’ l’ultima tappa. Puntiamo direttamente su Bombay che ci preoccupa non poco con i suoi venti milioni di abitanti. Dopo due forature consecutive di Andrea riparate senza problemi, siamo letteralmenti inghiottiti dal traffico della megalopoli. Mancano ancora quaranta chilometri alla riconsegna della moto e vista la situazione resa molto effervescente dalla calura e dalle auto, ci dirigiamo verso i lussuosi alberghi del litorale della città. Una lunga trattativa di Renato ci permette di approfittare di sei lussuose camere per un totale di sole seimila rupie (100 €). L’albergo che fa parte di una lussuosa catena alberghiera di Dubai, offre doccie meravigliose e tutti i comfort e nemmeno quando Renato si accorge che il prezzo di seimila rupie è quello di una sola camera, nessuno del gruppo vuole lasciare l’hotel. Vedere la faccia del mitico Renè per la prima volta nella sua vita turlupinato non ha prezzo. Per raggiungere il centro della città impieghiamo più di un’ora e mezza in autobus. L’enorme agglomerato urbano è un continuo susseguirsi di baraccopoli sovraffollate ed eleganti quartieri. Ci imbarchiamo per l’isola di Elephanta all’”India Gate”, un massiccio arco di trionfo di basalto, simbolo dell’impero coloniale come anche lo strepitoso Taj Mahal Palace hotel. I templi, scavati nella roccia, che risalgono al V secolo dopo Cristo racchiudono numerosi bassorilievi, il più famoso dei quali che rappresenta la Trimurti è straordinario. E’ Shiva, il “Divino” distruttore, conservatore e creatore dell’universo, l’ultima immagine del viaggio. L’aereo decolla nell’oscurità sopra le mille luci di Bombay, poi, in un attimo, scompaiono le scie colorate delle auto, le strade, le case, l’India. Buio! Chiudo gli occhi e rivedo ancora una volta il vecchio dietro la porta d’argento, l’anziana dolcissima mendicante avvolta nella sua coperta verde, la bellissima bambina innamorata delle moto, le donne in sari, i variopinti turbanti, tutti gli occhi e gli sguardi incontrati lungo le strade di questo meraviglioso paese. Immagini che rimarranno sempre con me. Emozioni che aumenteranno d’intensità giorno dopo giorno e poi, come un bambino che cresce nella pancia della mamma, sfocieranno in una nuova vita. Una vita, un sogno, un viaggio verso nuovi mondi.