Pamir

Un viaggio di Walter Ramperti con Silvia Cattaneo e Antonio Cortesi

Ci sono luoghi, su questo nostro straordinario pianeta, che scatenano la fantasia dei viaggiatori. Località in cui, per ragioni diverse, ti senti parte integrante di qualcosa di importante che va aldilà della pura bellezza esteriore che ti circonda. Un concetto difficile da spiegare perché colpisce in profondità ciò che abbiamo di più caro: la nostra spiritualità.
Il Pamir, ce ne siamo accorti subito, è solo per i meritevoli. Per due volte si era sottratto a noi. La prima, nel 2010, quando, arrivati a Kalaikum nel cuore di un viaggio che dall’Italia ci avrebbe condotti nella capitale mongola Ulaan Baator, un banale guasto meccanico di una delle moto del gruppo, ci costrinse alla rinuncia. La seconda volta nel 2013 diretti in India, fu un raid “punitivo” dei talebani afgani nei confronti di alcuni militari a Khorog, che costrinse le autorità ad interdire l’area per alcuni mesi.
Anche questa volta (2 agosto 2015) la prospettiva non è delle migliori dato che una frana gigantesca blocca la statale M41, la famosa Pamir Highway, vale a dire la principale via di accesso del Pamir, tra Khorog e Alichur. Tuttavia, dentro di noi, c’è la ferma convinzione che, in questa occasione, il Pamir non ci sfuggirà.
Io ed Antonio, amico fedele nelle ultime avventure in giro per il mondo, abbiamo spedito le nostre moto a Bishkek più di un mese fa ed ora le abbiamo raggiunte in aereo insieme a Silvia, la mia compagna.
La tranquilla capitale kirghisa, adagiata su un altopiano di ottocento metri sul livello del mare, è il punto di partenza per raggiungere il Pamir.
Percorsi settanta chilometri di strada pianeggiante il nostro viaggio prende quota verso i monti Alatau e la catena del Tian Shan dove il Kirghizistan mostra i suoi scenari maestosi tra le montagne color smeraldo, gli speroni rocciosi di granito e i laghi cristallini color turchese. La prima notte, ospiti in un grazioso hotel, arriva dopo un incredibile tramonto sul lago Toktogul. Scendiamo verso le afose pianure di Jalalabad e di Osh per risalire in fretta verso Sary Tash e i primi contrafforti delle cime innevate del Pamir a pochi chilometri dal confine cinese. Passeremo la notte in una Guest-house, più una tana che un albergo, che ben conosciamo, gestita da una famiglia formata da una specie di guru anziano con una voce molto rauca, sua moglie e la figlia. Piove a dirotto da alcune ore, per tutta la notte ed anche la mattina seguente il cielo, saturo di nuvole grigie e dense che si rincorrono, non promette niente di nuovo. Prima di entrare nel Pamir decidiamo di visitare il villaggio di Nura che dista poco meno di sessanta chilometri. Abbiamo alcune foto scattate due anni fa, di un gruppo di bambini che vorremmo recapitare insieme ad alcuni capi di abbigliamento gentilmente offerti da Franco Belli, un mio carissimo amico. Il problema è superare il blocco militare che, a pochi chilometri da Nura, blocca i viaggiatori senza il visto cinese. Dopo vani tentativi, i rigidi militari sono irremovibili, dobbiamo rinunciare. Il caso vuole che nello stesso istante in cui risaliamo in moto per rientrare, arrivi un furgone con tre persone dirette a Nura ben felici di recapitare le foto e il resto.
Rientrati a Sary Tash imbocchiamo un lungo rettilineo pieno di buche che ci conduce verso la dogana tagika. L’asfalto lascia il posto a una bella pista sterrata che dai tremiladuecento metri sale ai quattromilatrecento metri di altitudine di Bor Dobo. Tutte le pratiche doganali passano tra le mani di due soli militari. Il primo, arroccato in una specie di grosso serbatoio di lamiera color ruggine che funge da ufficio, ci accoglie con cordialità davanti ad una vetusta quanto rovente stufa a carbone. E’ il classico buon padre di famiglia, corretto e onesto. Il secondo vorrebbe spacciarci una specie di assicurazione, la classica carta verde, all’esorbitante cifra di settanta euro a testa. Un vero e proprio furto che potremmo anche accettare se non fosse per i suoi modi maleducati e sgradevoli. Alla fine, dopo aver pagato trenta dollari a testa, la sbarra di ferro che blocca la via viene alzata. Siamo in Pamir.
La pista scende leggermente di quota, siamo circondati da un arido quanto grandioso paesaggio punteggiato da cime imbiancate ed abbaglianti. La montagna da un lato incute rispetto, ma dall’altro attrae perché noi amiamo la grandezza delle cose o la grandezza che è in noi o, perlomeno, dovrebbe esserci, poi in montagna sei più vicino alle vette, al cielo, alle stelle, a Dio. Il confine cinese ci accompagna con il suo interminabile filo spinato sorvegliato da decadenti torrette di guardia ormai abbandonate dallo sfascio dell’impero sovietico. Raggiungiamo il lago Karakul, formatosi in seguito all’impatto di un gigantesco meteorite, circondato da minuscoli insediamenti umani semi abbandonati.
Un colpo di fortuna che il cielo sia coperto. Non piove, ma le nuvole sono così basse e avvolgenti, delle vere compagne di viaggio, che rilasciano nell’aria pura del Pamir l’odore denso di terra bagnata. La luce cambia di continuo, di tanto in tanto i raggi del sole riescono a bucare le nuvole illuminando come potenti fari nella notte tutto quello che accarezzano, poi sopraggiungono le nuvole più corpose, allora il paesaggio diventa più ovattato, misterioso, irreale e quasi senza fine.
La pioggia degli ultimi giorni ha procurato a questa straordinaria quanto fragile via parecchi danni. Alcuni tratti sono coperti da una viscida fanghiglia che appare all’improvviso, altri da insidiose sabbie soffici. Il traffico è inesistente. Mi aspettavo qualcosa di simile, ma sono più di cento chilometri che non incontriamo anima viva e adesso ne comprendiamo il motivo. La strada per un breve tratto è stata spazzata via dalla piena. Ne è rimasta solo un’esile lingua di due metri di larghezza molto instabile. Ne fanno le spese i camion, pesanti bisonti della strada lunghi quattordici metri, fermi in colonna nell’attesa che arrivi una ruspa per chiudere le voragini. Sorpassato agevolmente l’ostacolo, Murghab è a meno di dieci chilometri, sale in noi l’euforia per aver superato questa prima impegnativa tappa. Troppo presto per cantare vittoria. Davanti a noi doveva esserci un bel ponte prima che la piena di un fiume limaccioso color fango lo distruggesse. Il guado oltre che largo sembrerebbe anche profondo. Per fortuna un fuoristrada proveniente da Murghab attraversa il fiume dandoci l’indicazione sulla profondità dell’acqua. Passa Antonio sulla sua inarrestabile Transalp. E’ il mio turno. Dopo aver lasciato l’attrezzatura fotografica e Silvia a terra supero l’ostacolo con molta apprensione. E’ la volta di Silvia che attraversa il fiume in piena senza esitazione con l’acqua che supera abbondantemente il ginocchio. Murghab, un paesino a tremilaseicento metri di altitudine, ci accoglie stanchi, felici e con gli stivali pieni d’acqua. L’albergo, ce né solo uno, che si chiama per puro caso Pamir Hotel, in mezzo a case d’argilla con tetti in lamiera ondulata corrosi dal tempo e di parabole per la televisione satellitare, è molto confortevole. Tutt’intorno troneggiano le cime delle montagne brulle e il respiro del vento.
La pioggia è caduta copiosa solo sui nostri sogni, mentre un bel sole caldo rallegra la nostra partenza. Dopo la lunga tappa di ieri, ben duecentocinquanta chilometri, quella di oggi ci condurrà ad Alichur che è a soli cento chilometri di distanza.
Gli scenari sono splendidi. Migliora anche la strada che alterna tratti di ottimo asfalto a sterrati vellutati che percorriamo con facilità. Incontriamo i primi insediamenti umani, sono solo casolari isolati, le persone rarissime, ovini al pascolo e marmotte curiose.
Prima di pranzo raggiungiamo Alichur, che, sulla mappa dell’Asia Centrale è segnalata come una città, ma in realtà non ha nemmeno mille abitanti. Alberghi veri e propri non ce ne sono, ma la prima faccia simpatica che incontriamo ci offre ospitalità per la notte e qualcosa da mangiare. Un nucleo famigliare di quattro persone in una casa di tre locali tutti al pianterreno con il bagno in cortile all’aperto, vale a dire la solita turca, stranamente al primo piano, perché sotto c’è la stalla, ma con vista mozzafiato verso i monti dell’Hindu Kush. A noi forestieri viene assegnata la stanza migliore, un vano di grandi dimensioni senza letti che da queste parti sono una rarità. Dormiremo nei nostri sacchi a pelo stesi su una morbida coltre di caldi tappeti colorati. Nel pomeriggio cercheremo di raggiungere il lago Yashil Kul seguendo la Pamir Highway che serpeggia sull’altopiano, che sembra spruzzato di neve invece è sale. Superiamo il cartello di divieto di transito che segnala la grande frana che blocca la M41 più a valle, poi imbocchiamo la pista, uno sterrato pieno di gobbe che fanno sobbalzare le nostre amate motociclette fino ad un minuscolo villaggio, poche case, stalle, animali al pascolo, circondato dal lago Bulunkul. Una ripida salita ci conduce verso le acque color lapislazzuli del lago Yashil Kul. Rientriamo nel tardo pomeriggio. Ad Alichur ci attende un’amara sorpresa. La benzina è finita da giorni.
Una signora gentile, che fortunatamente parla inglese, mentre ci offre un tè bollente, ci racconta che il “benzinaio” è partito questa mattina per Murghab con la sua auto e dovrebbe fare ritorno verso l’ora di cena con quattrocento litri di carburante nel baule, in pratica un’auto bomba. Scende la notte, il benzinaio disperso nelle tenebre non risponde nemmeno al cellulare. Nessuno sembra preoccuparsi di lui. Andiamo a dormire relativamente tranquilli. Tutto il villaggio è al corrente della nostra richiesta. La sveglia arriva presto, la benzina pure. Avanti!
Con i serbatoi colmi di carburante lasciamo la comoda ed asfaltata M41 per un polveroso sterrato che ci conduce verso il Passo di Kargush. Una salita che sembra non finire mai. Le moto arrancano gravate dal peso e dalla benzina povera di ottani, ma quelli che stanno peggio di noi sono gli eroici camionisti sprofondati con i loro pesanti mezzi nelle sabbie infide del percorso. Superati i quattromilacinquecento metri di altitudine raggiungiamo il fiume Panj e un posto di blocco. Sono solo due militari interessati più alle nostre caramelle che ai nostri passaporti. Sono guardie di frontiera, da queste parti passa tutto l’oppio afgano e le armi. Davanti a noi inizia la vallata di Wakhan, una sequenza di chiazze color verde brillante, oasi coltivate ad orzo dai contadini, che contrastano con le montagne brulle e i picchi imbiancati dell’Hindu Kush. Questo stretto territorio schiacciato tra il Pakistan a Sud e il Tajikistan a Nord appartiene all’Afghanistan ed è il risultato della spartizione tra due imperi, quello sovietico e quello inglese. I sovietici si insediarono in Tajikistan, mentre gli inglesi in Pakistan. Il fiume Panj e la catena dell’Hindu Kush rappresentavano una barriera invalicabile. Il risultato fu una completa separazione tra popolazioni e territori che da secoli avevano condiviso la stessa identità culturale e linguistica, divisione che ha separato per decenni molte famiglie residenti sulla sponda opposta del fiume. Solo in tempi recenti grazie all’Aga Khan il quale ha fatto costruire una serie di ponti che collegano le due rive, è possibile il ricongiungimento di famiglie che la politica colonialistica aveva distrutto.
Seguiamo il fiume che spesso sembra inghiottire noi e la pista nelle sue acque vorticose tanto siamo vicini all’argine. Per fortuna di tanto in tanto la valle si allarga un po’ concedendoci una tregua, ma su una pista come questa è impossibile rilassarsi perché i tratti sabbiosi anche se brevi sono molto insidiosi, poi ci sono i guadi, le frane e il sole accecante. Mi colpisce molto il contrasto della vita che scorre tra le due sponde. La parte tagika ha, soprattutto nei villaggi, qualche tratto asfaltato, l’elettricità, auto, camion e trattori. In Afghanistan i villaggi color ocra, sembrano appartenere ad epoche remote, dai camini esce fumo, i campi sono coltivati a mano e i sentieri che li collegano sono così impervi che l’unico mezzo di locomozione è il mulo.
Layangar è una piccola città immersa in un’oasi verde. Ci arriviamo verso l’ora di pranzo, dopo una discesa con pendenze da capogiro, provati ma soddisfatti. Ripartiamo. Ishkashim non è lontanissima, ma impiegheremo più di cinque ore per raggiungere uno spartano quanto provvidenziale albergo.
Ho la febbre, niente di grave, ogni tanto capita quando si mette il proprio fisico sotto stress. Questi malanni dovuti alla stanchezza, vanno accettati senza tante recriminazioni anzi, sono occasioni imperdibili per rallentare. Chi viaggia in moto è perfettamente inserito nel paesaggio circostante, ma qualche volta l’andatura sostenuta sottrae dal contatto con gli esseri umani. Senza questo inconveniente non avrei mai conosciuto il titolare dell’alloggio, un giovane di vent’anni o poco più che ospita alcuni bambini provenienti da famiglie poco abbienti, per insegnare loro l’inglese e nemmeno sua nonna, una donna straordinaria che tiene banco raccontandoti storie, di sicuro intrise di saggezza, ma in un incomprensibile dialetto locale. Fantastiche anche le due infermiere dell’ospedale di Ishkashim svegliate nel cuore della notte, la mia febbre sfiorava i quaranta, e la dottoressa, anch’essa chiamata d’urgenza al mio capezzale, che in un lampo aveva capito le origini della mia febbre, un’infezione che andava curata con gli antibiotici e una iniezione, una vera e propria sciabolata nella mia natica destra inferta con entusiasmo, forza e senza pietà da una delle sue abili collaboratrici, allo scopo di abbassare la temperatura. Esempi che confermano quante persone “buone” ci siano al mondo, i “cattivi” pochissimi e parlare di religione, in questo caso islamica, colore della pelle o culture diverse non ha senso. Sono gli individui con le loro azioni che fanno la differenza. Sempre.
L’alloggio è gremito da ciclisti di ogni dove: giapponesi svizzeri, tedeschi, francesi, malesi, tutti molto giovani e allenati. Nikolà arriva dall’India e sta puntando decisamente verso casa, Ginevra, che raggiungerà, nel mese di ottobre. Sato un fotografo giapponese simpaticissimo che deve ancora attraversare il Pamir. Una coppia di tedeschi con la faccia di chi ha viaggiato tanto. In questo angolo di mondo, una cittadina divisa da un fiume e collegata da un ponte mezzo tagika e mezzo afgana, ci ho passato tre giorni. Settantadue ore di cure amorevoli di Silvia. Niente male davvero. Se fossi stato solo sarei stato di sicuro più disperato, ma meno preoccupato. Le “vecchie pellacce” come me quando viaggiano in solitaria, anche in condizioni fisiche precarie, oltre che raccomandare la propria anima al Divino chiedono aiuto alla propria moto. Succede solo quando c’è feeling, una vera e propria fusione, che sarebbe più opportuno chiamare Magia, tra cavaliere e mezzo meccanico. Con Silvia, una creatura meravigliosa che mi abbraccia dal sellino posteriore ormai da migliaia di chilometri, la situazione è ben diversa. Non potrei mai salire in moto se non in perfette condizioni fisiche. Lei è la mia vita.
Antonio, che ha la necessità di rientrare velocemente in Italia, ci lascia, ripercorrerà a ritroso ancora una volta il Pamir per raggiungere la capitale kirghisa. Un privilegio per pochi eletti.
Ripartiamo. Khorog è a un centinaio di chilometri. Ancora montagne e il solito fiume che separa due popoli per centinaia di chilometri che invero sono uno solo. La città, oltre che essere l’incrocio tra la statale M41 e la nostra pista, è anche la confluenza tra i fiumi Panj e Gunt. Nel grosso centro c’è tutto quello che un viaggiatore si aspetta dopo un tragitto fuori dal mondo come questo. Ci sono negozi, mercati, alberghi e ristoranti. Peccato che oggi, domenica, a parte gli hotels, sia tutto chiuso. Ci fermiamo in un alloggio attratti più dall’insegna della pizzeria adiacente che da altro. Parcheggiamo la moto nel cortile interno. Un cane ferocissimo farà da guardia, anche se preferirei che l’amico a quattro zampe fosse messo in libertà e non legato con mezzo metro di catena. Le camere sono spaziose, pulite, confortevoli e un po’ care. Solo il gestore, uno strano individuo che oltre a non capire neanche una parola d’inglese e simpatico come pestare una fresca cacca di mucca con i sandali, lascia molto a desiderare. Ceniamo nell’unico ristorante operativo, un locale all’aperto con tavoli tradizionali dove si mangia sdraiati su coloratissimi tappeti di lana e soffici cuscini coccolati dal fruscio dell’acqua del fiume e da quattro leggere scosse di terremoto, ma niente panico, perché da queste parti succede spesso. Il cibo, a base di carne di montone in umido e riso, è ottimo.
Lasciamo Khorog, la capitale della Provincia Autonoma del Gorno Badachsan, ben coscienti di lasciarci alle spalle il Pamir. La strada, che non abbandona mai il fiume Panj, scende dai duemiladuecento a millecento metri di altitudine. Arriviamo a Kalaikum al tramonto, dopo un’intera giornata in sella. Il nostro viaggio non è ancora finito. Abbiamo ancora molta strada da percorrere, suddivisa in tre o quattro tappe, prima di raggiungere Bishkek, ma saranno giorni in cui le emozioni provate finora avranno il sopravvento sul resto del viaggio.
E’ il momento delle riflessioni. Vale la pena di visitare il Pamir? Spesso anche a casa gli appassionati delle due ruote mi pongono questa domanda.
Il Pamir è uno dei gioielli più preziosi di questo nostro straordinario pianeta. Un luogo magico e facile da raggiungere: chiunque potrebbe intraprendere questo viaggio. Fondamentale sono le giuste motivazioni, la curiosità e un po’ di esperienza che non guasta mai. Vi basterà seguire verso Est la Via della Seta per sei o settemila chilometri. Attraversare deserti infuocati come quelli di Karakorumi e Nukus, visitare splendide oasi come Khiva, Bukara e Samarcanda, finché sentirete parlare un lingua molto simile al persiano dove un fiume dalle acque spumeggianti color polvere da sparo vi sbarrerà la strada. Un corso d’acqua che vi terrà compagnia per centinaia e centinaia di chilometri, sempre in salita, sempre più in alto. A questo punto vi troverete circondati da cime coperte di neve e da panorami da togliere il fiato. Fermatevi, spalancate i polmoni ad un respiro profondo e godetevi lo spettacolo. Sarete sul Pamir, il tetto del Mondo.