Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 134 – Ottobre 2005
Myanmar: pagode, stupa, mercati, laghi, sorrisi e … la moto che non c’è.
Mi sono sempre chiesto cosa mi spinga a viaggiare, qual è la causa scatenante? La sete di conoscenza? La curiosità? Il voler dimostrare qualcosa?
E’ difficile dare una risposta precisa.
Andiamo per eclusione: non è sicuramente il desiderio di riposarmi dagli stress da lavoro, né la fuga dalla realtà quotidiana, tantomeno volere dimostrare qualcosa a qualcuno oppure a me stesso, inoltre non sono un ricercatore, potrei definirmi: un motociclista viaggiatore.
Viaggiare non è solo spostarsi da un posto all’altro. La voglia di viaggiare parte sempre da dentro. E’ come un male incurabile che piano piano cresce, prende forma, che ti condiziona la vita: l’unica cura è viaggiare!
I sintomi arrivano sotto svariate forme: immagini sfocate diventano sempre più nitide, la fantasia galoppa e mi lascia in una specie di stato di grazia in cui potrei viaggiare anche stando comodamente seduto in poltrona. Mi basta chiudere gli occhi che una specie di teletrasporto alla “Star Trek” mi proietta da un continente all’altro. Colori, luoghi, facce, odori prendono forma, passo senza fatica da un deserto Nord Africano agli altopiani tibetani, alle Ande, alla fitta vegetazione delle foreste pluviali, alle bianche spiagge oceaniche. E’ facile come comporre un puzzle, tassello dopo tassello attingo dalle esperienze passate e dalle mappe, mia grande passione.
E’ su di esse che studio i probabili itinerari, ne seguo i confini dando sempre grande importanza alle catene montuose da valicare e ai tratti di mare da attraversare. Ho sempre preferito viaggi itineranti, preferibilmete in sella alla mia moto, andata e ritorno, oppure per problemi di tempo, spedendo la moto con un aereo.
Qualcuno ha detto: “Come è piccolo il mondo!” Niente di più sbagliato. Immaginado la rete stradale del globo come una grossa tela di un ragno, seguendo un itinerario preciso, per esempio per fare il giro del mondo, si riesce sì e no a vederne solo una piccola parte. Una piccola parte con un numero infinito di varianti. Quante volte a cavallo della mia moto ho svoltato a destra o a sinistra solo per il gusto di percorrere una strada mai vista prima.
I paesi del mondo sono quasi tutti visitabili. L’unica condizione è quella di seguire l’andamento delle stagioni. Impossibile andare in Patagonia o in Alaska d’inverno, difficile attraversare l’Africa nera nella stagione delle pioggie. Si può andare ovunque. Alcuni paesi hanno lunghe trafile per ottenere il visto di entrata, ma con un po’ di pazienza è tutto risolvibile. Rimangono fuori dalla lista solo alcuni paesi dove la guerra è insormantabile come l’Afghanistan, l’Iraq, alcune repubbliche Caucasiche e qualche stato Africano.
In un ipotetico giro del mondo in moto, partendo dall’Italia verso Est, c’è solo un grosso ostacolo che sbarra il cammino: la Birmania.
Da anni un’abominevole dittatura militare impedisce a chicchessia di attraversare questo magnifico paese. La Birmania o Myanmar, così si chiama dal 1988, è visitabile solo imbarcandosi su un aereo e girandola con mezzi locali. Per questo motivo ho deciso di lasciare la moto la mia compagna di viaggio, in garage.
Esiste anche un problema di coscienza: è giusto visitare e portare soldi in un paese dove quotidianamente si perpetrano crimini contro i diritti umani? E’ giusto visitare una paese dopo che l’NLD, la Lega Nazionale per la Democrazia, che vinse le elezioni libere del 1990 è a tutt’oggi fuorilegge. E’ giusto che il suo leader Aung San Suu Kyi, alla quale è stato concesso nel 1991 il premio Nobel per la pace sia agli arresti domiciliari da 15 anni? Attanagliato come sempre da molti dubbi, una costante di ogni viaggio, e dalla certezza di essere “a piedi” abbandonato al mio destino senza la moto, non ho alternative: devo partire! Birmania arrivo!
Nell’interno dell’aereo della Myanmar Airways le luci sono molto basse e si respira serenità. Le graziose hostess birmane ci hanno accolto con uno straordinario sorriso che vale più di mille parole. Più che su un aereo sembra di essere in sacrestia. Dopo una breve corsa decolliamo da Bangkok in un tripudio di luci. La metropoli che ho visitato più volte in passato ed a cui non ho saputo resistere neanche questa volta, anche se per poche ore, dall’altro sembra immensa e potrebbe benissimo essere scambiata per una qualsiasi grossa metropoli europea. Ho ancora nelle narici il suo odore inconfondibile di cibo e umanità del mercato di Patong, quando il velivolo sembra sprofondare nell’oscurità della notte sospesa sopra un fitta vegetazione. Il volo è di breve durata, in poco meno di un’ora atterriamo a Yangon. Il luogo è spartano e poco illuminato. Davanti all’unico hangar dove campeggia una fosforescente scritta blu al neon Yangon International Airport “dormono” una decina di aerei turbo elica: la flotta birmana è tutta qui.
Male, una elegante donna di quarant’anni ci accoglie con cordialità. Sarà la nostra guida per tutto il viaggio. Il traffico della capitale è scarso ed in poco tempo arriviamo al Panorama Hotel, un edificio di nove piani con vista “panoramica” sul ponte deserto della tangenziale. Le camere sono più che decorose, le trenta ore di viaggio si fanno sentire ed in poco tempo sprofondiamo in un sonno ristoratore.
La sveglia è alle sette, una temperatura di venticinque gradi ci conferma che il freddo polare europeo è molto lontano. Visitiamo la Sule Pagoda nel centro della città. Secondo la leggenda questo edificio avrebbe più di 2000 anni ma, come altri templi buddhisti antichi, è stato ricostruito più volte nel corso dei secoli, pertanto nessuno sa esattamente a che epoca risalga. Si dice che nello stupa centrale sia custodito un capello di Buddha. Il luogo è un’oasi di pace e di ritrovo quotidiano per molti birmani. Visitiamo inoltre lo Botataung Paya un antico monumento distrutto durante un bombardamento nella seconda guerra mondiale e ricostruito con una evidente ed insolita modifca. Lo zedi (stupa) centrale, normalmente solido e massiccio, è cavo ed è possibile ammirarne l’interno, una sorta di labirinto di specchi e teche in vetro che contengono antiche reliquie. Nel tardo pomeriggio visitiamo quello che secondo i birmani è il luogo più sacro dell’intero paese e che Kipling definì “un mistero dorato, una bella meraviglia ammiccante”. Entrando nel luogo da uno dei quattro passaggi, ci sono due chinthe, i leggendari “leogrifi”, per metà leoni e per metà grifoni alti nove metri. La scalinata conduce sulla collina dove sorge il complesso con la sua grandiosa cupola dorata che svetta ad un’altezza di 98 metri. Intorno al possente stupa è raggruppato un numero incredibile di zedi più piccoli, statue, templi, reliquiari, immagini, padiglioni e tempietti.
Il sole sta lentamente scomparendo inghiottito dalla vegetazione, gli ultimi raggi incendiano la cupola color arancione pallido della Shwedagon Paya e si diffonde nell’aria una sorta di fluido magico. Finisce così la prima giornata di questo viaggio in questo luogo sacro immerso in una folla di fedeli che mi trasmette grande serenità.
La sveglia alle cinque ci permette di verificare che la città è già in piena attività. Molte persone cariche di suppellettili si spostano a piedi, arrivano da molto lontano e sono sicuramente diretti ai numerosi mercati rionali. Dopo aver visto l’alba davanti al parco del popolo dove numerosi cinesi praticano il Taj ji Juan, partiamo in pulman per Golden rock dopo aver fatto una breve sosta in una fabbrica di vetro soffiato. Nel luogo lavorano alcuni artigiani che producono oggetti in vetro usando l’antica tecnica a bocca.
Il trasferimento in autobus alla Golden Rock richiede parecchie ore. La campagna birmana scorre veloce come un film, dove lo schermo è il finestrino ed io lo spettatore, seduto comodamente in poltrona circondato dall’aria condizionata. Per me è una nuova sensazione, abituato da sempre alla moto con il paesaggio che mi circonda e la visuale a centottanta gradi, immerso negli odori e con il rombo del motore che mi stordisce. Senza dubbio la moto mi avrebbe trasmesso più emozioni, ma ci sono anche i lati positivi del viaggiare in autobus. Innazi tutto posso inserire nel film anche una colonna sonora, ed è così che le risaie scorrono tra un blues di Muddy Waters ed un rock di Tina Turner ed i bufali sporchi di fango reggono benissimo il sound raffinato di Bregovic, poi finalmente mi posso godere “il gruppo”. In moto adoro viaggiare da solo, perché è la massima espressione di libertà. Ho passato ore ad ammirare paesaggi, animali, uomini, donne, bambini, un tramonto o un fiore e non ritengo di avere sprecato tempo. La prima cosa che si impara da viaggiatore solitario, è che tutti abbiamo bisogno di compagnia. Una sana conversazione aiuta a passare il tempo e soprattutto permette di conoscere gente nuova. Il gruppo è formato da diciassette persone: tredici donne e quattro uomini. La cosa straordinaria è osservare come i singoli individui si muovano all’interno della piccola comunità: immediatamente si creano simpatie e piccoli sottogruppi, e ben presto si raggiunge un disceto affiatamento, anche se sicuramente non siamo una formazione tipo “uno per tutti e tutti per uno”. Siamo tutti italiani, a parte Male, la guida birmana; l’età varia dai venticinque anni della “bimba” ai quasi settanta della donna “matura”. Ben rappresentiamo il territorio italiano: Venezia, Verona, Milano, Torino, Genova, Perugia, Bologna, Cantù e Napoli assicurano un’ottimo scambio culturale multietnico. Ognuno è diverso e con le proprie idee, ma una cosa importante ci accomuna: tutti abbiamo scelto questo viaggio e nessuno è qui per caso. Chi viene in Birmania non ha sfogliato decine di depliant cercando una meta, ma semplicemente ha preso coscienza del viaggio ed è partito.
Facciamo una sosta per il pranzo, poi, lasciato il nostro confortevole autobus in un parcheggio, finiamo in uno scassatissimo e stipato cassone di un vecchio camion che ci “ospita” fino al campo base di Kinpum. La strada è tutta in salita ed il vecchio “sputafuoco” impiega più di un ora ad arrampicarsi sugli stretti tornanti ed io rimpiango la mia amata Ktm che avrebbe lasciato il segno dei tasselli sull’asfalto ed in pochi minuti, con grande libidine, mi avrebbe portato lassù senza fatica. Scendiamo con le ossa rotte dal vecchio rottame ed inizia un piccolo trekking che in poco più di un ora ci porta al Golden Rock Pagoda. Un piccolo stupa di sette metri si trova in cima ad un enorme masso rivestito di foglie d’oro posto in bilico sull’orlo di un dirupo in cima al monte Kyaikto. E’ uno dei siti più venerati di tutta la Birmania. Secondo la leggenda, il masso mantiene il suo precario equilibrio grazie ad un capello del Buddha collocato in un luogo preciso dello stupa. E’ la notte di Natale e pernottiamo in un comodo e semplice albergo in legno sopra una veduta mozzafiato. Dopo la cena, da buoni italiani, ci dividiamo un panettone ed alcuni dolci.
Ripartiamo presto la mattina e dopo una scarpinata tutta in discesa riprendiamo il pulman per Bago che dista circa cinquanta chilometri. La fondazione della città si deve a due principi mon, ai quali accadde di vedere, su un’isola posta in un grande lago, un cigno femmina poggiare sul dorso di un cigno maschio. Interpretando questa apparizione come segno di buon auspicio, i due principi fondarono una città sulle sponde del lago che chiamarono “regno del cigno”. In omaggio alla leggenda, il simbolo di Bago è un hansa femmina, cioè un uccello, posto su un hansa maschio.
Visitiamo l’enorme Shwemawdaw Paya che con i suoi 114 metri domina la città, ciò che resta del palazzo reale Kanbawzathadi, che fu la residenza del re Bayinnaung. Si tratta di 196 colonne in teak stivate in un magazzino. Il nuovo palazzo, copia dell’originale, è costruito in cemento e dipinto d’oro.
Dopo l’ottima cena, un pulmino ci porta nella stazione ferroviaria che è molto affollata. L’impressione del popolo birmano è più che positiva: gentili, mai irritati per le foto scattate nei loro confronti in continuazione, sempre sorridenti. Una donna in compagnia di una bambina mi si avvicina e con un segno inequivocabile mi fa capire che ha fame, le offro alcune banane e la donna mi sembra soddisfatta. Dopo un’ora, prima di salire in treno, ritrovo la donna con tutta la famiglia. Stanno mangiando le mie banane; mi riconosce, sorride e mi saluta. Penso ai cenoni natalizi ed a tutti gli sprechi che la nostra società produce: un’offesa per questa gente. Saliamo sul treno che in quattordici ore ci porterà a Mandalay. Avevamo qualche perplessità su questa trasferta notturna, ma con grande sorpresa la realtà è ben diversa. Un vagone con vecchie, ma comode poltrone con lo schienale reclinabile ci attende. Il viaggio è confortevole, ma di dormire non se na parle nemmeno: il rumore dello sferragliare del treno sulle vecchie rotaie non proprio rettilinee è insopportabile, praticamente è come se un ciclope battesse con una mazza enorme i vecchi e malandati assali. Di tanto in tanto alcuni topolini giocherelloni si rincorrono ed attraversano lo scompartimento senza curarsi della nostra presenza. E’ notte, una bella luna piena color giallo intenso rischiara le risaie circostanti e la temperatura scende di parecchio, grazie anche ad alcuni finestrini che non si chiudono. Dalle numerose fermate salgono uomini avvolti in sacchi di plastica e donne infagottate nei loro variopinti cappotti di lana.
Un’immobile e vasta campagna a perdita d’occhio avvolta da un tenue cielo azzurro, in poco tempo si tinge di rosa pallido ed annucia un nuovo giorno. L’aria frizzante sta cedendo ai raggi del sole che ben presto riporterà la temperatura verso i venticinque gradi. Ascolto il mio walkman e le prime note di “the river” con la voce potente e roca di Bruce Springsteen mi fanno venire la pelle d’oca anche se incomincia a fare caldo.
Sono le dieci di mattina di uno splendido 26 dicembre 2004 ed è tutto tranquillo.
Niente lascia presagire quello che sta succecendo in una parte del mondo non molto lontano da qui. In un abisso oceanico un violento terremoto sconquassa il fondale lontano da occhi indiscreti, provocando una serie incredibile di onde. Migliaia di chilometri di costa vengono colpiti con una forza inaudita. L’Indonesia, la Thailandia, la Birmania, L’India, lo Sri Lanka, le Maldive e persino una parte della costa Africana sono interessate dal fenomeno che in Giappone viene chiamato “Tsunami”. Gli abitanti delle coste non hanno scampo, le vittime saranno 180.000, i senza tetto milioni e la catastrofe interrogherà le menti di tutto il mondo per parecchi giorni e presenterà l’eterno quesito: si poteva evitare?
La prima impressione è che un simile cataclisma di origini naturali non si possa evitare, anche se sono molto perplesso. Da secoli l’uomo sfrutta le risorse naturali di questo pianeta. Negli ultimi decenni l’inquinamento atmosferico e dei mari da una parte ed il selvaggio disboscamento dall’altra hanno messo a dura prova quel delicato e perfetto equilibrio che la natura ha creato in millenni. Una domanda sorge spontanea: le due cose possono avere una relazione?
Mi piace immaginare la terra, il nostro pianeta, come una cosa viva. Il genere umano l’ha profondamente ferita, laggiù negli abissi sotto la crosta terrestre in mezzo al magma incandescente deve avere un gran cuore pulsante. Un vecchio cuore ferito che chiede solo di vivere in pace. Non sopporta più le esplosioni atomiche sotterranee e sugli atolli marini, i gas di scarico, i veleni nei mari e lo stress di una parte del mondo che consuma indiscriminatamente più di quello che gli serve e di un’altra che muore di fame. Simili catastrofi dovrebbero farci riflettere su quanto sia fragile la vita e di quanto sia preziosa. Sono italiano e appartengo all’area fortunata del pianeta, ma mi sento profondamente colpevole di consumare in un giorno quanto serve a mantenere una famiglia africana per una settimana, di avere un armadio pieno di abiti che non uso mai e di avere seguito una dottrina di una società che si impone forti consumi per la propria sopravvivenza. Mi domando spesso che cosa ne sarà di noi fra cento anni e come saremo ricordati. Spero non come la generazione che ha messo fine a questo straordinario pianeta. Ognuno di noi dovrebbe fare qualcosa. L’esempio dovrebbe arrivare soprattutto dai paesi più ricchi, ma il benessere forse ci sta accecando. Stiamo tutti festeggiando su una bellissima nave da crociera che fa acqua da tutte le parti, e presto, se non ci metteremo a lavorare di buona lena alle pompe, inesorabilmente andremo tutti a fondo, ricchi e poveri.
A parte alcuni turisti in vacanza, lo Tsunami ha spazzato via gente che aveva solo povertà e il sole che nasce al mattino e tramonta alla sera. Sarò cinico, ma forse ha colpito dalla parte sbagliata.
Il treno rallenta, la campagna lascia il posto ad una confusa periferia che annuncia una grande città: entriamo a Mandalay.
La città ha più di cinque milioni di abitanti ed è una buona base di partenza per visitare le antiche capitali reali. Mingun è raggiungibile con un’ora di barca risalendo il fangoso fiume Ayeyarwady. Il sentiero che lascia il fiume inizia tra le rovine di due gigantesche chinthe ed in pochi minuti si arriva in un polveroso villaggio dove i venditori di strada sono un po’ troppo incalzanti. Se il re Bodawpaya fosse riuscito a costruire il suo grandioso progetto, oggi Mingun potrebbe vantare lo zedi più grande del mondo. Migliaia di schiavi lavorarono alla costruzione di quest’opera, che fu interrotta con la morte del re: a quell’epoca era stata ultimata una base di mattoni che misurava un terzo dell’altezza che l’edificio avrebbe raggiunto se fosse stato completato. In seguito un terremoto danneggiò il monumento e lo ridusse parzialmente in rovina. L’enorme base di questo stupa si erge sul fiume per 50 metri e ogni suo lato misura 72 metri. Dalla terrazza soprastante si gode una bellissima veduta del villaggio di Mingun e del fiume.
Visitiamo anche l’antica città di Ava per molto tempo capitale del Myanmar settentrionale. In circa trenta minuti di calesse si arriva al Bagaya Kyaung, un monastero edificato nel 1834, interamente in teak, e sostenuto da 267 pali. Nell’interno fresco e buio si respira un’aria particolare. Alcuni giovani monaci stanno studiando e ripetono le nozioni appena imparate a voce alta; sembra di tornare indietro di duecento anni. Il calesse riprende il proprio tragitto e ci accompagna alla Nanmyin una torre di guardia in muratura alta 27 metri. L’ultimo terremoto l’ha lasciata con un’inclinazione inquietante, tanto da far guadagnare al monumento il soprannome di “torre pendente”.
Dopo cena decidiamo di andare a trovare i Moustache Brothers una troupe pwe, che si esibisce in uno spettacolo popolare nello scantinato della loro casa a chiunque sia interessato ad approfondire aspetti della cultura birmana come la danza, la commedia, la musica e l’arte delle marionette. I comici pwe inseriscono spesso nei loro numeri elementi di satira politica. Nel 1996 U Par Par Lay, un famoso comico della compagnia fu condannato a sette anni di lavori forzati per alcune battute particolarmente mordaci nei confronti dei generali del regime durante uno spettacolo per la Festa dell’Indipendenza tenutosi nel complesso in cui vive Aung San Suu Kyi, leader agli arresti domiciliari del NLD, (Lega Nazionale per la Democrazia). Scontata la condanna, U Par Par Lay è stato rilasciato: l’evento è stato festeggiato dai Moustache Brothers con una serie di spettacoli subito bloccati dal regime. Adesso la compagnia si può esibire soltanto nello scantinato di casa. Inutile dire che ogni sera va in scena lo spettacolo che riscuote un grande successo.
Alle undici di mattina, nel monastero di Maha Ganayon, è possibile vedere l’intero corpo monastico intento a consumare il pasto nel silenzio, rotto solo dal trambusto dei numerosi turisti. A poca distanza si può percorrere il ponte U Bein, che attraversa le acque poco profonde del lago Taunghthaman e resiste da due decoli al vento e ai flutti. Il ponte pedonale di 1200 metri, interamente in teak, recuperato dalle rovine di un palazzo abbandonato, è il più lungo del mondo. Finisce la nostra avventura a Mandalay con la visita dell’ultima antica capitale reale di Sagaing della Umin Thounzeh, un monumento in cima ad una collina, dove si possono ammirare 45 immagini del Buddha disposte lungo un colonnato a forma di mezzaluna. La veduta della valle sottostante è straordinaria.
L’indomani il battello parte alle sei di mattina. Mi aspettavo un’imbarcazione tradizionale in legno, invece si tratta di una confortevole nave traghetto, che in poco più di dieci ore scenderà lungo la corrente del fiume Ayeyarwady fino a Bagan. Arriviamo a destinazione giusto in tempo per goderci uno degli spettacoli più belli del mondo: la veduta al tramonto dall’alto della Shwe San Daw Paya sulla pianura circostante punteggiata da migliaia di pagode rosse.
Semplicemente fantastico!
Il grande fervore religioso che produsse questa straordinaria serie di edifici durò due secoli e mezzo. Il periodo di massimo splendore iniziò nel 1057 fino al declino nel 1287, quando la città fu invasa dai mongoli di Kublai Khan. Tuttavia in questi anni la creatività fu ai massimi livelli; migliaia di costruzioni furono edificate in un’unica piccola zona, poi abbandonate e rimaste praticamente intatte nel corso dei secoli.
Bagan offre anche un ricco mercato. C’è di tutto: pesce, carne, verdura, manufatti in legno e lacche. Incontro il primo motociclista del Myanmar. E’ in sella ad una Honda 125 a due tempi con gomme tassellate. La moto in Birmania è una rarità; si può trovare a caro prezzo solo nell’inesistente mercato dell’usato a 1200 dollari USA e le moto nuove non esistono. Il centauro mi spiega poi la lunga trafila per avere il permesso di guida e le pratiche di immatricolazione molto costose e per finire ci vuole anche un permesso speciale per acquistare benzina. Gli chiedo se posso scattare qualche foto. U Ngwe Soe, che nella vita fa il sarto con sua moglie, è entusiasta. Dopo esserci scambiati gli indirizzi e la promessa mia di inviargli le foto, ci salutiamo come due vecchi amici. Sarà l’unico vero motociclista che incontrerò nel Myanmar!!!
Dopo due giorni trascorsi a visitare pagode e stupa, il gruppo si prende una giornata di relax totale, in cui ognuno di noi è libero di fare quello che più desidera.
Alcuni noleggiano una bicicletta, altri ne approfittano per fare acquisti, altri riposano; io, in compagnia di Lara ed Elisa, le due “giovincelle” del gruppo, decido di prendere un calesse per l’intera giornata. Il costo è di soli sette dollari e il cocchiere è molto simpatico, perciò lasciamo che sia lui a decidere dove andare. Passa così un’intera giornata tra antichi monasteri in teak, monaci bambini sorridenti, mercati e ristoranti cinesi dove servono interi e saporiti polli fritti. Ognuno di noi ha molto da raccontare, della propria vita, delle aspettative, dei sogni, ed è tutto scandito dal lento trotterellare del cavallo in questo posto magico tra strade sterrate, pagode, canali, templi e gente sorridente, sotto un cielo color cobalto, il sole accecante ed un’atmosfera serena da far venire i brividi.
Dieci ore di trasferimento in autobus sono tante. La strada, poco più di due metri d’asfalto sconnesso e pieno di buche, circondato, da ambo i lati da uno sterrato accidentato e polveroso, costringe l’autista ad un’andatura molto lenta. Ad ogni incrocio con un altro mezzo i due “contendenti” sembrano sfidarsi ad una sorta di “roulette russa” dello scontro frontale. Si puntano, fino all’ultimo metro, poi improvvisamente, si evitano buttandosi ognuno alla propria destra.
Facciamo una sosta per visitare un monastero in cima al Monte Popa, definito l’Olimpo del Myanmar dimora dei nat (spiriti) più potenti. Una ripida scalinata, dimora di centinaia di dispettose scimmie, ci porta alla cima in venti minuti. Arriviamo a Kalaw a notte fonda, e festeggiamo l’ultimo giorno dell’anno in un ristorante tipico.
Ripartiamo molto presto per Pindaya, dove ci aspetta un trekking di tre ore che ci porterà in montagna a visitare un monastero. La strada, completamente sterrata e con pendenze considerevoli, lascia presto il villaggio alle sue spalle per entrare in una zona boschiva, dove inizia un sentiero pietroso. Man mano che si sale l’aria si fa sempre più fresca. Arriviamo al villaggio di Yatsagyi nel tardo pomeriggio. Il monastero, formato da due grandi costruzioni rettangolari in cemento con il tetto in lamiera, è un po’ deludente. Entriamo nell’edificio principale dove Usukla, un monaco che avrà più o meno trent’anni, ci accoglie con cortesia. Vuole conoscerci personalmente perciò, accovacciati sul pavimento davanti a lui, ci presentiamo scandendo il nostro nome e la città di provenienza. E’ il responsabile del monastero, con i suoi cinque monaci bambini. E’ simpatico, molto sveglio e allegro, uno di quelli che ispira fiducia a prima vista.
A pochi passi dall’edificio c’è un piccolo villaggio di poche capanne. Mi avvicino ad una di esse: un recinto di grosse canne di bambù ne delimita la proprietà e mi sbarra la strada. Nel cortile una donna sta sfamando con il riso un numeroso gruppo di polli e di pulcini, mentre un gallo gigante e fiero si tiene a debita distanza e controlla che tutto vada per il verso giusto. Poco lontano, un grosso e nero maiale riposa in una specie di gabbia di bambù sospesa ad un metro da terra. Il villaggio fa parte dell’area di etnia Palaung. Non conosco il loro dialetto e naturalmente nemmeno il birmano, perciò non mi rimane che comunicare con il linguaggio universale dei gesti. Non voglio essere invadente e mi fermo davanti al rudimentale cancelletto in legno. La donna mi vede. Un sorriso ed un gesto con la mano mi fanno capire che sono il benvenuto. Ringrazio, portandomi la mano destra sul cuore come mi hanno insegnato i miei amici islamici e con un goffo inchino. La signora è praticamente circondata dai pennuti ed io, per rompere il ghiaccio, cerco di accarezzarne alcuni che, spaventati, si tengono a distanza. Lei mi guarda e sorride, poi entra in una specie di ripostiglio e ne esce con un barattolo di riso che mi porge. Tutti i pulcini vengono a mangiare direttamente dalle mie mani. Poi mi invita in casa. Si tratta della classica capanna birmana in bambù con il tetto in paglia ed il pavimento sollevato da terra come le palafitte. Un piccolo portico conduce all’unica porta d’ingresso. Dopo essermi tolto le scarpe, entro in casa. All’interno, accovacciata in un angolo dell’unico grande spazio, c’è una giovane ragazza con lunghi e neri capelli appena lavati che governa il focolare. Nel suo viso dolcissimo, seminascosto dai capelli appiccicati, brillano occhi neri come perle ed un sorriso gentile che mette in evidenza una leggera imperfezione di un incisivo sovrapposto ad un altro, che oltre a renderla bella, la rende interessante e unica. Il fuoco poggia direttamente sul pavimento in legno, isolato solo da una piattaforma di un metro per lato in pietra. In una pentola annerita qualcosa sta cuocendo e sopra di essa una rudimentale ma efficace griglia funge da scaldavivande. Il fumo sale verso l’alto dove non noto nessun camino e fuoriesce da alcune feritoie sotto il tetto. Dall’altro lato del locale un paravento in legno di poco meno di due metri d’altezza delimita lo spazio dell’unica camera, dove alcune stuoie e parecchie coperte fungono da letto. Nella casa, fatta eccezione per un voluminoso baule, non ci sono mobili, nè elettricità, nè acqua corrente ed il bagno all’esterno è raggiungibile seguendo un sentiero di una ventina di metri nell’orto.
Mi vengono in mente gli spot pubblicitari della nostra televisione, in cui in una luccicante cucina tutta marmi, graniti, acciai, forni a micronde, frigoriferi, lavastoviglie e piastre in ceramica ultimo modello, una famiglia smaccatamente bella ostenta un benessere ed una felicità travolgente, ma inesorabilmente finta. La nostra società, per cui quello che conta è apparire e non essere, per cui la lotta quotidiana è quella di lavorare per acquistare e circondarci di cose inutili è lontana anni luce da questo posto. Non so se questa famiglia sia felice, però una cosa è certa: ha un equilibrio straordinario. Si circondano di niente, ma hanno tutto quello che serve per vivere sereni.
La loro cena è pronta e non voglio approfittare dell’ospitalità di questa gente. Lascio questo piccolo angolo di Birmania. Le “mie amiche” mi salutano con l’ennesimo sorriso illuminato dal fuoco che ormai va spegnendosi. Fuori è notte fonda, fa freddo e sono solo le sei.
Dopo la cena con tutto il gruppo, frugale ma sana, alcuni di noi accendono il fuoco. L’aria è frizzante e la volta stellata dà i brividi. La via Lattea è ben visibile e l’universo sconfinato. Davanti ad un simile spettacolo mi sento un microbo e penso al genere umano. Da dove proviene l’uomo?
Forse “il creatore”, che potrebbe anche essere un alieno di intelligenza superiore, conoscendo la pericolosità e le mire bellicose del genere umano, potrebbe averci depositato milioni di anni fa sulla terra per darci un’ultima possibilità. Deve aver detto: “uomo cresci, evolviti, su questo pianeta c’è tutto quello che ti serve, trova il giusto equilibrio che ti permetta di vivere in armonia con la natura che ti circonda; fra qualche millennio ritornerò a controllare personalmente il tuo operato e deciderò del tuo destino”.
Spero che l’alieno non arrivi proprio ora; gli basterebbe dare un’occhiata in giro, oppure parlare con l’uomo più potente del pianeta, un certo Bush, per capire che abbiamo poche speranze.
E se fosse in altre faccende affaccendato?
Beh, allora saremmo i soli ad essere i responsabili del nostro destino…
Sono stanco e lentamente mi avvio verso il mio letto. Sulla scalinata che porta al monastero, che grazie alla cortesia di Usukla, è stato trasformato in dormitorio, lancio un ultimo sguardo verso la casa delle “mie amiche”. E’ tutto buio, silenzio, pace. Mi infilo svelto sotto le pesanti coperte: a pochi metri da me, su un’altare, un Buddha “seduto” occhieggia nell’oscurità emanando tutt’intorno spiritualità e protezione. Grande Buddha: “grazie per la splendida giornata, sono soddisfatto, fortunato ed è stato per me un privilegio conoscere la tua gente”. Poi…un sonno profondo.
Lasciamo il monastero dopo aver salutato il simpatico Usukla. Percorrendo il sentiero verso valle, attraversiamo alcuni villaggi. E’ un vero percorso adatto alle moto da enduro. Con la mia Ktm in mezz’ora raggiungerei Pindaya, invece, ci vorranno quattro ore per scendere i 600 metri di dislivello.
L’autobus riparte, lungo la strada facciamo una sosta per visitare la Shwe Umin Cave. Le famose grotte sono nascoste in un crinale di roccia calcarea e si raggiungono a piedi lungo una scalinata oppure in alternativa con un moderno ascensore. All’interno ci sono 8094 statue di Buddha in alabastro, teak, mattoni, lacca e cemento, messe qui nel corso dei secoli e disposte in modo da formare un labirinto che si snoda nelle varie camere della grotta. Il luogo è molto suggestivo.
Nel pomeriggio visitiamo il sito di Kakku che consiste in una vasta distesa di 2000 stupa alti non più di 3 o 4 metri ciascuno, che danno più l’impressione di essere una foresta pietrificata.
La strada che conduce al lago Inle è pessima e l’andatura è rallentata anche dai numerosi camion che procedono a passo d’uomo. Da una zona montagnosa siamo passati ad una pianura fertile. Nei terreni coltivati ci sono numerose donne. Lavorano in ginocchio e si proteggono dal sole con un enorme cappello di paglia. I villaggi sono formati da capanne di bambù a due piani con annessa la stalla per gli animali. Arriviamo ad Inle verso il tramonto.
La gita sul lago inizia di buon mattino. L’aria è frizzante e le lunghe lance scivolano veloci sulle acque calme del lago, spinte da un potente motore. Incontriamo parecchi pescatori che armeggiano con le loro reti. Hanno uno strano modo di remare: la gamba è attorcigliata attorno al remo e con un movimento rotatorio, dà la spinta giusta. Il lago è un labirinto di canali che portano a piccoli villaggi che sembrano sospesi sul nulla. Straordinari i giardini galleggianti, che consistono in coltivazioni di fiori e verdure ricavate su enormi zolle di terra nera. Verso il tramonto visitiamo anche il monastero dei gatti saltanti. Si tratta di un monastero completamente di legno su palafitte. I gatti che vi risiedono, sono stati addestrati dai monaci a saltare attraverso piccoli cerchi.
La notte e migliaia di stelle ci sorprendono sulla via del ritorno e la temperatura, che per tutto il giorno era stata intorno a 30 gradi, precipita e ci costringe ad indossare alcuni pile.
E’ l’ultimo giorno di viaggio. Poco prima della partenza dell’autobus, che ci porterà all’aereoporto di Heho, faccio conoscenza con una coppia di meccanici motociclistici. Nella spartana officina, oltre ad un sacco di parti meccaniche sparse alla rinfusa sul pavimento, ci sono solo alcuni vecchi motorini. In un angolo, seminascosta da alcuni cartoni c’è quello che rimane di una moto giapponese. Racconto che sono un motociclista e della mia moto, una ktm, di cui naturalmente non hanno mai sentito parlare e, che mi piacerebbe fare un giro, (anche breve), in moto. Uno dei meccanici sorride, alza il telefono e mi dice: “just a moment, I know a friend with motorcycle.”
In pochi minuti arriva un tizio con una scassata ma funzionante Honda 125.
Dallo scarico esce un fumo acre azzurrognolo di olio bruciato, i freni anteriori non esistono, ma ingranata la prima e lasciata la frizione, la moto parte. Mi sembra un sogno! Sono in moto su una strada Birmana. Grande Buddha, quanto mi sei mancata! Strade, buche, facce di gente curiosa, vegetazione che scorre veloce, manovre spericolate della gente del luogo, odori, profumi, vampate di aria calda e polvere sui vestiti che contamina e colora. Finalmente eccomi a voi!
Sono solo pochi minuti, ma entusiasmanti, poi una corsa in autobus verso l’aereo che ci porterà a Yangon. Un ATR ad elica ci attende sulla pista. Decolliamo. Sul sedile di fianco al mio c’è un signore dall’aspetto agiato. Vestito elegantemente, rolex d’oro tempestato di diamanti e grosso anello con enorme rubino. Lavora per una banca ed è specializzato nella vendita di pietre preziose. Spesso si reca all’estero; è stato anche due volte in Italia. E’ stato in Thailandia durante il periodo natalizio per affari. Sono un po’ distratto mentre Aung Ko Win mi dice che il 24 e 25 dicembre era in un lussuoso albergo sulla spiaggia di Phuket con tutta la famiglia, ma quando la sua voce si fa roca, mi giro e vedo che i suoi occhi lucidi mi fissano. Poi aggiunge: “My fly left on 25 dicember late evening, you know, evening. I and my family where very lucky”.
Solo poche ore prima dello Tsunami.
E’ in questi momenti che rimpiango di non parlare un inglese decente.
Quante cose vorrei dirti, sulla fragilità della vita, sul destino di ognuno di noi, sulle nostre paure, sui sogni. Vorrei raccontarti di quando, molti anni fa, avevo timore di volare, di intraprendere viaggi verso l’ignoto, delle incertezze, delle angoscie. Mentre ora accetto quello che il mio destino mi propone, consapevole che tutti facciamo parte di un grande e meraviglioso gioco che è la vita e non ho più paura.
Questo ed altre cose ancora vorrei dirti, ma stringendo forte con tutte e due le mie mani la tua, riesco solo a dire: “I’m very happy for you and your family”.
Ed è allora che, forse per la mia stretta di mano troppo forte, una lacrima bagna le tue gote e mi dici: “Thank you very much, my friend”. Atterriamo a Yangon.
Nella capitale abbiamo solo il tempo di una visita al mercato. Il gruppo si disperde in fretta tra le strette vie e le numerose bancarelle. Fa caldo e decido di sedermi su uno sgabello all’ombra aspettando che sia il mercato con tutti i suoi personaggi a girarmi attorno. In un angolo, in una nicchia c’è un piccolo Buddha circondato da alcuni bastoncini di incenso che profumano l’aria.
Grande Buddha, ti prego, vorrei tanto che un mio sogno s’avverasse: In un futuro non molto lontano, gradirei fare un viaggio in motocicletta. Vorrei partire da casa carico di bagagli e di speranze, percorrere tutto “lo Stivale” con la consapevolezza che per un po’ di tempo dovrò star lontano dall’Italia, imbarcarmi per la Grecia ed attraversarla in fretta e sostare qualche giorno nella magica città di Istanbul. Vorrei poi ripartire verso l’Anatolia, visitare l’Iran con le sue straordinarie città e salutare il suo popolo sempre gentile e ospitale, arrivare in Pakistan ed abbracciare tutti i miei “amici” conosciuti anni fa Beluci, Panjabi, Sindhi, Mohajir e Pasthun, così rustici, ma così schietti. Entrare poi in India per visitarla senza fretta. Vorrei perdermi tra le sue città rosa, azzurre, dorate, brulicanti di genti di svariate razze, lingue e religioni, visitare templi, verdi vallate, deserti, fiumi sacri per arrivare al confine Birmano impolverato e contaminato dai 20.000 chilometri percorsi, la barba lunga, qualche ruga in più, stanco, ma soddisfatto. Nel posto di confine, vorrei trovare la foto di Aung San Suu Kyi, che domina i muri bianchi e lindi dell’ufficio militare. Significherebbe che il leader della Lega Nazionale per la Democrazia, finalmente governa questo magnifico paese. Poi, finalmente, presentando il passaporto vorrei ricevere in cambio solo un sorriso e tre parole: “WELKOME TO BIRMANIA”.
E’ difficile dare una risposta precisa.
Andiamo per eclusione: non è sicuramente il desiderio di riposarmi dagli stress da lavoro, né la fuga dalla realtà quotidiana, tantomeno volere dimostrare qualcosa a qualcuno oppure a me stesso, inoltre non sono un ricercatore, potrei definirmi: un motociclista viaggiatore.
Viaggiare non è solo spostarsi da un posto all’altro. La voglia di viaggiare parte sempre da dentro. E’ come un male incurabile che piano piano cresce, prende forma, che ti condiziona la vita: l’unica cura è viaggiare!
I sintomi arrivano sotto svariate forme: immagini sfocate diventano sempre più nitide, la fantasia galoppa e mi lascia in una specie di stato di grazia in cui potrei viaggiare anche stando comodamente seduto in poltrona. Mi basta chiudere gli occhi che una specie di teletrasporto alla “Star Trek” mi proietta da un continente all’altro. Colori, luoghi, facce, odori prendono forma, passo senza fatica da un deserto Nord Africano agli altopiani tibetani, alle Ande, alla fitta vegetazione delle foreste pluviali, alle bianche spiagge oceaniche. E’ facile come comporre un puzzle, tassello dopo tassello attingo dalle esperienze passate e dalle mappe, mia grande passione.
E’ su di esse che studio i probabili itinerari, ne seguo i confini dando sempre grande importanza alle catene montuose da valicare e ai tratti di mare da attraversare. Ho sempre preferito viaggi itineranti, preferibilmete in sella alla mia moto, andata e ritorno, oppure per problemi di tempo, spedendo la moto con un aereo.
Qualcuno ha detto: “Come è piccolo il mondo!” Niente di più sbagliato. Immaginado la rete stradale del globo come una grossa tela di un ragno, seguendo un itinerario preciso, per esempio per fare il giro del mondo, si riesce sì e no a vederne solo una piccola parte. Una piccola parte con un numero infinito di varianti. Quante volte a cavallo della mia moto ho svoltato a destra o a sinistra solo per il gusto di percorrere una strada mai vista prima.
I paesi del mondo sono quasi tutti visitabili. L’unica condizione è quella di seguire l’andamento delle stagioni. Impossibile andare in Patagonia o in Alaska d’inverno, difficile attraversare l’Africa nera nella stagione delle pioggie. Si può andare ovunque. Alcuni paesi hanno lunghe trafile per ottenere il visto di entrata, ma con un po’ di pazienza è tutto risolvibile. Rimangono fuori dalla lista solo alcuni paesi dove la guerra è insormantabile come l’Afghanistan, l’Iraq, alcune repubbliche Caucasiche e qualche stato Africano.
In un ipotetico giro del mondo in moto, partendo dall’Italia verso Est, c’è solo un grosso ostacolo che sbarra il cammino: la Birmania.
Da anni un’abominevole dittatura militare impedisce a chicchessia di attraversare questo magnifico paese. La Birmania o Myanmar, così si chiama dal 1988, è visitabile solo imbarcandosi su un aereo e girandola con mezzi locali. Per questo motivo ho deciso di lasciare la moto la mia compagna di viaggio, in garage.
Esiste anche un problema di coscienza: è giusto visitare e portare soldi in un paese dove quotidianamente si perpetrano crimini contro i diritti umani? E’ giusto visitare una paese dopo che l’NLD, la Lega Nazionale per la Democrazia, che vinse le elezioni libere del 1990 è a tutt’oggi fuorilegge. E’ giusto che il suo leader Aung San Suu Kyi, alla quale è stato concesso nel 1991 il premio Nobel per la pace sia agli arresti domiciliari da 15 anni? Attanagliato come sempre da molti dubbi, una costante di ogni viaggio, e dalla certezza di essere “a piedi” abbandonato al mio destino senza la moto, non ho alternative: devo partire! Birmania arrivo!
Nell’interno dell’aereo della Myanmar Airways le luci sono molto basse e si respira serenità. Le graziose hostess birmane ci hanno accolto con uno straordinario sorriso che vale più di mille parole. Più che su un aereo sembra di essere in sacrestia. Dopo una breve corsa decolliamo da Bangkok in un tripudio di luci. La metropoli che ho visitato più volte in passato ed a cui non ho saputo resistere neanche questa volta, anche se per poche ore, dall’altro sembra immensa e potrebbe benissimo essere scambiata per una qualsiasi grossa metropoli europea. Ho ancora nelle narici il suo odore inconfondibile di cibo e umanità del mercato di Patong, quando il velivolo sembra sprofondare nell’oscurità della notte sospesa sopra un fitta vegetazione. Il volo è di breve durata, in poco meno di un’ora atterriamo a Yangon. Il luogo è spartano e poco illuminato. Davanti all’unico hangar dove campeggia una fosforescente scritta blu al neon Yangon International Airport “dormono” una decina di aerei turbo elica: la flotta birmana è tutta qui.
Male, una elegante donna di quarant’anni ci accoglie con cordialità. Sarà la nostra guida per tutto il viaggio. Il traffico della capitale è scarso ed in poco tempo arriviamo al Panorama Hotel, un edificio di nove piani con vista “panoramica” sul ponte deserto della tangenziale. Le camere sono più che decorose, le trenta ore di viaggio si fanno sentire ed in poco tempo sprofondiamo in un sonno ristoratore.
La sveglia è alle sette, una temperatura di venticinque gradi ci conferma che il freddo polare europeo è molto lontano. Visitiamo la Sule Pagoda nel centro della città. Secondo la leggenda questo edificio avrebbe più di 2000 anni ma, come altri templi buddhisti antichi, è stato ricostruito più volte nel corso dei secoli, pertanto nessuno sa esattamente a che epoca risalga. Si dice che nello stupa centrale sia custodito un capello di Buddha. Il luogo è un’oasi di pace e di ritrovo quotidiano per molti birmani. Visitiamo inoltre lo Botataung Paya un antico monumento distrutto durante un bombardamento nella seconda guerra mondiale e ricostruito con una evidente ed insolita modifca. Lo zedi (stupa) centrale, normalmente solido e massiccio, è cavo ed è possibile ammirarne l’interno, una sorta di labirinto di specchi e teche in vetro che contengono antiche reliquie. Nel tardo pomeriggio visitiamo quello che secondo i birmani è il luogo più sacro dell’intero paese e che Kipling definì “un mistero dorato, una bella meraviglia ammiccante”. Entrando nel luogo da uno dei quattro passaggi, ci sono due chinthe, i leggendari “leogrifi”, per metà leoni e per metà grifoni alti nove metri. La scalinata conduce sulla collina dove sorge il complesso con la sua grandiosa cupola dorata che svetta ad un’altezza di 98 metri. Intorno al possente stupa è raggruppato un numero incredibile di zedi più piccoli, statue, templi, reliquiari, immagini, padiglioni e tempietti.
Il sole sta lentamente scomparendo inghiottito dalla vegetazione, gli ultimi raggi incendiano la cupola color arancione pallido della Shwedagon Paya e si diffonde nell’aria una sorta di fluido magico. Finisce così la prima giornata di questo viaggio in questo luogo sacro immerso in una folla di fedeli che mi trasmette grande serenità.
La sveglia alle cinque ci permette di verificare che la città è già in piena attività. Molte persone cariche di suppellettili si spostano a piedi, arrivano da molto lontano e sono sicuramente diretti ai numerosi mercati rionali. Dopo aver visto l’alba davanti al parco del popolo dove numerosi cinesi praticano il Taj ji Juan, partiamo in pulman per Golden rock dopo aver fatto una breve sosta in una fabbrica di vetro soffiato. Nel luogo lavorano alcuni artigiani che producono oggetti in vetro usando l’antica tecnica a bocca.
Il trasferimento in autobus alla Golden Rock richiede parecchie ore. La campagna birmana scorre veloce come un film, dove lo schermo è il finestrino ed io lo spettatore, seduto comodamente in poltrona circondato dall’aria condizionata. Per me è una nuova sensazione, abituato da sempre alla moto con il paesaggio che mi circonda e la visuale a centottanta gradi, immerso negli odori e con il rombo del motore che mi stordisce. Senza dubbio la moto mi avrebbe trasmesso più emozioni, ma ci sono anche i lati positivi del viaggiare in autobus. Innazi tutto posso inserire nel film anche una colonna sonora, ed è così che le risaie scorrono tra un blues di Muddy Waters ed un rock di Tina Turner ed i bufali sporchi di fango reggono benissimo il sound raffinato di Bregovic, poi finalmente mi posso godere “il gruppo”. In moto adoro viaggiare da solo, perché è la massima espressione di libertà. Ho passato ore ad ammirare paesaggi, animali, uomini, donne, bambini, un tramonto o un fiore e non ritengo di avere sprecato tempo. La prima cosa che si impara da viaggiatore solitario, è che tutti abbiamo bisogno di compagnia. Una sana conversazione aiuta a passare il tempo e soprattutto permette di conoscere gente nuova. Il gruppo è formato da diciassette persone: tredici donne e quattro uomini. La cosa straordinaria è osservare come i singoli individui si muovano all’interno della piccola comunità: immediatamente si creano simpatie e piccoli sottogruppi, e ben presto si raggiunge un disceto affiatamento, anche se sicuramente non siamo una formazione tipo “uno per tutti e tutti per uno”. Siamo tutti italiani, a parte Male, la guida birmana; l’età varia dai venticinque anni della “bimba” ai quasi settanta della donna “matura”. Ben rappresentiamo il territorio italiano: Venezia, Verona, Milano, Torino, Genova, Perugia, Bologna, Cantù e Napoli assicurano un’ottimo scambio culturale multietnico. Ognuno è diverso e con le proprie idee, ma una cosa importante ci accomuna: tutti abbiamo scelto questo viaggio e nessuno è qui per caso. Chi viene in Birmania non ha sfogliato decine di depliant cercando una meta, ma semplicemente ha preso coscienza del viaggio ed è partito.
Facciamo una sosta per il pranzo, poi, lasciato il nostro confortevole autobus in un parcheggio, finiamo in uno scassatissimo e stipato cassone di un vecchio camion che ci “ospita” fino al campo base di Kinpum. La strada è tutta in salita ed il vecchio “sputafuoco” impiega più di un ora ad arrampicarsi sugli stretti tornanti ed io rimpiango la mia amata Ktm che avrebbe lasciato il segno dei tasselli sull’asfalto ed in pochi minuti, con grande libidine, mi avrebbe portato lassù senza fatica. Scendiamo con le ossa rotte dal vecchio rottame ed inizia un piccolo trekking che in poco più di un ora ci porta al Golden Rock Pagoda. Un piccolo stupa di sette metri si trova in cima ad un enorme masso rivestito di foglie d’oro posto in bilico sull’orlo di un dirupo in cima al monte Kyaikto. E’ uno dei siti più venerati di tutta la Birmania. Secondo la leggenda, il masso mantiene il suo precario equilibrio grazie ad un capello del Buddha collocato in un luogo preciso dello stupa. E’ la notte di Natale e pernottiamo in un comodo e semplice albergo in legno sopra una veduta mozzafiato. Dopo la cena, da buoni italiani, ci dividiamo un panettone ed alcuni dolci.
Ripartiamo presto la mattina e dopo una scarpinata tutta in discesa riprendiamo il pulman per Bago che dista circa cinquanta chilometri. La fondazione della città si deve a due principi mon, ai quali accadde di vedere, su un’isola posta in un grande lago, un cigno femmina poggiare sul dorso di un cigno maschio. Interpretando questa apparizione come segno di buon auspicio, i due principi fondarono una città sulle sponde del lago che chiamarono “regno del cigno”. In omaggio alla leggenda, il simbolo di Bago è un hansa femmina, cioè un uccello, posto su un hansa maschio.
Visitiamo l’enorme Shwemawdaw Paya che con i suoi 114 metri domina la città, ciò che resta del palazzo reale Kanbawzathadi, che fu la residenza del re Bayinnaung. Si tratta di 196 colonne in teak stivate in un magazzino. Il nuovo palazzo, copia dell’originale, è costruito in cemento e dipinto d’oro.
Dopo l’ottima cena, un pulmino ci porta nella stazione ferroviaria che è molto affollata. L’impressione del popolo birmano è più che positiva: gentili, mai irritati per le foto scattate nei loro confronti in continuazione, sempre sorridenti. Una donna in compagnia di una bambina mi si avvicina e con un segno inequivocabile mi fa capire che ha fame, le offro alcune banane e la donna mi sembra soddisfatta. Dopo un’ora, prima di salire in treno, ritrovo la donna con tutta la famiglia. Stanno mangiando le mie banane; mi riconosce, sorride e mi saluta. Penso ai cenoni natalizi ed a tutti gli sprechi che la nostra società produce: un’offesa per questa gente. Saliamo sul treno che in quattordici ore ci porterà a Mandalay. Avevamo qualche perplessità su questa trasferta notturna, ma con grande sorpresa la realtà è ben diversa. Un vagone con vecchie, ma comode poltrone con lo schienale reclinabile ci attende. Il viaggio è confortevole, ma di dormire non se na parle nemmeno: il rumore dello sferragliare del treno sulle vecchie rotaie non proprio rettilinee è insopportabile, praticamente è come se un ciclope battesse con una mazza enorme i vecchi e malandati assali. Di tanto in tanto alcuni topolini giocherelloni si rincorrono ed attraversano lo scompartimento senza curarsi della nostra presenza. E’ notte, una bella luna piena color giallo intenso rischiara le risaie circostanti e la temperatura scende di parecchio, grazie anche ad alcuni finestrini che non si chiudono. Dalle numerose fermate salgono uomini avvolti in sacchi di plastica e donne infagottate nei loro variopinti cappotti di lana.
Un’immobile e vasta campagna a perdita d’occhio avvolta da un tenue cielo azzurro, in poco tempo si tinge di rosa pallido ed annucia un nuovo giorno. L’aria frizzante sta cedendo ai raggi del sole che ben presto riporterà la temperatura verso i venticinque gradi. Ascolto il mio walkman e le prime note di “the river” con la voce potente e roca di Bruce Springsteen mi fanno venire la pelle d’oca anche se incomincia a fare caldo.
Sono le dieci di mattina di uno splendido 26 dicembre 2004 ed è tutto tranquillo.
Niente lascia presagire quello che sta succecendo in una parte del mondo non molto lontano da qui. In un abisso oceanico un violento terremoto sconquassa il fondale lontano da occhi indiscreti, provocando una serie incredibile di onde. Migliaia di chilometri di costa vengono colpiti con una forza inaudita. L’Indonesia, la Thailandia, la Birmania, L’India, lo Sri Lanka, le Maldive e persino una parte della costa Africana sono interessate dal fenomeno che in Giappone viene chiamato “Tsunami”. Gli abitanti delle coste non hanno scampo, le vittime saranno 180.000, i senza tetto milioni e la catastrofe interrogherà le menti di tutto il mondo per parecchi giorni e presenterà l’eterno quesito: si poteva evitare?
La prima impressione è che un simile cataclisma di origini naturali non si possa evitare, anche se sono molto perplesso. Da secoli l’uomo sfrutta le risorse naturali di questo pianeta. Negli ultimi decenni l’inquinamento atmosferico e dei mari da una parte ed il selvaggio disboscamento dall’altra hanno messo a dura prova quel delicato e perfetto equilibrio che la natura ha creato in millenni. Una domanda sorge spontanea: le due cose possono avere una relazione?
Mi piace immaginare la terra, il nostro pianeta, come una cosa viva. Il genere umano l’ha profondamente ferita, laggiù negli abissi sotto la crosta terrestre in mezzo al magma incandescente deve avere un gran cuore pulsante. Un vecchio cuore ferito che chiede solo di vivere in pace. Non sopporta più le esplosioni atomiche sotterranee e sugli atolli marini, i gas di scarico, i veleni nei mari e lo stress di una parte del mondo che consuma indiscriminatamente più di quello che gli serve e di un’altra che muore di fame. Simili catastrofi dovrebbero farci riflettere su quanto sia fragile la vita e di quanto sia preziosa. Sono italiano e appartengo all’area fortunata del pianeta, ma mi sento profondamente colpevole di consumare in un giorno quanto serve a mantenere una famiglia africana per una settimana, di avere un armadio pieno di abiti che non uso mai e di avere seguito una dottrina di una società che si impone forti consumi per la propria sopravvivenza. Mi domando spesso che cosa ne sarà di noi fra cento anni e come saremo ricordati. Spero non come la generazione che ha messo fine a questo straordinario pianeta. Ognuno di noi dovrebbe fare qualcosa. L’esempio dovrebbe arrivare soprattutto dai paesi più ricchi, ma il benessere forse ci sta accecando. Stiamo tutti festeggiando su una bellissima nave da crociera che fa acqua da tutte le parti, e presto, se non ci metteremo a lavorare di buona lena alle pompe, inesorabilmente andremo tutti a fondo, ricchi e poveri.
A parte alcuni turisti in vacanza, lo Tsunami ha spazzato via gente che aveva solo povertà e il sole che nasce al mattino e tramonta alla sera. Sarò cinico, ma forse ha colpito dalla parte sbagliata.
Il treno rallenta, la campagna lascia il posto ad una confusa periferia che annuncia una grande città: entriamo a Mandalay.
La città ha più di cinque milioni di abitanti ed è una buona base di partenza per visitare le antiche capitali reali. Mingun è raggiungibile con un’ora di barca risalendo il fangoso fiume Ayeyarwady. Il sentiero che lascia il fiume inizia tra le rovine di due gigantesche chinthe ed in pochi minuti si arriva in un polveroso villaggio dove i venditori di strada sono un po’ troppo incalzanti. Se il re Bodawpaya fosse riuscito a costruire il suo grandioso progetto, oggi Mingun potrebbe vantare lo zedi più grande del mondo. Migliaia di schiavi lavorarono alla costruzione di quest’opera, che fu interrotta con la morte del re: a quell’epoca era stata ultimata una base di mattoni che misurava un terzo dell’altezza che l’edificio avrebbe raggiunto se fosse stato completato. In seguito un terremoto danneggiò il monumento e lo ridusse parzialmente in rovina. L’enorme base di questo stupa si erge sul fiume per 50 metri e ogni suo lato misura 72 metri. Dalla terrazza soprastante si gode una bellissima veduta del villaggio di Mingun e del fiume.
Visitiamo anche l’antica città di Ava per molto tempo capitale del Myanmar settentrionale. In circa trenta minuti di calesse si arriva al Bagaya Kyaung, un monastero edificato nel 1834, interamente in teak, e sostenuto da 267 pali. Nell’interno fresco e buio si respira un’aria particolare. Alcuni giovani monaci stanno studiando e ripetono le nozioni appena imparate a voce alta; sembra di tornare indietro di duecento anni. Il calesse riprende il proprio tragitto e ci accompagna alla Nanmyin una torre di guardia in muratura alta 27 metri. L’ultimo terremoto l’ha lasciata con un’inclinazione inquietante, tanto da far guadagnare al monumento il soprannome di “torre pendente”.
Dopo cena decidiamo di andare a trovare i Moustache Brothers una troupe pwe, che si esibisce in uno spettacolo popolare nello scantinato della loro casa a chiunque sia interessato ad approfondire aspetti della cultura birmana come la danza, la commedia, la musica e l’arte delle marionette. I comici pwe inseriscono spesso nei loro numeri elementi di satira politica. Nel 1996 U Par Par Lay, un famoso comico della compagnia fu condannato a sette anni di lavori forzati per alcune battute particolarmente mordaci nei confronti dei generali del regime durante uno spettacolo per la Festa dell’Indipendenza tenutosi nel complesso in cui vive Aung San Suu Kyi, leader agli arresti domiciliari del NLD, (Lega Nazionale per la Democrazia). Scontata la condanna, U Par Par Lay è stato rilasciato: l’evento è stato festeggiato dai Moustache Brothers con una serie di spettacoli subito bloccati dal regime. Adesso la compagnia si può esibire soltanto nello scantinato di casa. Inutile dire che ogni sera va in scena lo spettacolo che riscuote un grande successo.
Alle undici di mattina, nel monastero di Maha Ganayon, è possibile vedere l’intero corpo monastico intento a consumare il pasto nel silenzio, rotto solo dal trambusto dei numerosi turisti. A poca distanza si può percorrere il ponte U Bein, che attraversa le acque poco profonde del lago Taunghthaman e resiste da due decoli al vento e ai flutti. Il ponte pedonale di 1200 metri, interamente in teak, recuperato dalle rovine di un palazzo abbandonato, è il più lungo del mondo. Finisce la nostra avventura a Mandalay con la visita dell’ultima antica capitale reale di Sagaing della Umin Thounzeh, un monumento in cima ad una collina, dove si possono ammirare 45 immagini del Buddha disposte lungo un colonnato a forma di mezzaluna. La veduta della valle sottostante è straordinaria.
L’indomani il battello parte alle sei di mattina. Mi aspettavo un’imbarcazione tradizionale in legno, invece si tratta di una confortevole nave traghetto, che in poco più di dieci ore scenderà lungo la corrente del fiume Ayeyarwady fino a Bagan. Arriviamo a destinazione giusto in tempo per goderci uno degli spettacoli più belli del mondo: la veduta al tramonto dall’alto della Shwe San Daw Paya sulla pianura circostante punteggiata da migliaia di pagode rosse.
Semplicemente fantastico!
Il grande fervore religioso che produsse questa straordinaria serie di edifici durò due secoli e mezzo. Il periodo di massimo splendore iniziò nel 1057 fino al declino nel 1287, quando la città fu invasa dai mongoli di Kublai Khan. Tuttavia in questi anni la creatività fu ai massimi livelli; migliaia di costruzioni furono edificate in un’unica piccola zona, poi abbandonate e rimaste praticamente intatte nel corso dei secoli.
Bagan offre anche un ricco mercato. C’è di tutto: pesce, carne, verdura, manufatti in legno e lacche. Incontro il primo motociclista del Myanmar. E’ in sella ad una Honda 125 a due tempi con gomme tassellate. La moto in Birmania è una rarità; si può trovare a caro prezzo solo nell’inesistente mercato dell’usato a 1200 dollari USA e le moto nuove non esistono. Il centauro mi spiega poi la lunga trafila per avere il permesso di guida e le pratiche di immatricolazione molto costose e per finire ci vuole anche un permesso speciale per acquistare benzina. Gli chiedo se posso scattare qualche foto. U Ngwe Soe, che nella vita fa il sarto con sua moglie, è entusiasta. Dopo esserci scambiati gli indirizzi e la promessa mia di inviargli le foto, ci salutiamo come due vecchi amici. Sarà l’unico vero motociclista che incontrerò nel Myanmar!!!
Dopo due giorni trascorsi a visitare pagode e stupa, il gruppo si prende una giornata di relax totale, in cui ognuno di noi è libero di fare quello che più desidera.
Alcuni noleggiano una bicicletta, altri ne approfittano per fare acquisti, altri riposano; io, in compagnia di Lara ed Elisa, le due “giovincelle” del gruppo, decido di prendere un calesse per l’intera giornata. Il costo è di soli sette dollari e il cocchiere è molto simpatico, perciò lasciamo che sia lui a decidere dove andare. Passa così un’intera giornata tra antichi monasteri in teak, monaci bambini sorridenti, mercati e ristoranti cinesi dove servono interi e saporiti polli fritti. Ognuno di noi ha molto da raccontare, della propria vita, delle aspettative, dei sogni, ed è tutto scandito dal lento trotterellare del cavallo in questo posto magico tra strade sterrate, pagode, canali, templi e gente sorridente, sotto un cielo color cobalto, il sole accecante ed un’atmosfera serena da far venire i brividi.
Dieci ore di trasferimento in autobus sono tante. La strada, poco più di due metri d’asfalto sconnesso e pieno di buche, circondato, da ambo i lati da uno sterrato accidentato e polveroso, costringe l’autista ad un’andatura molto lenta. Ad ogni incrocio con un altro mezzo i due “contendenti” sembrano sfidarsi ad una sorta di “roulette russa” dello scontro frontale. Si puntano, fino all’ultimo metro, poi improvvisamente, si evitano buttandosi ognuno alla propria destra.
Facciamo una sosta per visitare un monastero in cima al Monte Popa, definito l’Olimpo del Myanmar dimora dei nat (spiriti) più potenti. Una ripida scalinata, dimora di centinaia di dispettose scimmie, ci porta alla cima in venti minuti. Arriviamo a Kalaw a notte fonda, e festeggiamo l’ultimo giorno dell’anno in un ristorante tipico.
Ripartiamo molto presto per Pindaya, dove ci aspetta un trekking di tre ore che ci porterà in montagna a visitare un monastero. La strada, completamente sterrata e con pendenze considerevoli, lascia presto il villaggio alle sue spalle per entrare in una zona boschiva, dove inizia un sentiero pietroso. Man mano che si sale l’aria si fa sempre più fresca. Arriviamo al villaggio di Yatsagyi nel tardo pomeriggio. Il monastero, formato da due grandi costruzioni rettangolari in cemento con il tetto in lamiera, è un po’ deludente. Entriamo nell’edificio principale dove Usukla, un monaco che avrà più o meno trent’anni, ci accoglie con cortesia. Vuole conoscerci personalmente perciò, accovacciati sul pavimento davanti a lui, ci presentiamo scandendo il nostro nome e la città di provenienza. E’ il responsabile del monastero, con i suoi cinque monaci bambini. E’ simpatico, molto sveglio e allegro, uno di quelli che ispira fiducia a prima vista.
A pochi passi dall’edificio c’è un piccolo villaggio di poche capanne. Mi avvicino ad una di esse: un recinto di grosse canne di bambù ne delimita la proprietà e mi sbarra la strada. Nel cortile una donna sta sfamando con il riso un numeroso gruppo di polli e di pulcini, mentre un gallo gigante e fiero si tiene a debita distanza e controlla che tutto vada per il verso giusto. Poco lontano, un grosso e nero maiale riposa in una specie di gabbia di bambù sospesa ad un metro da terra. Il villaggio fa parte dell’area di etnia Palaung. Non conosco il loro dialetto e naturalmente nemmeno il birmano, perciò non mi rimane che comunicare con il linguaggio universale dei gesti. Non voglio essere invadente e mi fermo davanti al rudimentale cancelletto in legno. La donna mi vede. Un sorriso ed un gesto con la mano mi fanno capire che sono il benvenuto. Ringrazio, portandomi la mano destra sul cuore come mi hanno insegnato i miei amici islamici e con un goffo inchino. La signora è praticamente circondata dai pennuti ed io, per rompere il ghiaccio, cerco di accarezzarne alcuni che, spaventati, si tengono a distanza. Lei mi guarda e sorride, poi entra in una specie di ripostiglio e ne esce con un barattolo di riso che mi porge. Tutti i pulcini vengono a mangiare direttamente dalle mie mani. Poi mi invita in casa. Si tratta della classica capanna birmana in bambù con il tetto in paglia ed il pavimento sollevato da terra come le palafitte. Un piccolo portico conduce all’unica porta d’ingresso. Dopo essermi tolto le scarpe, entro in casa. All’interno, accovacciata in un angolo dell’unico grande spazio, c’è una giovane ragazza con lunghi e neri capelli appena lavati che governa il focolare. Nel suo viso dolcissimo, seminascosto dai capelli appiccicati, brillano occhi neri come perle ed un sorriso gentile che mette in evidenza una leggera imperfezione di un incisivo sovrapposto ad un altro, che oltre a renderla bella, la rende interessante e unica. Il fuoco poggia direttamente sul pavimento in legno, isolato solo da una piattaforma di un metro per lato in pietra. In una pentola annerita qualcosa sta cuocendo e sopra di essa una rudimentale ma efficace griglia funge da scaldavivande. Il fumo sale verso l’alto dove non noto nessun camino e fuoriesce da alcune feritoie sotto il tetto. Dall’altro lato del locale un paravento in legno di poco meno di due metri d’altezza delimita lo spazio dell’unica camera, dove alcune stuoie e parecchie coperte fungono da letto. Nella casa, fatta eccezione per un voluminoso baule, non ci sono mobili, nè elettricità, nè acqua corrente ed il bagno all’esterno è raggiungibile seguendo un sentiero di una ventina di metri nell’orto.
Mi vengono in mente gli spot pubblicitari della nostra televisione, in cui in una luccicante cucina tutta marmi, graniti, acciai, forni a micronde, frigoriferi, lavastoviglie e piastre in ceramica ultimo modello, una famiglia smaccatamente bella ostenta un benessere ed una felicità travolgente, ma inesorabilmente finta. La nostra società, per cui quello che conta è apparire e non essere, per cui la lotta quotidiana è quella di lavorare per acquistare e circondarci di cose inutili è lontana anni luce da questo posto. Non so se questa famiglia sia felice, però una cosa è certa: ha un equilibrio straordinario. Si circondano di niente, ma hanno tutto quello che serve per vivere sereni.
La loro cena è pronta e non voglio approfittare dell’ospitalità di questa gente. Lascio questo piccolo angolo di Birmania. Le “mie amiche” mi salutano con l’ennesimo sorriso illuminato dal fuoco che ormai va spegnendosi. Fuori è notte fonda, fa freddo e sono solo le sei.
Dopo la cena con tutto il gruppo, frugale ma sana, alcuni di noi accendono il fuoco. L’aria è frizzante e la volta stellata dà i brividi. La via Lattea è ben visibile e l’universo sconfinato. Davanti ad un simile spettacolo mi sento un microbo e penso al genere umano. Da dove proviene l’uomo?
Forse “il creatore”, che potrebbe anche essere un alieno di intelligenza superiore, conoscendo la pericolosità e le mire bellicose del genere umano, potrebbe averci depositato milioni di anni fa sulla terra per darci un’ultima possibilità. Deve aver detto: “uomo cresci, evolviti, su questo pianeta c’è tutto quello che ti serve, trova il giusto equilibrio che ti permetta di vivere in armonia con la natura che ti circonda; fra qualche millennio ritornerò a controllare personalmente il tuo operato e deciderò del tuo destino”.
Spero che l’alieno non arrivi proprio ora; gli basterebbe dare un’occhiata in giro, oppure parlare con l’uomo più potente del pianeta, un certo Bush, per capire che abbiamo poche speranze.
E se fosse in altre faccende affaccendato?
Beh, allora saremmo i soli ad essere i responsabili del nostro destino…
Sono stanco e lentamente mi avvio verso il mio letto. Sulla scalinata che porta al monastero, che grazie alla cortesia di Usukla, è stato trasformato in dormitorio, lancio un ultimo sguardo verso la casa delle “mie amiche”. E’ tutto buio, silenzio, pace. Mi infilo svelto sotto le pesanti coperte: a pochi metri da me, su un’altare, un Buddha “seduto” occhieggia nell’oscurità emanando tutt’intorno spiritualità e protezione. Grande Buddha: “grazie per la splendida giornata, sono soddisfatto, fortunato ed è stato per me un privilegio conoscere la tua gente”. Poi…un sonno profondo.
Lasciamo il monastero dopo aver salutato il simpatico Usukla. Percorrendo il sentiero verso valle, attraversiamo alcuni villaggi. E’ un vero percorso adatto alle moto da enduro. Con la mia Ktm in mezz’ora raggiungerei Pindaya, invece, ci vorranno quattro ore per scendere i 600 metri di dislivello.
L’autobus riparte, lungo la strada facciamo una sosta per visitare la Shwe Umin Cave. Le famose grotte sono nascoste in un crinale di roccia calcarea e si raggiungono a piedi lungo una scalinata oppure in alternativa con un moderno ascensore. All’interno ci sono 8094 statue di Buddha in alabastro, teak, mattoni, lacca e cemento, messe qui nel corso dei secoli e disposte in modo da formare un labirinto che si snoda nelle varie camere della grotta. Il luogo è molto suggestivo.
Nel pomeriggio visitiamo il sito di Kakku che consiste in una vasta distesa di 2000 stupa alti non più di 3 o 4 metri ciascuno, che danno più l’impressione di essere una foresta pietrificata.
La strada che conduce al lago Inle è pessima e l’andatura è rallentata anche dai numerosi camion che procedono a passo d’uomo. Da una zona montagnosa siamo passati ad una pianura fertile. Nei terreni coltivati ci sono numerose donne. Lavorano in ginocchio e si proteggono dal sole con un enorme cappello di paglia. I villaggi sono formati da capanne di bambù a due piani con annessa la stalla per gli animali. Arriviamo ad Inle verso il tramonto.
La gita sul lago inizia di buon mattino. L’aria è frizzante e le lunghe lance scivolano veloci sulle acque calme del lago, spinte da un potente motore. Incontriamo parecchi pescatori che armeggiano con le loro reti. Hanno uno strano modo di remare: la gamba è attorcigliata attorno al remo e con un movimento rotatorio, dà la spinta giusta. Il lago è un labirinto di canali che portano a piccoli villaggi che sembrano sospesi sul nulla. Straordinari i giardini galleggianti, che consistono in coltivazioni di fiori e verdure ricavate su enormi zolle di terra nera. Verso il tramonto visitiamo anche il monastero dei gatti saltanti. Si tratta di un monastero completamente di legno su palafitte. I gatti che vi risiedono, sono stati addestrati dai monaci a saltare attraverso piccoli cerchi.
La notte e migliaia di stelle ci sorprendono sulla via del ritorno e la temperatura, che per tutto il giorno era stata intorno a 30 gradi, precipita e ci costringe ad indossare alcuni pile.
E’ l’ultimo giorno di viaggio. Poco prima della partenza dell’autobus, che ci porterà all’aereoporto di Heho, faccio conoscenza con una coppia di meccanici motociclistici. Nella spartana officina, oltre ad un sacco di parti meccaniche sparse alla rinfusa sul pavimento, ci sono solo alcuni vecchi motorini. In un angolo, seminascosta da alcuni cartoni c’è quello che rimane di una moto giapponese. Racconto che sono un motociclista e della mia moto, una ktm, di cui naturalmente non hanno mai sentito parlare e, che mi piacerebbe fare un giro, (anche breve), in moto. Uno dei meccanici sorride, alza il telefono e mi dice: “just a moment, I know a friend with motorcycle.”
In pochi minuti arriva un tizio con una scassata ma funzionante Honda 125.
Dallo scarico esce un fumo acre azzurrognolo di olio bruciato, i freni anteriori non esistono, ma ingranata la prima e lasciata la frizione, la moto parte. Mi sembra un sogno! Sono in moto su una strada Birmana. Grande Buddha, quanto mi sei mancata! Strade, buche, facce di gente curiosa, vegetazione che scorre veloce, manovre spericolate della gente del luogo, odori, profumi, vampate di aria calda e polvere sui vestiti che contamina e colora. Finalmente eccomi a voi!
Sono solo pochi minuti, ma entusiasmanti, poi una corsa in autobus verso l’aereo che ci porterà a Yangon. Un ATR ad elica ci attende sulla pista. Decolliamo. Sul sedile di fianco al mio c’è un signore dall’aspetto agiato. Vestito elegantemente, rolex d’oro tempestato di diamanti e grosso anello con enorme rubino. Lavora per una banca ed è specializzato nella vendita di pietre preziose. Spesso si reca all’estero; è stato anche due volte in Italia. E’ stato in Thailandia durante il periodo natalizio per affari. Sono un po’ distratto mentre Aung Ko Win mi dice che il 24 e 25 dicembre era in un lussuoso albergo sulla spiaggia di Phuket con tutta la famiglia, ma quando la sua voce si fa roca, mi giro e vedo che i suoi occhi lucidi mi fissano. Poi aggiunge: “My fly left on 25 dicember late evening, you know, evening. I and my family where very lucky”.
Solo poche ore prima dello Tsunami.
E’ in questi momenti che rimpiango di non parlare un inglese decente.
Quante cose vorrei dirti, sulla fragilità della vita, sul destino di ognuno di noi, sulle nostre paure, sui sogni. Vorrei raccontarti di quando, molti anni fa, avevo timore di volare, di intraprendere viaggi verso l’ignoto, delle incertezze, delle angoscie. Mentre ora accetto quello che il mio destino mi propone, consapevole che tutti facciamo parte di un grande e meraviglioso gioco che è la vita e non ho più paura.
Questo ed altre cose ancora vorrei dirti, ma stringendo forte con tutte e due le mie mani la tua, riesco solo a dire: “I’m very happy for you and your family”.
Ed è allora che, forse per la mia stretta di mano troppo forte, una lacrima bagna le tue gote e mi dici: “Thank you very much, my friend”. Atterriamo a Yangon.
Nella capitale abbiamo solo il tempo di una visita al mercato. Il gruppo si disperde in fretta tra le strette vie e le numerose bancarelle. Fa caldo e decido di sedermi su uno sgabello all’ombra aspettando che sia il mercato con tutti i suoi personaggi a girarmi attorno. In un angolo, in una nicchia c’è un piccolo Buddha circondato da alcuni bastoncini di incenso che profumano l’aria.
Grande Buddha, ti prego, vorrei tanto che un mio sogno s’avverasse: In un futuro non molto lontano, gradirei fare un viaggio in motocicletta. Vorrei partire da casa carico di bagagli e di speranze, percorrere tutto “lo Stivale” con la consapevolezza che per un po’ di tempo dovrò star lontano dall’Italia, imbarcarmi per la Grecia ed attraversarla in fretta e sostare qualche giorno nella magica città di Istanbul. Vorrei poi ripartire verso l’Anatolia, visitare l’Iran con le sue straordinarie città e salutare il suo popolo sempre gentile e ospitale, arrivare in Pakistan ed abbracciare tutti i miei “amici” conosciuti anni fa Beluci, Panjabi, Sindhi, Mohajir e Pasthun, così rustici, ma così schietti. Entrare poi in India per visitarla senza fretta. Vorrei perdermi tra le sue città rosa, azzurre, dorate, brulicanti di genti di svariate razze, lingue e religioni, visitare templi, verdi vallate, deserti, fiumi sacri per arrivare al confine Birmano impolverato e contaminato dai 20.000 chilometri percorsi, la barba lunga, qualche ruga in più, stanco, ma soddisfatto. Nel posto di confine, vorrei trovare la foto di Aung San Suu Kyi, che domina i muri bianchi e lindi dell’ufficio militare. Significherebbe che il leader della Lega Nazionale per la Democrazia, finalmente governa questo magnifico paese. Poi, finalmente, presentando il passaporto vorrei ricevere in cambio solo un sorriso e tre parole: “WELKOME TO BIRMANIA”.