Oman

Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 139 – Aprile 2006
Quale sarà la strada giusta?

 

Le motivazioni che spingono a viaggiare sono numerose. Qualche volta è la forte attrazione per un continente in particolare, altre volte è la cultura, le etnie, la storia che spingono a visitare un luogo. L’itinerario viene studiato a tavolino sulle mappe, poi, valutata la fattibilità in termini di tempo e chilometri da percorrere si entra nei dettagli e si fa un vero e proprio elenco delle città, dei siti archeologici, delle strade panoramiche di maggior interesse e per finire si fissa un budget di spesa.
Il viaggio parte sempre dall’esigenza di arricchire la propria conoscenza: vedere posti mai visti prima e conoscere persone nuove,  che trasmettano l’immagine del proprio paese.
Di solito è così, ma in questo caso la situazione è diversa. La molla che ha fatto scattare quel meraviglioso ingranaggio che è “viaggiare” è nata dall’esigenza di un gruppo di amici, appassionati motociclisti, di stare insieme. Un paio di telefonate, qualche e-mail  ed il fattore determinante di avere sul posto l’amico dell’amico, che si informi sulle problematiche burocratiche e logistiche, sono più che sufficienti per prendere una decisione in merito. L’Oman ha molto da offrire ad un viaggiatore curioso e attento. Prima fra tutte una notevole varietà ambientale; da una fascia costiera affacciata sull’Oceano Indiano, con golfi, isole, penisole e baiette affascinanti a un entroterra con montagne rocciose e brulle alte fino a 2500 metri e un enorme deserto con dune bianche, giallo e rosse che scendono fino al mare, abitato ancora da beduini nomadi con le loro mandrie di capre e cammelli. In poche parole ci sono tutti gli ingredienti per gli amanti delle sabbie dei deserti Sahariani, un bel mare e, non ultimo, un clima a dir poco spettacolare con temperature che oscillano da 20 a 30 gradi anche d’inverno.
Il problema più importante da risolvere è la spedizione della moto. Scartata l’ipotesi di spedire con un aereo visto i costi esorbitanti proposti dalla Emirates Airlines, optiamo per la più economica spedizione via mare, poi, prima che l’avventura incominci, c’è solo il tempo per un accurato controllo dei mezzi prima della chiusura del container nel porto di Livorno.
La cosa che più colpisce uno straniero in questo paese  è l’estrema gentilezza e l’assoluta mancanza  di  stress degli Omaniti.
La Superstrada a due corsie di recente costruzione che conduce verso il porto Mina Qabus di Muscat non è molto trafficata ed Elias, amico di Marco, uno dei componenti della spedizione, si è offerto di darci una mano  per il disbrigo di tutte le pratiche. Guida una potente jeep Toyota e si guarda bene dal superare i centoventi chilometri orari, la massima velocità consentita sulla strade omanite a lungo scorrimento e mi fa notare le numerose telecamere che riprendono ogni movimento: i trasgressori si vedranno recapitata direttamente a casa l’ammenda.
Il centro del mondo in Oman è il Sultano Qabus bin Said. Aveva trent’anni quando nel 1970 depose dal trono il padre, ereditandone un paese tra i più poveri e arretrati al mondo. Fino a quel momento l’Oman viveva nel più profondo Medioevo: non aveva luce elettrica, fognature, acquedotti, nè conosceva giornali, radio, televisione. Le strade asfaltate erano utopia, esisteva un solo ospedale e nel paese non potevano entrare gli stranieri. Il vecchio Sultano Said bin Taimur, che aveva potere di vita e di morte sui suoi sudditi e applicava la “politica della lesina” in modo esasperato, rifiutando qualsiasi spesa per miglioramenti civili e sociali, fece chiudere le poche scuole già peraltro precluse alle femmine, perché possibili fonti di pericolose idee rivoluzionarie. A quei tempi Muscat era ancora la città di molti secoli prima, chiusa da mura e dominata dalle fortezze portoghesi, dove di notte vigeva il coprifuoco e non si poteva circolare per le strade senza portare una lanterna, dove il traffico nelle anguste viuzze era quello di asini e cammelli, e dove si praticava ancora clandestinamente il commercio degli schiavi. Il 23 luglio 1970 l’Oman riparte da zero. Quel giorno nel palazzo reale di Salalah, il Sultano ricevette una delegazione  che chiese la sua abdicazione. Qabus bib Said, che aveva studiato in Inghilterra, si convinse della necessità di portare la sua nazione a una svolta radicale. Colleziona un successo dopo l’altro, grazie alla lungimiranza, al buon senso, all’utilizzo delle risorse petrolifere per l’effettiva crescita del paese e al consenso della popolazione. Non mancano operazioni ad effetto come l’azzeramento di tutti i mutui sulla casa per tutti gli omaniti in occasione del venticinquesimo anniversario del suo regno. La gente lo adora. E come non potrebbe? Immaginate cosa succederebbe se Berlusconi  in collegamento televisivo a rete unificate  annunciasse agli italiani, che tutti i mutui sulla prima casa fossero estinti dal 1° gennaio 2006? Gli italiani lo voterebbero per duemila anni consecutivi!
Ma il sultano non finisce mai di stupire. Ci sono giorni in cui la popolazione lo aspetta lungo l’elegante viale che conduce ad uno dei suoi numerosi palazzi. Chi chiede una nuova automobile, una casa, un lavoro, un terreno! Lui, senza batter ciglio, cerca di accontentare tutti. Le forti entrate del paese  vengono reinvestite e il benessere della nazione si percepisce ad ogni angolo di strada.
Gli impiegati del porto ci ricevono con estrema gentilezza nell’elegante ufficio marittimo e Mister Talal, incaricato di seguire le nostre pratiche, avvolto nel suo lindo abito tradizionale, ben rasato e profumatissimo,  con una calma disarmante e sottovoce  ci informa: “le moto sono già state sdoganate e vi aspettano nel porto, i dolci non dichiarati nella lista doganale vi verranno eccezionalmente consegnati e lo spumante invece sequestrato perché l’importazione di alcool nel paese è severamente proibita”. Vano il nostro mercanteggiare per avere qualche bottiglia di spumante in cambio di qualche panettone. Talal è gentile, ma: “I’m very sorry, non posso farci niente”. Usciamo dal porto quasi al tramonto, troppo tardi per partire, quindi tutto il gruppo, 14 persone, si accampa a casa di Elias. Il Dr. Elias è di origine greca e si è laureato in veterinaria all’università di Sofia. Dopo un master di alcuni anni a Edimburgo si è specializzato in ginecologia per “giovani cavalle.” Lavora nello zoo privato del sultano e oltre a badare ai 1300 cavalli e 500 dromedari, si cura anche degli orsi, struzzi, antilopi e pappagalli.
Finalmente ci muoviamo verso Sud, lungo la costa fino a Qurayyat. Fathi, il nostro driver del pick-up al seguito, apre la via. Quarant’anni, un volto simpatico, sarà la nostra guida omanita per tutto il viaggio. Parla un ottimo inglese, è molto pignolo, non si cura per niente delle indicazioni dei nostri GPS e ad ogni incrocio commenta: “Questa è la strada giusta!”
Nei pressi di Tiwi incontriamo il primo sterrato, un fondo duro e levigato, molto facile, che conduce fino a Ras al Jinz, un’area protetta. Un ampio spazio attrezzato consente di piazzare il campo tendato. Solo il tempo di cenare, poi alcuni omaniti ci invitano sulla spiaggia, dove una grossa tartaruga sta depositando le uova: impressionante le dimensioni e la grande fatica che produce l’animale per scavare e ricoprire le uova. A Sur, una cittadina costiera, visitiamo l’interessante mercato del pesce e un cantiere nautico dove ammiriamo un’imbarcazione completamente in legno che ha navigato per mezzo mondo. Rientrando sull’asfalto verso Nord, attraverso un valico con curve e saliscendi molto divertenti, visitiamo il Wadi Banj Krad. Un facile sentiero conduce in una stretta gola dove è possibile fare il bagno in alcune pozze d’acqua cristallina. Al Qabil è la porta per entrare nella zona desertica del Ramlat Al Wahaybah. Una ripida salita sabbiosa conduce sull’altipiano dove campeggiamo al ridosso di una duna enorme. E’ il primo campo nel deserto, raccogliamo legna per il fuoco giusto in tempo per la visita di alcuni beduini che ci offrono datteri, che ricambiamo con un robusto caffe italiano. La temperatura notturna è abbastanza fresca e umida perché il mare dista poco più di cento chilometri. Intorno al fuoco per la prima volta il gruppo si compatta. Alcuni di noi si sono conosciuti lungo le strade del mondo e  tutti più o meno abbiamo alle spalle parecchie “campagne” in Africa e in Asia.  Andrea, in sella ad una malandata e molto vissuta Bmw F 650 P/D è un esperto pilota di moto rally ed è in assoluto il punto di riferimento del gruppo; in coppia con Eleonora, per gli amici Pina, sempre pronta, a sostituire qualsiasi centauro maschio su ogni mezzo a due ruote nonostante sia l’immagine perfetta della femminilità. Marco di Ivrea, trapiantato ad Atene, su Ktm 525 exc; “la strada giusta” gli ha fatto incontrare Irene,  greca/eritrea/italiana simpaticissima, che si alterna come passeggero sul pick-up, oppure, dimostrando l’elevato livello d’innamoramento nei confronti di Marco, sull’angusto sellino della Kappa. Gianpiero, che in una vita precedente faceva il gladiatore, doma  come nessun altro potrebbe, una “mucca”, cioè una mastodontica Honda Africa Twin un po’ datata, ma che abili mani hanno trasformato in una “purosangue” da competizione, in coppia con la dolce Claudia.  Stefano,  padovano, l’unico a non avere la moto adatta; la sua Yamaha Tdm non ha le gomme tassellate, ma lui se la cava egregiamente come fosse un veterano della Dakar. Giorgio, brianzolo, esperto endurista con una Honda Transalp vecchiotta, efficace, ma soprattutto, il giusto compromesso per viaggiare “appiccicato” alla sua compagna Viviana. Andrea, sardo, ma milanese al cento per cento; il suo cavallo è una mitica Honda Africa Twin rimessa a nuovo sia nel motore che nelle gomme. Renato, per gli amici “Renè le magic” per le sue performance da abile prestigiatore è un coctail fra un arabo,  uno spagnolo, un nero africano, ossia un Napoletano DOC, abilissimo sia in cucina, crea e serve cibi prelibati commentantando ogni volta: “Assaggia è buuuooonooo” che nelle trattative con qualsiasi venditore. Solitamente si presentava ai viaggi con dei vecchi “catramoni”  d’occasione comprati chissà dove:  questa volta è in sella ad una stupefacente Yamaha 600 TTR. Walter, chiamato Walterone per la sua mole e la sua proverbiale disponibilità, milanese, metà  centauro metà pilota ufficiale della jeep, sempre pronto a dare una mano a quelli in difficoltà. E per finire Ilaria, figlia diciottenne di Viviana, il nostro pulcino, imbattibile nell’affettare cipolle in cucina e famosa per la “pasta asciutta” a colazione. Insieme a Fathi e al sottoscritto siamo un gruppo formidabile.
Seguiamo una pista segnata da profonde tracce lasciate da pesanti fuoristrada, che ci mette un po’ in difficoltà. Le tecniche di guida su sabbia sono molteplici, ma seguendo la semplice regola: “se sei incerto tieni aperto” superiamo ogni ostacolo e, raggiunta la velocità di ottanta chilometri orari, la moto sembra volare. Presi dalla libidine del deserto, io e Marco allunghiamo le distanze dal resto del gruppo con il risultato di finire fuori rotta. Fathi, omanita purosangue di Nizwa, una cittadina del Nord, ci informa che la “strada giusta” era quella che ci siamo lasciati alle spalle da trenta chilometri e che lui non conosce assolutamente la zona. Quindi ci affidiamo ai nostri GPS. La via nel deserto all’inizio è facile da seguire, poi inaspettatamente le tracce si perdono fra dune bianche  di sabbie tenere e infide. Ad ogni sosta segue una partenza con la sabbia al mozzo ruota e Stefano, in sella ad una Yamaha con gomme da strada, che fin’ora aveva guidato con grande maestria, incomincia a far fatica a tenere il passo con il gruppo. Ad un tratto, come per magia, l’ultima traccia si perde nel nulla, il GPS indica che il mare è a soli 38 chilometri, ma l’unico mare a perdita d’occhio è il deserto. Piccole dune alte 4/5 metri si rivelano una vera e propria trappola. Anche la jeep guidata dal nostro validissimo Walterone è in estrema difficoltà. Andiamo avanti tra mille difficoltà, ma la stanchezza si fa sentire e la media scende inesorabilmente. Anche il pick-up di Fathi si insabbia costringendoci al ruolo di scavatori. Decidiamo di ritornare indietro, in fin dei conti non siamo alla Paris/Dakar.  Sulla via del ritorno Stefano è tradito da una duna maledettamente ripida e finisce la sua corsa  dopo un volo di alcuni metri in una buca profonda. Per lui solo qualche lieve escoriazione al naso, ma per la sua moto, che ha piegato le forcelle, i danni sono irreparabili. Ci vogliono più di due ore per fissare la moto al gancio di traino della jeep, con un sistema molto complicato quanto geniale escogitato da Andrea. Ci accampiamo in una radura dove troneggia un gigantesco albero, l’unico in tanti chilometri. A pochi metri di distanza c’è un pozzo con alcune vasche ricolme di acqua dove possiamo rinfrescarci. E’ una strana sensazione quella di lavarsi con dell’acqua tanto preziosa. Per chilometri e chilometri non c’è niente e mi immagino questo luogo in piena estate quando il termometro supera i cinquanta gradi. L’acqua rappresenta la salvezza per uomini e animali e francamente, nonostante in questo momento sia abbondante, non mi va di sprecarla per una doccia, perciò una leggera sciacquata è più che sufficiente. Ripartiamo seguendo la rotta a ritroso dei GPS fatta il giorno precedente. Fathi ci stordisce dicendo che questa non è la strada giusta. In effetti il deserto percorso in un orario diverso non sembra più lo stesso tanto i colori sono più accesi, ma non ci sono dubbi: “questa è la strada giusta.” La ruota di scorta della jeep appesa sotto la scocca si stacca finendo sotto la gomma della moto trainata. Il risultato è catastrofico: cristallo del lunotto posteriore esploso in mille pezzi, portellone ammaccato e la moto sempre più malconcia. Finalmente, usciamo dalla zona desertica e raggiungiamo un distributore di benzina. Le moto sono quasi a secco, i consumi sulla sabbia sono quasi triplicati. Dopo le 17,00 il sole sprofonda rapidamente. Puntiamo ad Al Ashkharah che dista solo 130 chilometri. La sensazione lungo questa bella strada asfaltata per niente illuminata e senza luna è strana: la pavimentazione “nerissima” deve essere  molto recente, terra e cielo sembrano fondersi in un’unica entità: sembra di volare! Di tanto in tanto folate di vento trasportano microscopici granelli di sabbia che, illuminati dal faro, si trasformano in tante lucciole. Il deserto, reso invisibile dall’oscurità,  è sempre intorno a noi e sembra quasi volerci ghermire con le sue lunghe braccia come se non volesse farci andare via. Al Ashkharah non è altro che un paesotto senza grandi pretese, ma la cena in un colorito ristorante a base di pesce, pollo e humus è squisita come l’accoglienza dei suoi abitanti, avvolti nei loro abiti lunghi e candidi, che si sbracciano per salutare il nostro passaggio. Pernottiamo nel moderno e confortevole ostello della gioventù. La trattativa fra il gestore e Renè è lunga e concitata, ma alla fine otteniamo un “modesto” sconto del 50%.
Seguire la costa oceanica dell’Oman può essere un’impresa facile o impossibile. La prima regola da rispettare sono le maree. Con la bassa marea è possibile seguire l’agevole bagnasciuga, ma quando il mare sale si rischia di essere intrappolati tra le ingannevoli e cedevoli dune. Ci sono strade in questo meraviglioso paese che non portano da nessuna parte. Questa per esempio, per oltre trenta chilometri è ben tracciata e trafficata da numerosi mezzi locali, poi improvvisamente scompare nel nulla lasciandoci nel panico con la sabbia fino alla cintola. Per fortuna sono solo brevi i tratti in cui affoghiamo nelle profonde V lasciate dai mezzi pesanti, ma in compenso la spiaggia è fantastica: sembra di essere su un’autostrada a sei corsie tanto è larga e levigata. L’oceano, ritirandosi di tanto in tanto, lascia delle buche profonde colme d’acqua. Ne fa le spese Renè, che distratto dalla bellezza dei luoghi, vi finisce dentro facendo un bagno fuori stagione. Dopo aver percorso più di 100 chilometri pensiamo di essere arrivati alla meta, ma, improvvisamente una scogliera ci sbarra la strada. L’unica via d’uscita sembra essere quella che porta verso dune altissime apparentemente invalicabili. Chiediamo informazioni ad un Toyota di omaniti. La risposta è serafica: “Questa è la strada giusta!” Interviene Fathi, che annuncia: “ Il pick up è troppo carico e non può passare”. Walterone aggiunge: “non me la sento di guidare la jeep su una pista così impegnativa”. Il gruppo dopo una lunga riflessione decide di tentare “il gran balzo” con le moto e di affidare i mezzi a quattro ruote agli omaniti che si prestano volentieri all’impresa previa mancia di 25 rial. Le moto partono, i motori urlano. In prima marcia, la ruota posteriore scava come la benna di un caterpillar, ma in seconda si va avanti. Una dopo l’altra superiamo una decina di dune da far invidia a Lawrence d’Arabia. La spiaggia è di nuovo in vista. Nemmeno il tempo di pensare di essere fuori dai guai che una nuova deviazione ci riporta in un luogo a metà strada fra un campo minato irto di aguzzi speroni di roccia e una sabbiosa palude mortifera. Dopo essere caduto tre volte in dieci secondi, con la sabbia che smeriglia anche le protesi dentarie penso: “Bèh, adesso che faccio, chiamo il carro attrezzi?” A fatica ci trasciniamo fuori, sudando le fatidiche sette camicie, siamo tutti stanchissimi, in compenso facciamo campo sulla meravigliosa spiaggia di Ras Ar Ruways affacciata sulle tiepide acque dell’oceano Indiano: un bel bagno è la giusta ricompensa, poi tutti a dormire cullati dal rumore delle onde sulla battigia.
Fathi, la guida omanita, che alla veneranda età di 47 anni si è appena risposato con una ventenne, a mio parere è un uomo straordinario. Non conosce le strade, nè sa guidare sulle dune ripide, ma ha l’umiltà di ammetterlo e questo lo rende ai nostri occhi un grande. Di animo gentile e colto non si può che volergli bene.
L’orizzonte si appiattisce e annuncia la laguna di Al Najdah dove dalla sabbia compatta si materializza un’esile striscia di nero e scivoloso asfalto. Superato Hijj, invece di seguire la noiosa strada asfaltata, imbocchiamo la pista che conduce a Film. Come spesso accade in Oman la direzione indicata dai GPS ci porta a perderci in una landa desolata. Incontriamo un beduino con pick-up e due cammelli che finalmente ci indica la giusta direzione. La strada asfaltata era solo a due chilometri, ma un erg sabbioso ci impediva di vederla.
Ras Madrakah ci accoglie sulla sua bellissima spiaggia di ghiaia sottile incastonata fra brulle e rocciose montagne dai toni verdi e grigi, mentre un gruppo di pescatori sta caricando su un camion alcuni grossi squali catturati al largo di queste pescosissime coste. Dopo tanti chilometri, lasciamo la costa in direzione di Shalim, lungo i 200 chilometri di uno sterrato pietroso, ma facile. Mentre stiamo attraversando la zona petrolifera di Marmul guardo un po’ sconsolato le numerosissime pompe che aspirano senza sosta il prezioso oro nero. La benzina in Oman costa poco più di 0,22 euro litro in Italia invece… Salalah dista da Muscat più di mille chilometri. Infinite distese desertiche. Arrivati a Thumrayt invece, il paesaggio cambia drasticamente. Le pianure sabbiose lasciano il posto a dolci montagne. Sembra di essere in Svizzera: vegetazione, prati, alberi e mucche al pascolo. Anche l’aria salendo di quota è più fresca, poi una lunga discesa ci porta fino a Salalah. Entriamo in questa città di 100.000 abitanti, ma piuttosto anonima: file interminabile di negozi identici, sartorie indiane, le donne completamente coperte dalla testa ai piedi dal tradizionale abito color nero che lascia scoperti solo gli occhi. Dopo tante notti passate in tenda finalmente un vero letto in un albergo di lusso: camere quadruple per 5 Rial a testa, cioè circa 11 euro. Un piccolo gruppo di  moto segue Andrea per una piccola spedizione nell’entroterra. L’obbiettivo è quello di vedere la famosa pianta dell’incenso che nei secoli passati veniva scambiato a peso d’oro. Sulla strada visitiamo il mausoleo di Giobbe, poi seguendo uno stretto sterrato ci perdiamo come al solito fra mille saliscendi di questo meraviglioso altopiano. Seguendo le giuste indicazioni di un gentile omanita, ben presto ci ritroviamo su una ripida mulattiera, che mette un po’ in difficoltà il nostro Walterone motorizzato Africa Twin per l’occasione. E’ solo un po’ di apprensione, ma alla fine ritroviamo tutti l’albergo felici e soddisfatti. Lungo la costa che conduce a Mirbat visitiamo il castello di Taqah, le meravigliose spiaggie di Tawi e un importante sito archeologico fenicio, poi si punta decisamente verso Nord lungo la statale N. 31 che ormai è completamente asfaltata.
Decidiamo di fare una deviazione per vedere le dune rosse del Ar Rub Al Khali. Sul lungo sterrato che conduce a Ubar, Giorgio perde la targa della sua Transalp. Dopo Ubar le dune rosse si manifestano in tutto il loro splendore, sono solo i primi contrafforti del magnifico e immenso deserto che si estende fra l’Oman, lo Yemen e l’Arabia Saudita. Su un lungo rettilineo della strada nazionale la Transalp di Giorgio, dopo aver perduto la targa, investita da una raffica di vento, esplode come un vecchio caccia tedesco Stuka colpito sulla Manica dalla contraerea inglese. I rottami delle plastiche del cupolino e della carena lasciano una lunga scia dietro alla moto. Giorgio, senza batter ciglio, accosta, si fuma una sigaretta, poi con molta pazienza sistema tutto con il nastro americano e riprende la strada. Anche la Bmw di Andrea si ferma per un guasto elettrico e, nonostante il caparbio Bergamasco tenti in ogni modo di rianimarla anche con la respirazione “bocca a bocca”, la moto non ne vuole sapere e viene inesorabilmente caricata sul pick-up di Fathi. Per recuperare i ritardi, decidiamo di guidare per altri 200 chilometri anche se ormai è molto tardi. Ci dirigiamo a Est con il sole che va scomparendo alle nostre spalle. Non bisognerebbe guidare su queste strade di notte, senza illuminazione. Non è difficile finire in una delle numerose buche disseminate lungo il manto stradale. Inoltre, di tanto in tanto, incontriamo il solito cartello di pericolo che avvisa: “attenzione attraversamento cammelli.” Il cammello a una sola gobba o dromedario è un animale alquanto bizzarro. Può rimanere completamente immobile, incurante del passaggio rumoroso delle motociclette, oppure partire con uno scatto degno di un centrometrista e correre, anche se per pochi metri, davanti alla moto come se non volesse farsi superare, poi uno scarto e via, scomparso nel nulla. Scherzi a parte, sbattere contro un dromedario che sbuca nella notte è come sbattere contro una collina che ti attraversa la strada, perciò meglio procedere ad andatura più bassa per non rischiare. Oltretutto per l’Islam il cammello è considerato un animale sacro perché conosce la centesima parola del significato di Allah. Le prime 99, come grande, misericordioso, onnipotente, etc. sono conosciute dall’uomo, ma la centesima è gelosamente custodita nella straordinaria e complessa mente del cammello.
Al tramonto le mutazioni del cielo sono incredibili quanto repentine. Dietro di me il sole si corica in un incendio di colori che vanno dal rosso acceso, al viola, all’arancio. Davanti invece, su un fondo azzurro tenue, alcune timide nuvole bianche cedono lentamente a un incalzante rosa pallido. Una nuvola, un velo appena accentuato, che somiglia a un filiforme gabbiano indeciso sulla direzione da seguire, se ne sta lì da tempo aspettando forse l’illuminazione, poi finalmente anche lui segue “la strada giusta”.  Ci sono dei momenti in cui mi sembra quasi di scorgere i suoi occhi e il suo sguardo severo, poi piano piano scompare nel buio completo che ci avvolge. Sono visibili solo le stelle e la luna, uno spicchio sottilissimo e dorato che prende colore e intensità come se un pittore, immerso il suo pennello nell’oro zecchino, avesse dato in un sol colpo, una precisa pennellata nell’oscurità.
Nizwa è a meno di 200 chilometri, arriviamo giusto in tempo per il pranzo e per visitare il pittoresco mercato e il castello, che offre interessanti testimonianze dell’ingegno umano in fatto di irrigazione artificiale. C’è solo il tempo per alcuni scatti, poi una volata lungo la divertente strada che attraversa le montagne fino a Muscat.  Sarà questa la strada giusta? Spero di sì! Quante volte in viaggio o nella vita ho cambiato strada solo per il gusto di farlo, alla ricerca di nuovi stimoli. Arrivare in fondo forse non è così importante come essere coscienti di avere intrapreso la strada giusta. Giusta per noi naturalmente. Nessuno conosce cosa troveremo alla fine. Tutto o niente non importa. L’essenza del viaggio è viaggiare come per la vita vivere.