Pakistan

Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 107 – Febbraio 2003

In un altro tempo

Partire per un viaggio in Pakistan non comporta grossi problemi: obbligatorio, naturalmente il visto turistico all’ambasciata di Roma, ed il “carnet de passage” per la moto all’ ACI, ma è soprattutto psicologicamente che ti devi preparare, perché il Pakistan è un paese particolare. Ci sono etnie diverse su un territorio molto vasto. Il clima è differente: caldo umido soffocante al sud, monsone in agguato nella zona centrale ed a nord, clima decisamente favorevole a nord di Islamabad e sulla Karakoram Highway. Tutto questo in agosto, naturalmente, il periodo scelto per il viaggio.
Dopo aver imballato per bene la mia KTM Adventure, ed i miei bagagli, chiudo la cassa di legno anonima, come mi hanno consigliato, ed imbarco il tutto al porto di Livorno; la nave impiegherà 30 giorni per arrivare a Karachi.
Con un comodo volo Turkish Airlines Milano – Istanbul – Karachi sbarco all’aeroporto internazionale alle tre del mattino, un caldo afoso mi assale all’uscita insieme a numerosi taxisti. La prima notte passa veloce in uno squallido motel nei pressi dell’aeroporto.
All’alba, un taxista di nome Hassan, mi conquista con la sua cortesia (mi ha atteso tutta la notte davanti all’albergo) e mi accompagna in un Hotel in centro.
Incomincia così un calvario burocratico che durerà per sei lunghissimi giorni. La moto è a Port Qasim, che dista quasi quaranta chilometri dal centro di Karachi dove sono gli uffici governativi; in taxi ci vogliono due ore, il traffico è allucinante, il caldo pure.
Passo da un ufficio all’altro, accoglienza cordiale, mazzette ovunque, depistaggi all’ordine del giorno.
Finalmente alla dogana del porto, dopo una sfuriata pazzesca, il responsabile capisce la differenza fra importazione temporanea della moto ed importazione definitiva ed ordina ai propri subalterni di consegnarmi la moto. Riuscirò ad averla “solo” dopo tre giorni.
Nel frattempo chiedo informazioni al consolato italiano di Karachi sulla situazione del Sind, la regione a sud del Pakistan, che devo attraversare. Le ultime notizie sul quotidiano “libero” News in lingua inglese sono funeste: I dacoit (banditi da strada organizzati in vere e proprie bande) rapinano ed uccidono ogni giorno sulla strada che collega Hyderabad a Sukkur.
Il funzionario del consolato italiano di Karachi mi riceve con cordialità e un po’ di stupore.
Mi chiede: quanti siete ? “Sono solo” rispondo.
Che autonomia ha la tua moto? 500 km dico io. “OK si può fare”, dice lui.
“All’ uscita di Karachi, percorri la superstrada per Hyderabad, e assolutamente fai il pieno di benzina. Dopo Hyderabad non ti fermare mai per nessuna ragione e arriva a Sukkur assolutamente prima del tramonto. Se hai qualsiasi problema nei primi trecento km chiamami sul cellulare, se hai passato Dadu, che sta circa a metà strada, chiama questa persona che vive a Sukkur, non farti scrupoli, qualsiasi cosa succeda è indispensabile recuperarti prima del tramonto”.
Ho seguito scrupolosamente i consigli del funzionario, ed a parte i primi 150 km di strada molto agevole a due corsie, dopo Hyderabad è un inferno.
Il problema principale è il traffico: centinaia di camion ad una “folle” velocità di 10 km/h, incolonnati uno dietro l’altro, in un caldo soffocante, tra fumi neri di scarico che ti tolgono il respiro. Ogni volta che attraverso un villaggio, un caos pazzesco, poi per il resto è come attraversare un’oasi coltivata, sembra di essere in Egitto sul Nilo, ma la gente qui mi sembra molto più disperata. Nelle prime ore del pomeriggio si alza un vento impetuoso, la velocità media è bassissima, ad ogni sorpasso il rischio è elevato, imparo a mie spese che su questa strada il motociclista non esiste. Quando un mezzo pesante ne supera un altro o ti sposti o sei morto.
Risaie, donne con l’acqua fino alle ginocchia ricurve al lavoro nei campi, bufali sdraiati nell’acqua fangosa con la pelle luccicante, tantissimi cani ovunque, gente che scava al sole, gente che cucina in strada, persone che riposano sui letti di corda ai lati della strada, biciclette, risciò, villaggi che appaiono improvvisamente dal polverone e poi odori ora pungenti poi profumati, carretti stracarichi trainati da enormi dromedari, tende sbiadite dal sole, frutta ad essiccare: questo è il ricordo indelebile del Sind.
Finalmente arrivo a Sukkur. Attraverso il fiume, la città è polverosa, e pernotto in un hotel più che decente. Ho percorso circa 500 km in 10 ore senza soste.
Al mattino, la prima sorpresa: mi aspetta la polizia fuori dall’albergo, mi scorteranno per due giorni, prima a Multan, poi a Latore. Mi dicono: “il traffico è pericoloso, seguici”.
La guida dice testualmente: attenzione ai turisti nel Sind, viaggiate sempre con una scorta armata, nel Punjab invece sarete accolti a braccia aperte.
Già, pura verità, ma dov’erano ieri, quando ne avevo bisogno? Il trasferimento di 1000 km circa fino a Lahore non ha nulla a che vedere con la prima tappa: strada discreta, traffico normale, villaggi decorosi, gente più che dignitosa.
Della scorta militare non ho niente da obbiettare, a parte la velocità massima di 50 km/h e le numerose soste per bere, dove non solo non pagavano mai le bibite, ma non permettevano neanche al sottoscritto di pagare, il proprietario del ristoro ci ringraziava, roba da matti.
Ad una sosta, un incontro interessante, un gruppo di studenti mi tempesta di domande, mi spiegano che stanno facendo la “ Peace Walk”, sono partiti da Islamabad e via Karachi – Baluchistan – Iran – Turchia – Bulgaria – Romania – Ungheria – Germania – Danimarca – raggiungeranno Oslo in Norvegia a piedi. Sono sei ragazzi di 20 anni, cammineranno per un anno!!
Ci abbracciamo e ci salutiamo, mi regalano dolci e succhi di frutta, sono commosso.
Multan la città più grande del Punjab, è anche la più calda del mondo, una vera tortura salire e scendere dal taxi. Pare abbia quattro cose in abbondanza: il caldo, appunto, la polvere, i mendicanti e le tombe. Punto di riferimento della città il forte Qasim Bagh e il bellissimo mausoleo dello sceicco Rukn-i-Alam ed il mausoleo di Baha-ud-Zakaria.
Parto per Lahore , cerco di dribblare la mia inutile scorta armata, anticipando di un’ora la partenza, ma i potenti mezzi radio Pakistani avvisano un posto di blocco sulla statale ed eccomi di nuovo accompagnato. Mi chiedono: perché non hai aspettato? Mi viene in mente il turco, che se ne va quando tutti dormono del film Mediterraneo e rispondo: “Nonso, nonso”.
L’entrata a Lahore è particolare, dietro la Jeep militare con sirena e urla dei miei amici militari a tutti quelli che si avvicinano. Mi accompagneranno direttamente all’albergo.
Mi fermo per due giorni, la città offre molto: il forte, la fantastica moschea Badshahi e, nella città vecchia, un vero gioiello: la moschea Wazir Khan. Interessanti inoltre i giardini Shalimar, anche se durante il pomeriggio arriva il monsone. Che strano paese il Pakistan: con il sole alcune persone hanno l’ombrello aperto, con la pioggia tutti lo chiudono e si bagnano felici.
Incontro due ragazzi Italiani di Milano, Laura e Jacopo, diretti nel nord dell’India. Ottima la serata in loro compagnia; non parlavo in Italiano ormai da 10 giorni.
Parto all’alba da Latore; la città si sta svegliando, chiedo informazioni per l’autostrada, l’unica di tutto il paese. Le informazioni sono contrastanti; finalmente vedo il casello; con mia grande sorpresa non mi fanno entrare: vietato il transito alle moto. Vani i miei tentativi con la polizia, cerco di spiegare al comandante che sono un turista e che la polizia mi ha scortato per buona parte del viaggio, per farmi evitare i pericoli del traffico. Niente da fare, guardo sconsolato l’autostrada: è deserta.
Arrivo a Rawalpindi nel pomeriggio dopo 350 km di traffico intenso sulla Grand Trunk Road. Sembra di essere in un altro paese: viali alberati, strade a due corsie, tutto più ordinato.
Ingaggio il solito taxista tuttofare di nome Farouk, e visito Islamabad, la capitale inventata circa 40 anni fa, al posto della troppo isolata Karachi. Costruirono la città su un modello tutto nuovo, sviluppandola in un’unica direzione, settore per settore, ormai tanto estesa da inghiottire Rawalpindi.
Degna di nota la gigantesca e moderna moschea Shah Faisal, che può ospitare 100.000 fedeli, fatta costruire da Re Faisal dell’Arabia Saudita.
Faccio amicizia con Farouk. Ottime le polpette piccanti di carne di montone accompagnate con soumosa (frittelle di verdura speziate e piccanti) da lui proposte. Mi chiama “old man” e dice che la mia barba bianca incolta da ormai 10 giorni mi fa molto pakistano, ed è molto stupito che alla mia veneranda età di 44 anni non sia ancora sposato.
Dalle pagine del quotidiano News leggo del conflitto secolare tra Pakistan e India nella zona del Kashmir, con decine di vittime da ambo le parti.
Riprendo il viaggio, la strada incomincia a salire, all’inizio solo verdeggianti colline, poi montagne color smeraldo, coltivazioni di riso a terrazze, campi di granoturco, bambine con costumi color fucsia con fascine in testa, che al mio passaggio salutano divertite, e villaggi con una moltitudine di persone affaccendate.
E’ più fresco, il cielo è coperto ed ogni tanto piove. La strada continua a salire; ogni tanto un ponte sull’ Indo impetuoso color terra. Numerose frane sulla KHH mi obbligano a soste forzate. Finalmente arrivo a Besham. Ho percorso 300 km in otto ore.
Pernotto in un alberghetto pieno di Giapponesi, gestito da un giovane, che mi racconta dell’Afghanistan, del problema dei rifugiati e di Massoud, l’eroe del Panshir e comandante dell’alleanza del nord che dopo aver resistito per anni ai russi, è ora accerchiato dal regime dei Talebani.
Riparto, il paesaggio si trasforma, la strada è scavata nella nuda roccia e costeggia senza protezioni uno strapiombo. Sotto di me l’acqua del fiume ribolle con una violenza inaudita, poi frane, detriti, ponti sospesi. Ad un certo punto un macigno grosso come un camion blocca la strada; ci vorranno ore e due bulldozer per liberare la strada. Attraverso una zona desertica. La temperatura sale, ed ad un certo punto, con mia grande sorpresa, mi ritrovo in una verdissima oasi: pioppi, alberi da frutto, granoturco. Il paesaggio è spettacolare. Arrivo a Gilgit quasi a notte fonda: 340 km 12 ore di moto.
Nella notte pioggia fitta. Riparto in mattinata sul tardi, il cielo è color piombo, la strada sale, il paesaggio è stupefacente: montagne a picco, ghiacciai che lambiscono la strada, paesi circondati da oasi verdi. Finalmente sono in Hunza Valley. Adesso il sole splende, a queste altitudini, (3000 metri) il monsone non arriva, bloccato dalle vette Himalayane. Pernotto a Pasu (3500 metri), un paesino circondato da una stupefacente catena di montagne.
Ultima tappa a Nord, destinazione Kunjerab Pass (4780 metri) ossia il confine tra Pakistan e Cina.
Paesaggio mozzafiato, altissime montagne fiancheggiano la strada. Ad un certo punto la strada entra in una gola da brivido; non c’è anima viva, ogni tanto un posto di controllo della polizia. Arrivo a Sust, centinaia di camion in sosta, alcune frane spettacolari, arrivo nel parco del Kunjerab, pago 4 USD, compilo il solito registro e via al passo. Mancano solo 30 km, sembra passata una vita dalla partenza di Pasu, invece solo due ore. La valle si chiude fra montagne innevate, si sale. Mancano 15 km, alcuni agili tornanti, un pensiero alla moto, ok il motore gira bene, finalmente arrivo in cima; il passo è largo e mi fermo dietro una sbarra. Da lontano qualcuno mi chiama; evito la sbarra e proseguo. L’accoglienza della polizia di confine Pakistano/Cinese è molto calorosa, i cinesi mi fanno entrare in moto in Cina per alcuni metri, i Pakistani si divertono per questo “sconfinamento” abusivo.
Sulla via del ritorno, alcune forature mi costringono ad una sosta forzata a Sust. Il cordiale gommista mi restituisce le camere d’aria come nuove.
Pernotto a Karimabad, carina, e molto frequentata dai turisti. Qui incontro un gruppo numeroso di “avventure nel mondo”, cena tutta italiana all’aperto, clima fantastico.
Ritorno a valle sulla KKH, verso Skardu nel Baltistan, la strada lascia la KKH con un ponte sospeso da panico, poi avanti su una strada secondaria molto stretta, una gigantesca frana mi impedisce di proseguire; ha un fronte di 8 km circa. In alcuni tratti la massicciata è stata spazzata via, si passa solo a piedi. Ritorno a Gilgit sconsolato.
Riparto il giorno successivo per la zona dell’ Hindukush. Lasciato Gilgit incomincia quella che i Pakistani chiamano “Jeep road”, cioè uno sterrato più simile ad una mulattiera che ad una strada.
In alcuni punti, la strada sembra perdersi nel nulla. Fortunatamente, la zona è popolata e tutti mi indicano la direzione dello Shandur Pass. Percorro 80 km in quattro ore, arrivo a Gakuch, un villaggio, compro Chapatti (pane) e faccio rifornimento di benzina. Da qui in avanti non c’è più niente. La strada è sempre molto sconnessa, cado diverse volte, ma niente di grave. Dopo altri 50 km e tre ore di moto sono sconvolto dalla fatica e decido di passare la notte in un ricovero puzzolente ma accogliente. Cordialissimo il gestore, ceniamo insieme con riso, dhal (poltiglia di lenticchie) e chapatti e niente altro. Lui parla urdu, io italiano, ma ci capiamo benissimo.
A notte fonda un gruppo di Jeep pakistane arriva al ricovero. Vedono la moto, mi svegliano,
vogliono conoscermi; all’inizio penso che abbiano cattive intenzioni, poi è come una festa, di nuovo riso e dhal per tutti.
Alle 4,30 del mattino, sveglia per tutti, visto che il capo del gruppo pakistano urla come un pazzo. Saluto e riprendo la strada verso lo Shandur Pass. Dopo un’ora il sole spunta, l’aria è fresca; di tanto in tanto incontro qualche contadina, la strada è poco più di un viottolo, arrivo a Phander. La valle si allarga, ci sono parecchi animali al pascolo, incontro un gruppo di Francesi accampati, che mi offrono la colazione. Riparto, la strada incomincia a salire, arrivo in cima, il passo è molto ampio e verde, in fondo su uno spiazzo capeggia una tenda, consumata dal sole e dal vento. La scritta è tutto un programma: Hotel Shandur !!
I militari mi accolgono curiosi, vogliono fare delle foto con me e la moto, incomincia una discesa tremenda, pietre, piccoli guadi, strapiombi, cielo terso e … due tedeschi in bicicletta!!
Sono partiti un anno fa dal Vietnam e sono entrati in Pakistan dalla Cina. La ragazza mi confessa: “siamo saliti allo Shandur in Jeep”.
Riparto, attraverso villaggi da fiaba, prati verdissimi, alberi, ruscelli di acqua cristallina, oasi in mezzo a montagne di roccia, la strada migliora un po’. Incomincia a fare caldo, ad un certo punto dal cielo blu cobalto sbuca la cima innevata dello Tirich Mir con i suoi 7700 metri. Incontro una vecchia Jeep Toyota con i pezzi di motore stesi su una coperta, ed alla mia domanda: “cosa fai adesso?”Il Pakistano risponde senza esitare: “Inshallah” e mi saluta.
Finalmente, dopo 12 ore di moto, mi ritrovo sull’asfalto. Sembra un miraggio, e con l’asfalto di nuovo la civiltà, cibo e l’immancabile coca cola.
Pernotto in un buon albergo a Chitral; ottima la cena.
Mattinata dedicata alla visita della magnifica Shahi Masjid (moschea).
Pomeriggio passato nel giardino dell’albergo, in compagnia di un cittadino americano, che acquista lapislazzuli di contrabbando da alcuni Afgani, che attraversano il confine con dei muli. Uno di loro molto giovane mi chiede: “Ti piace il Pakistan?” “Sì, certo” rispondo io. Lui, con le lacrime agli occhi mi risponde: “Il mio paese è dieci volte più bello”
Notte da delirio, febbre alta, forte mal di testa, la stanchezza accumulata nei giorni precedenti si fa sentire.
Riparto dopo aver passato un’intera giornata a letto e dopo aver ammazzato un grosso scorpione, praticamente nel mio letto. Saluto il proprietario, che mi ringrazia di cuore di aver ammazzato lo scorpione.
La febbre non passa e decido di puntare decisamente su Islamabad, saltando purtroppo la valle dei Kalash. La strada è molto tortuosa e passa obbligatoriamente dal Lowari Pass , famoso per i suoi 50 tornanti tutti su fondo sterrato. Attraverso un incredibile bosco di cedri arrivo in cima. Fa abbastanza freddo e di tanto in tanto piove. Prima di arrivare a Dir, sono di nuovo con la gomma a terra.
Da questo punto, una formalità, la strada migliora. Adesso fa molto caldo, arrivo a Rawalpindi alle otto di sera, 460 km, 12 ore di moto.
Il giorno seguente, di nuovo febbre. Chiedo informazioni all’ ambasciata Italiana, mi consigliano lo Shifa Hospital. “E’ un posto sicuro” mi dicono. Una graziosa e gentile dottoressa mi visita e mi prescrive degli esami del sangue. Secondo lei ho bevuto acqua minerale tossica. Mi spiega che nelle zone di montagna, l’acqua minerale nelle bottiglie immagazzinate talvolta per anni raggiunge una tossicità elevata, soprattutto per i turisti.
In pochi giorni mi sono ripreso completamente, ed ho passato gli ultimi giorni in compagnia di Alessandro, un carabiniere in servizio all’Ambasciata Italiana e di Farouk, il taxista, che mi ha aiutato nelle pratiche per la spedizione aerea della moto con la Pakistan Int. Airlines.
Parto dall’aeroporto di Islamabad con un volo nazionale per Karachi, ed al check-in con mia grande sorpresa alcuni viaggiatori pakistani dichiarano un Kalashnikov AK 47 a testa.
Mentre decollo, penso a quale mezzo inadeguato sia l’aereo per visitare un paese come questo, in poco meno di due ore arrivi a destinazione con tutto il confort di poltrone comode, aria condizionata, bevande fresche, cibo e musica, sorvolando un mondo ed un’umanità talvolta disperata, che quando alza gli occhi al cielo non pensa sicuramente agli aerei, ma lo fa per pregare Dio e nella speranza di un futuro migliore, di un futuro soprattutto di pace.

CONSIGLI UTILI
Se decidete di visitare questo paese, vi consiglio di evitare il Sind. Spedite la moto direttamente ad Islamabad. Così fanno alcuni operatori turistici.
Le informazioni sul Pakistan, sono spesso errate. Lungo la strada nessuno conosce veramente cosa succede 100 km più avanti. L’unica fonte seria di informazioni è la ns ambasciata di Islamabad ed il ns consolato di Karachi.
Per i gruppi, nessun problema di ambientamento, per i solitari, invece,preparatevi bene psicologicamente ad un paese veramente diverso.
Ricordate, comunque, che la bellezza dei luoghi e la cordialità degli abitanti, soprattutto nel nord, vi aiuterà tantissimo ad apprezzare un paese fantastico.
Unici veri problemi: il traffico sulle strade, la guida spericolata dei pakistani (attenzione si circola a sinistra), e le numerose frane sulla KKH.
Per il viaggio: consiglio una moto enduro leggera, gomme tassellate e pochi bagagli.