Ladakh

Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 146 – Gennaio 2007
 Incredible India!

Un lungo percorso fino alle sorgenti del Gange nelle alte vette himalayane in compagnia di Shiva e Ganesh.

“Incredible India!” Colpisce immediatamente la scritta sul gigantesco manifesto pubblicitario che troneggia sui muri dell’aeroporto di Delhi. L’India è sempre stata nei  miei pensieri. Un‘attrazione fatale fin dai tempi dei figli dei fiori, che agli inizi degli anni settanta partirono con ogni mezzo dall’Europa verso nuovi orizzonti mistici e paradisiaci. In parecchie occasioni  avevo programmato, studiato itinerari e chiesto informazioni, ma per un motivo o per un altro avevo sempre rinunciato. C’era sempre qualcosa che andava storto: le date delle vacanze non combaciavano, le stagioni erano sbagliate o non avevo la moto adatta. In più di un’occasione ero sbarcato all’aeroporto di Delhi e Bombay in transito e avevo annusato l’irresistibile odore dell’India. L’India  era lì a portata di mano, che mi aspettava e disorientava allo stesso tempo. Troppo grande da visitare in un unico viaggio: centinaia di cose da vedere, da capire. E adesso, in ritardo di almeno venticinque anni, sono pronto?  Difficile rispondere, ma una cosa è certa: oggi i  miei  occhi “vedono”.
La scelta di visitare il Nord è in parte dettata dal fatto di evitare la stagione dei  monsoni che spazzano le pianure, di chiudere il cerchio aperto con i viaggi in Pakistan e Tibet, ma anche la voglia di vedere dove nasce Ganga-Ma la sacra sorgente del Gange,  figlia dell’Himalaya e madre dell’India.
La scelta della moto, invece, è stata molto combattuta, ma alla fine la Royal Enfield 500 Bullet ha soddisfatto tutta la mia voglia di contaminazione Indiana. Mi accompagnano in questa nuova avvventura Gianni, un motociclista molto esperto conosciuto sulle strade del mondo, e la sua compagna Barbara.
Due ore prima di atterrare a Delhi, una gentilissima hostess ci informa che la Lufthansa non ha perso i bagagli, ma semplicemente non li ha caricati per mancanza di spazio. I nostri tre bagagli ed altre quarantasette valigie arriveranno con un paio di giorni di ritardo. Guardo la sorridente ragazza teutonica e non riesco nemmeno ad arrabbiarmi. Poi, quando aggiunge: “La compagnia si scusa per il disguido e vi offre oltre a quaranta euro in contanti a testa e un “necessaire” per la notte, anche una buona bottiglia di vino rosso.” Io rispondo: “Francese!”  “Australiano!” ribatte lei. Scendiamo dall’aereo a notte fonda senza bagagli, più ricchi di quando siamo partiti e con un Cabernet Sauvignon australiano al seguito. Delhi ci accoglie con un caldo e umido abbraccio dal vago sentore di muffa. Sono le tre di notte e le strade sono sgombre. Nonostante l’ora sia tarda, numerosi camion si sorpassano strombazzando con i loro clacson senza curarsi di chi dorme lungo la via. Ci sono gli ambulanti che riposano sui loro carretti, altri stesi su coperte, cartoni o direttamente sul selciato, in fila lungo i marciapiedi. Ci sono poi i privilegiati che dormono sotto la sopraelevata, riparati in caso di pioggia.   Man mano che ci avviciniamo al centro  le strade si restringono e la presenza “on the road” del popolo dormiente aumenta di numero fino a registrare il tutto esaurito. A fatica raggiungiamo un assonnato quanto gentile custode, che ci accoglie al Pablas International Hotel. L’albergo è spartano, pulito e le camere spaziose hanno l’aria condizionata. Dalla finestra, attraverso una selva di fili elettrici si può vedere direttamente in un cortile dove attorno ad una fontana priva di acqua scorazzano  scuri e rumorosi maiali.  Lungo la via in un impeccabie e lindo abito c’è un signore che con modi gentili sta sistemando l’immondizia. La cosa che più mi colpisce è la sua tranquillità e la sua diligenza nel separarla, selezionarla ed accatastarla ordinatamente su un carretto, poi, finito il lavoro, se ne va accompagnato dalla sua signora fasciata in un elegante ed immacolato sari verde.
Approfittiamo del fatto di essere senza bagagli per visitare la città, che offre la stupefacente Jama Masjid, la moschea più grande dell’India, il Forte Rosso, la suggestiva testimonianza dei potenti Moghul, e la tomba di Humayun.  Interessante anche Old Delhi, l’antica città fortificata con le sue viuzze zeppe di negozi e gente variopinta. Anche Agra è vicina. Una fiammante Toyota a noleggio con autista ci porta a destinazione in sette ore. La lunga galoppata è pienamente ripagata da quel gioiello che risponde al nome di Taj Mahal. Fatto costruire dall’imperatore Moghul Shah Jahan in ricordo della sua seconda moglie, la principessa Mumtaz Mahal, morta di parto alla nascita del quattordicesimo figlio. Per costruire il mausoleo ci vollero più di ventimila persone e i lavori durarono vent’anni. Molti furono gli specialisti impiegati per creare le magnifiche superfici di marmo bianco semitrasparente arricchite con intarsi di pietre dure semipreziose dai motivi floreali. Straordinario! Ci vogliono più di due ore per visitare il sito, fa un caldo terribile e prima di uscire ci concediamo una sosta seduti su un muretto che domina il mausoleo. “Usciamo?” mi chiede Barbara. “Un attimo solo, aspetto che arrivi la Regina” rispondo io. “Quale regina?” “Una bellezza locale da immortalare davanti al Taj Mahal”. Dopo pochi minuti arriva una giovane donna con un elgante sari nero impreziosito da fili color oro. Le chiedo se posso riprenderla davanti all’edificio e lei acconsente con un sorriso. L’obbiettivo sussulta davanti al monumento eretto per amore ed ai magnifici occhi verdi della donna.  Sulla via del ritorno, grazie al nostro efficiente autista, visitiamo anche la residenza di Akbar il Grande di Fatehpur Sikri. Condiderato il più grande imperatore moghul di tutti i tempi, fece costruire  questa magnifica città nel deserto. Il palazzo è straordinario e molto bella è anche la moschea annessa. Interessante la scritta del Profeta Hossein cioè il nostro Gesù, sull’enorme portale d’ingresso: “ Il mondo è un ponte, attraversalo, ma non costuirvi sopra una casa. Colui che spera per un’ora può sperare per l’eternità”.
Rientriamo in serata a Delhi e prendiamo possesso delle mitiche Royal Enfield. Centinaia di moto aspettano i loro clienti  allineate lungo la strada. Le nostre invece sono in officina, cioè in uno stretto e sudicio vicolo. Due giovani “meccanici” sono all’opera per il montaggio del portaborse posteriore e per una messa a punto generale. Gianni sceglie la “nera” e, mentre io sto controllando lo stato dei pneumatici della “rossa”, una “mucca pazza” mi carica dandomi una violenta testata sul posteriore tanto da sollevarmi un metro da terra. “Non è pazza!” commenta un signore, scusandosi per l’animale, è solo un eccesso di protezionismo nei confronti del suo vitellino che è nato da poche ore.  Dopo il benvenuto della Sacra Mucca indiana, i due meccanici ci accompagnano verso la prima stazione di benzina. La prima impressione del traffico, anche se da passeggero, è allucinante. Ovunque regna l’anarchia: i camion procedono lentissimi attraverso una giungla di “Tuk-Tuk”, cioè gli Ape-taxi a tre ruote, che sfrecciano indiavolati e la precedenza è di chi è più svelto o di chi suona  il clacson più forte, poi ci sono  animali di tutti i generi, carretti,  biciclette,  risciò,  autobus e quindici milioni di abitanti. Dopo il pieno di benzina che costa quasi un euro al litro, ripartiamo nella veste di piloti titolari. La Royal Enfield si distingue immediatamente per i suoi freni a tamburo che non frenano, per le posizioni invertite dei pedali freno/cambio rispettivamente a sinistra/destra e per la prima marcia in su e seconda, terza e quarta in giù. Per l’accensione invece c’è una tecnica ben precisa. Punto primo: girare la chiave nel quadro in posizione on. Punto secondo: dare dei leggeri calcetti alla pedivella dell’accensione e contemporaneamente pigiare il pulsante del decompressore a sinistra sul manubrio fintanto che la lancetta dell’amperometro in bella vista sul cruscotto non sia perfettamente allineata a metà strada tra la zona verde e la zona rossa. Punto terzo: dare un colpo secco alla pedivella dell’accensione, un po’ di gas e … il gioco è fatto. Il motore … pam-pam-pam-pam parte scoppiettando! La mia impressione è che sarà sicuramente un’avventura, ma … molto molto dura! Approfittiamo dell’invito a cena di Mr Harish, il responsabile dell’agenzia State Express, che si è occupata delle pratiche di nolo delle moto, per apprezzare l’ottima cucina indiana e le numerose portate a base di pollo al curry, formaggio con piselli in umido, riso fritto e le immancabili lenticchie che unite al chapati (pane) ed al “nostro” favoloso vino australiano rendono la serata assai piacevole. Durante la notte la “nera” moto di Gianni dev’essere stata poco bene perchè ha vomitato tutto l’olio del carter motore sul marciapiede dell’albergo. Arriva il responsabile delle moto, un vero gentlemen, che dopo avere commentato: “amico mio, con questa moto non vai da nessuna parte” la sostituisce con un altro modello identico. Le moto a pieno carico, grazie alle inefficaci sospensioni, ondeggiano paurosamente, per quanto riguarda il cambio invece, nessun problema: in città, nel caos infernale,  si usa solo la prima! Occorrono più di due ore per uscire da Delhi, poi superata finalmente un’enorme e nauseabonda discarica ci immettiamo in una specie di superstrada a due corsie per senso di marcia dove camion e pulman si fronteggiano in una sfida mortale. La moto nella scala valori dei veicoli su strada è all’ultimo posto. Amritsar dista cinquecento chilometri da Delhi e l’idea era di arrivarci in una sola tappa. Dopo sette ore, a metà strada, siamo esausti e ci fermiamo in un “grazioso” motel lungo la via. Il fatto che l’albergo fosse deserto mentre il precedente a meno di dieci chilometri di distanza, esaurito, avrebbe dovuto insospettirci, ma complice la stanchezza e un grande appetito, nessuno di noi si accorge che il letto situato in una disceta camera è abitato da tanti voracissimi insetti che uniti alle zanzare e a un condizionatore non rinfrescante ma assordante trasformerà questa prima notte di viaggio in un incubo. La notte in bianco si fa sentire nel lungo e afoso trasferimento ad Amritsar, ma giunti a destinazione, grazie all’estrema gentilezza del general manager dell’hotel Legacy nei confronti degli italiani “campioni del mondo”, possiamo usufruire di una camera a cinque stelle dal costo di quarantacinque euro a soli venti euro. Un gigantesco sikh in uniforme funge da apri porta: lui fuori a quaranta gradi, tutti gli altri dentro nel “gelo siberiano” dei diciassette gradi.
Il Tempio d’Oro è il luogo più sacro della religione Sikh che fu fondata dal Guru Nanak nel XV secolo. I fedeli credono in un solo Dio e rifiutano ogni altro idolo, ma come gli indù e i buddhisti credono nella reincarnazione e nel karma. I segni caratteristici sono la barba e i capelli non tagliati che simboleggiano la santità. La sciabola invece è il potere e la dignità e  il bracciale il coraggio. Non ci sono problemi per visitare il tempio, l’accesso è libero a tutti. L’unico obbligo è quello di lavarsi i piedi e di coprirsi il capo. Si accede al tempio completamente ricoperto di lastre d’oro a forma di fiore di loto rovesciato simbolo di purezza attraverso un lungo corridoio fino alla cupola dove alcuni religiosi recitano preghiere accompagnati da alcuni strumenti musicali che rendono l’atmosfera molto suggestiva. Finisce questa intensa giornata di viaggio nella mia super condizionata e lussuosa camera d’albergo. A pochi metri di distanza, sul tetto di un palazzo in costruzione, dormono una ventina di muratori riparati solo da un terso cielo di stelle. Lo stipendio mensile base in India è di cinquecento rupie (nove euro) e nessuno si può permettere un letto decente. Il general manager dell’albergo, invece guadagna cinquemila rupie (novanta euro) e lavora diciotto ore al giorno per cinque mesi all’anno. “E gli altri sette” chiedo io. “Dormo” risponde lui. Mi domando spesso: “perché io sono da questa parte e loro dall’altra?  Chi ha deciso tutto questo? Il destino, il karma oppure Dio?” Immagino che il Creatore ci abbia distribuito come il buon contadino, che quando semina sparge sementi sul terreno a caso. I fortunati cadono sul terreno fertile gli altri…
Lasciamo Amritsar e le pianure. La strada si infila fra verdi colline e ci regala finalmente le prime curve. Il traffico è sempre caotico e di tanto in tanto incontriamo colonne di centinaia di mezzi militari diretti in Kashmir, che superiano con grande difficoltà. Dai finestrini i militari si sbracciano per salutarci. Quanti i volti sorridenti di questi giovani che vanno a combattere una guerra dichiarata ancora prima che nascessero. Sono le stesse facce che ho visto sei anni fa dall’altra parte in Pakistan, la stessa sicurezza, la stessa convinzione di essere dalla parte giusta. Purtroppo la guerra in Kashmir dura da più di cinquant’anni. Nel 1947 l’Inghilterra concesse l’indipendenza all’India. I Maharajah dei principati indiani poterono decidere se stare con il Pakistan oppure con l’India. Il Maharajah dello stato di Jammu e Kashmir, con la popolazione prevalentemente musulmana, era molto indeciso e solo quando i Pakistani cercarono di annettere l’area si schierò con l’India. La divisione voluta dagli inglesi divise due popoli che avevano sempre convissuto pacificamente e diede il via ad una migrazione di massa e a una serie di massacri da ambo le parti. In tempi più recenti ci furono anche delle elezioni in cui i Kashmiri votarono per scegliere da che parte stare, la fazione musulmana aveva la vittoria in tasca, ma le votazioni viziate dai brogli di Delhi non cambiarono la situazione. Ci sono dei periodi in cui gli scontri sono più cruenti e gli eserciti regolari si fronteggiano lungo una linea di confine a cavallo di una catena montuosa fra i quattromila e i seimila metri a suon di cannonate e bombardamenti, ad altri momenti apparentemente più tranquilli dove però esplodono bombe vigliacche nei mercati, oppure si uccidono, come questa estate, inermi turisti solo perché di origine indiana. L’India, che si definisce la più grande democrazia del mondo, “controlla” la minoranza musulmana che vive nel Kashmir “indiano” mentre i kashmiri vogliono che il Kashmir sia uno stato indipendente. Dopo anni di lotta, gli ultimi scontri risalgono al 1999, con gravi perdite anche fra i civili da ambo le parti, l’odio ha generato solo altro odio e la guerra non ha mai fine. “La guerra è inutile e sciocca, la più bestiale prova di idozia della razza terrestre. Io sono qui per spiegare quanto è ipocrita il mondo che si esalta per un chirurgo che sostituisce un cuore con un altro e poi accetta che migliaia di creature giovani col cuore a posto vengano mandati a morire come vacche al macello per la bandiera. Oriana Fallaci – Niente e così sia”.  Ho sempre davanti agli occhi questi ragazzi in divisa. Quanti di questi giovani cuori dovranno ancora essere sacrificati? Per loro che vanno a combattere nutro un grande rispetto. Per quelli che, invece, decidono le guerre  dietro una scrivania, provo solo nausea e rabbia.
La ripida strada ci conduce al Jawahar Tunnel:  è meravigliosa e il paesaggio, che potrebbe essere scambiato anche per le nostre alpi, alterna montagne color smeraldo punteggiate di abeti secolari a dolci pascoli e a pittoreschi villaggi. Nella galleria, poco più lunga di due chilometri, a senso unico e saturo di gas, usiamo le provvidenziali mascherine antismog portate dall’Italia e già usate in precedenza nelle asfissianti città indiane. Usciti dal tunnel, un enorme cartello ci annuncia che siamo entrati nel Kashmir. “Se in terra esiste il Paradiso, allora è qui, è qui, è qui.”  Lungo la strada, praticamente ogni cento metri c’è un militare di guardia. Srinagar invece è completamente blindata: ad ogni angolo c’è un fortino protetto da sacchi di sabbia, mitragliatrici, reti antigranate e tutti i soldati hanno il giubbotto antiproiettile. Nella città vivono quattrocentomila abitanti guardati a vista da settecentomila militari! La repressione è feroce! “Appostato” in posizione strategica, un tizio ci offre un letto in una delle numerose house-boats che caratterizzano i laghi che circondano la città. Il barcone che è lungo una ventina di metri, offre tre camere con relativi bagni, un soggiono, un elegante salotto e, di poppa, un ampio terrazzo da cui si gode il meraviglioso tramonto sul lago Dal. “I turisti sono tutti  benvenuti in Kashmir. Tutti meno gli israeliani e gli indiani!” ci apostrofa il proprietario. “Perché?” chiedo io. “Hai visto cosa sta succedento in Libano? Israele odia i musulmani! In quanto all’India, noi non siamo indiani, siamo kashmiri!”  La città offre una bella moschea con le colonne in legno, gli splendidi giardini moghul e una  stupenda vista della valle. Peccato che il tempo sia inesorabilmente cambiato: piove a dirotto da molte ore e la prossima tappa, tutta di montagna, è molto impegnativa. Da Srinagar, che lasciamo sotto la pioggia, la strada si dirige verso il passo Zoji La a quota tremilacinquecento metri. E’ il primo vero test di montagna per le nostre Royal Enfield. Dopo pochi chilometri l’asfalto finisce e la ripida salita scompare fra le dense nuvole color panna. Il fondo è viscido e la careggiata consente il passaggio solo ad un veicolo. Nei tratti molto ripidi Barbara è costretta a scendere dalla moto, perché, nonostante tutta l’esperienza di Gianni, la moto non ne vuole sapere di salire neanche in prima marcia. Arrivati in cima fortunatamente il fondo fangoso lascia il posto a grosse pietre levigate e possiamo rifiatare. Molta apprensione invece, quando incontriamo le zone franose dove si passa sempre con lo sguardo verso l’alto. Per farmi coraggio penso a quello che mi avevano detto gli amici pakistani della KaraKorum Highway: “Lungo la KKH è molto probabile che scenda una frana, ma assai improbabile che cada proprio sulla tua testa”. Quando scoppia un temporale però, ripariamo sotto una provvidenziale e sicura tettoia di lamiera lungo la strada. Arriva un camion militare, scende un soldato, avanza a piedi per un centinaio di metri fissando la montagna soprastante. Una decina di macigni grossi come una  Fiat Cinquecento sfidano la legge di gravità stando appesi miracolosamente alla parete fangosa. Un’attimo di esitazione, poi il militare fa un cenno deciso al guidatore che passa a tutta velocità. Ci guardiamo sorpresi e approfittiamo anche noi per passare. Kargil è a soli venti chilometri. Poco prima di entrare nella cittadina, lungo la strada che fiancheggia l’impetuoso fiume Indo, incontriamo una strana costruzione: un muro scuro alto tre metri e lungo un paio di chilometri che serviva per riparare i passanti dai cecchini pakistani durante il conflitto. La moto di Gianni è sempre senza olio, mentre la mia, che lascia ogni giorno   tracce più abbondanti di olio sul marciapiede, stranamente non ne consuma, anche se il mistero dell’olio fuoriuscito rimane. Per quanto riguarda l’impianto luci, abbagliante ed anabbagliante non funzionano, rimangono attive solo  le frecce e il lampeggio, mentre il clacson, importantissimo su queste strade, è operativo. Il feeling con la moto, cresce con il passare dei chilometri, ma aumenta anche la convinzione che la buona riuscita del viaggio sia legata oltre che ad una buone dose di fortuna anche al “Divino”. La Royal Enfield è una moto d’altri tempi: sospensioni mollaccione, freni inaffidabili, cambio pressappochistico, poco sicura, ma usata con parsimonia, cioè senza cambi di marcia repentini è godibile. Rimane il problema dei sorpassi, soprattutto in salita, quando bisogna superare un camion o un autobus. Se dai tutta manetta, per alcuni secondi non succede niente, anzi il propulsore sembra perdere giri soffocato dalla mancaza d’aria o dall’abbondanza di benzina, poi, come per magia, allunga e tira fuori tutti i suoi “poderosi” ventidue cavalli. Ogni volta è uno spavento, il cuore smette di battere per alcuni istanti, ma quando il “frontale” sembra inevitabile, la moto si scuote come un animale di razza e con un colpo di reni ti toglie dai guai. E’ una moto virile e sicuramente con l’anima. Per questi motivi ho deciso di chiamarla Shiva, una delle più importanti divinità hindù. Shiva creatore/distruttore, è capace di assumere con i suoi cento e otto nomi varie sembianze e chissà … potrebbe anche essersi impadronito della mia moto. Per “la nera” di Gianni invece, carica di bagagli e dalle dimensioni mastodontiche, mi sembra appropriato Ganesh, il dio dalle testa di elefante che aiuta a superare ogni ostacolo.
Il tempo continua ad essere inclemente. Il Ladakh, famoso per essere un luogo di scarsissime precipitazioni, è spazzato da una forte perturbazione da sei giorni. Per questo motivo siamo molto indecisi se entrare o meno nello Zanskar. La pista, che si snoda per duecentotrenta chilometri fino a Padum, dove ci sono importanti “gompa” (monasteri) da visitare, ha il suo unico accesso da Kargil. Per alcuni giorni frane e fango hanno impedito anche ai mezzi pesanti di raggiungere Padum. Entrarci con due Royal Enfield cariche di bagagli vorrebbe dire rischiare di rimanere bloccati nella valle per giorni e noi… siamo solo all’inizio del viaggio. Affidiamo la decisione al “Divino”. Se domani  ci sarà il sole entreremo nello Zanskar, se pioverà punteremo direttamente su Leh. L’alba invece, annuncia la classica “via di mezzo” con un bel cielo color piombo con timidi spazzi  di azzurro.  Dopo una rapida consultazione di gruppo  partiamo per lo Zanskar, ma Shiva non percorre nemmeno un chilometro, nel massimo sforzo in cima ad una salita, ammutolisce di colpo. Quando non c’è corrente, la prima cosa da controllare è il fusibile principale. Smontiamo il serbatoio, la sella, il fanale, ma del fusibile non c’è traccia. La Royal Enfield è una moto semplice. Procediamo per tentativi: la bobina funziona, idem l’alternatore, la stessa cosa per il blocchetto chiavi. La nota divertente è, che in passato, non proprio abili mani, devono aver trafficato con l’impianto elettrico. Dietro il fanale c’è un disordinato groviglio di fili ed alcuni di questi non sono neanche collegati, i dadi che stringono il coperchio delle valvole sono tutti diversi e allentati, la sella ha tre bulloni su quattro, insomma un bel rottame! Dopo tre ore di lavoro, tra l’altro in compagnia di un tizio curioso che ci toglie il fiato con mille domande, da dietro la camera d’aria di scorta che è dentro il carter laterale in lamiera e chiuso a chiave, sbuca il “Main Fuse” visibilmente bruciato. Rimontiamo tutto e siamo di nuovo pronti, ma c’è da fare una considerazione. Ieri nella giornata di riposo, mentre ero diretto al distributore di benzina, una banale foratura mi aveva costretto a caricare la moto, che dopo dieci metri aveva “stallonato” il copertone ed era immobilizzata, su un pulmino di passaggio e solo dopo due ore un bravissimo gommista era riuscito a sistemare il mezzo. Oggi tre ore per trovare un banale guasto elettrico. Mi viene da pensare che lo Zanskar non ci voglia! E’ successo anche in altri viaggi, è duro rinunciare a visitare posti tanto sognati, spesso sono decisioni di cui in futuro ci si pente. Se invece è il  karma? Per gli indiani fortuna e sfortuna sono il frutto delle azioni compiute in una vita precedente o in quella attuale e gli effetti  invisibili di queste azioni sono il  karma. Che cosa abbiamo fatto di tanto grave per non meritarci lo Zanskar?
La strada che conduce verso Leh è spettacolare. Incontriamo montagne di rocce friabili color ocra che si inseguono all’infinito e strade incredibili che vi si arrampicano compiendo giri di svariati chilometri per evitare pendenze impossibili. Superiamo a quota tremilaottocento metri il passo Namika La e ci spingiamo nel cuore del Ladakh. Appaiono come per magia i primi monasteri abbarbicati alle montagne più alte. Diverse frane rallentano la nostra già bassa andatura. Nel Ladakh non pioveva da quarant’anni! Adesso che ho visto le condizioni della strada “principale” immagino la strada “secondaria” dello Zanskar. Io, Gianni e Barbara siamo fermamente convinti che se fossimo entrati nello Zanskar, le nostre Royal Enfield non sarebbero più uscite. Le rampe del passo Fotu La, che portano a quattromilatrecento metri, sembrano non finire mai,  ma arrivati in cima la soddisfazione è alta e quando arriviamo a Lamayuru la bellezza del monastero ci tramortisce tanto da prendere la decisione di dormire nella guest-house vicino all’imponente gompa. Barbara, alla sua prima esperienza come passeggera in moto in un viaggio indubbiamente impegnativo, questa sera è un po’ in crisi ed accusa tutti i sintomi del mal di alta montagna. Fin’ora si era adattata magnificamente sia alla piccante cucina indiana che alle intemperie. Oltretutto svolge importanti mansioni per la buona riuscita del viaggio: la cassiera, cioè chi gestisce tutte le nostre sostanze, e poi, ogni mattina appena alzata e ogni sera prima di coricarsi, “una sola cosa deve fare”, controllare che le gomme delle moto siano in perfetto ordine. La mansione che consiste in un paio di calcetti ai pneumatici viene svolta  con precisione, classe e molta ilarità da parte dell’interessata.  Inoltre, Gianni ed io nei momenti di sconforto, che nei viaggi non mancano mai, chiediamo a Barbara di dare una sbirciatina al suo passaporto: la foto, un chiaro esempio di come un fotografo possa rovinare il ritratto una graziosa ragazza,  è terribile, ma divertente e ci risolleva il morale! Lasciamo Lamayuru scendendo lungo una ripida strada scavata nella roccia, fino al greto del fiume con il fiato sospeso per i numerosi macigni caduti a valle, incontrando rari villaggi che appaiono come oasi nel deserto. Arrivati ad Alchi visitiamo l’omonimo gompa. Il monastero risale al XI secolo, nelle sale interne completamente affrescate è possibile vedere alcune delle più preziose opere dell’arte indo-tibetana. Molto interessante anche il Dharma Wheel Gompa, articolato su tre piani, famoso per le sue imponenti statue di Buddha. Incontriamo Stefano che con una Vespa noleggiata a Leh si sta divertendo un mondo, che ci informa che la strada per Leh è interrotta da alcuni giorni: un ponte è stato spazzato via dalla furia delle acque in piena.  Pernottiamo in un residence. Dalle camere, illuminate dalla luna, visto che la corrente nel Ladakh non c’è mai, si gode una magnifica vista sull’Indo che c’è, non si vede, ma si sente e lo sciacquio nel totale silenzio è come una ninna nanna che annuncia sogni beati tra brulle valli, ruscelli trasparenti, moto scintillanti e scuri yak al pascolo… interrotti solo da un inquietante general manager tuttofare dalla dentatura sporgente e dorata che si materializza nelle nostre camere inventandosi scuse banali. L’uomo che gestisce la cucina, le camere e il giardino è il tipico brutto esempio dell’individuo avido arraffa denaro, gentile e premuroso solo per interesse. Nonostante la presenza del sinistro personaggio, decidiamo di fermarci nell’oasi felice per un altro giorno. Likir e il suo splendido monastero distano poco più di venti chilometri. Situato in posizione dominante il gompa Klu-Kkhyil che significa “spiriti dell’acqua” colpisce per l’insolita statua di Maitreya alta venticinque metri all’esterno dell’edificio. All’interno si respira un’aria serena e vitale grazie alle preghiere dei centocinquanta monaci che vi dimorano. Durante il tragitto di ritorno Ganesh incomincia a fare i capricci, perde colpi in continuazione e proprio non ce la fa a risalire verso Alchi. Arriviamo dopo lunghe peripezie al residence, dove la moto “muore” definitivamente. Interveniamo a “cuore aperto”: la candela, cioè un vero e proprio tizzone nero, era allentata. Dopo la sostituzione con una nuova “scintillante”,  Ganesh ringrazia per le premurose cure e riparte come nuova. Shiva, invece, mi commuove. Dopo ben otto giorni di totale mancanza di fanaleria anteriore ha deciso improvvisamente di illuminarsi regalandomi luce di posizione, anabbaglianti e abbaglianti: un vero miracolo dell’ingegneria indiana! Dopo due giorni di sorrisi dorati e forzati del nostro “amico” e di portate a base di riso e dhal (lenticchie) e di dhal (sempre lenticchie) e riso, ne abbiamo a sufficienza e ci cuciniamo un fantastico minestrone di verdure e pasta liofilizzato. La confezione miracolosa è pronta in cinque minuti grazie al portentoso fornellino da campeggio di Gianni ed è servita in tavola al lume di candela (la corrente è sempre latitante). Finalmente una giornata senza pioggia. La prima! Oggi soffia il tanto atteso vento impetuoso del Ladakh che spazza via nuvole e brutti pensieri. Da queste parti dicono che chi arriva a Leh deve pagare pegno: in aereo da Delhi, si corre il rischio di passare qualche notte in bianco per i tremilacinquecento metri di altitudine di Leh; da Manali il problema è lo stesso con una bella notte in tenda a quattromilacinquecento metri!!! Noi da Srinagar, forse siamo i più fortunati, ma devo ammettere che anche oggi la penitenza l’abbiamo fatta: cinquanta chilometri in otto ore!!!
Mister denti d’oro, premio oscar per la simpatia, non è soddisfatto della mancia ricevuta e dopo averci servito la colazione, improvvisamente ci toglie il saluto. Ganesh, invece, caricato a dovere,  ha una gomma a terra e Barbara, che si assume tutte le responsabilità per non aver controllato la gomma subito dopo l’alba è prontamente perdonata dal gruppo. Sostituiamo la camera d’aria, che non ne poteva più visto che aveva già subito dodici riparazioni, ma Ganesh non ne vuole sapere di mettersi in moto. Passa “per caso” dalle nostre parti “Mister Bontà”. Gli chiediamo se ad Alchi esista un meccanico. La risposta, senza degnarsi di uno sguardo è tanto serafica quanto maleducata: “I don’t know!” La carica della batteria è di 11,7 volt! Troppo pochi! Impariamo a nostre spese che nonostante la Royal Enfield abbia l’accensione a pedivella, la moto non parte se la batteria non è perfettamente carica. Tentiamo una “ricarica” con un gentilissimo taxista che collega la batteria alla propria auto. Dopo trenta minuti riattacchiamo la batteria alla moto. Niente da fare! Facciamo un ponte elettrico con due esili fili. Ganesh parte! Ma procede come una lumaca anche in discesa. Carico  Barbara sul sellino posteriore di Shiva e seguo le evoluzioni della moto di Gianni. Fermarsi lungo la strada per Leh vorrebbe dire caricare il mezzo su un camion. Le Royal Enfield ci stanno dando di media un problema al giorno: Il livello dell’olio è sempre giusto lì tra il minimo e il massimo, poi tutto d’un tratto l’olio scompare! Guardi nel filtro dell’aria e ci trovi un topo morto trent’anni fa di vecchiaia.   I freni “rallentano” ma non frenano. Le camere d’aria sono tutte rattoppate. Sotto la sella è solo un groviglio di fili spelacchiati. Shiva ha anche una piccola perdita di benzina dal serbatoio prontamente “riparata” con un adesivo della bandiera inglese (in India!!!). Insomma dei veri “catramoni”, tuttavia, non riesci ad odiarle. Sei consapevole di avere tra le gambe un blocco di ferro antiquato, ma ciò che questa moto trasmette, a parte le vibrazioni da far cadere le protesi dentarie, è la sua estrema semplicità e la totale mancanza di certezze sul domani. Penso che il suo motto sia: il futuro è incerto, accontentati di vivere adesso! Sull’ultimo passo prima di Leh, Ganesh sfinita, procede così lenta, che facciamo fatica anche a superare un gruppo di eroici ciclisti in mountan-bike. Nessun problema in discesa, ma arrivati in città la moto di Gianni  si spegne. Fortunatamente siamo solo ad un chilometro di distanza dal “Signor Meccanico” che ci riceve nella sua “Officina” ricavata in un vetusto garage di due metri per quattro. Il pavimento del locale è pieno di scheletri di vecchie “poderose” Royal Enfield sparpagliati fra rugginose tinozze colme d’olio esausto. Juma, il “Gran Maestro Meccanico” si presenta unto dalla testa ai piedi. Nonostante l’immagine folcloristica, capiamo immediatamente di essere in buone mani: “Batteria finita” è il suo primo verdetto. Nel frattempo arriva un rumoroso camion stracarico di grano. Si apre il portellone posteriore e dal polverone nascosto tra i sacchi sbuca un “fricchettone” con la sua Royal Enfield. Il giovane con una folta chioma di quaranta centimetri “rasta” indossa un pantalone militare “multimacchia oleosa” a vita bassa, una canottiera color “pozzanghera fangosa”, calzettoni di lana grossa, ciabatta infradito e … per il freddo delle alte vette Himalayane “Dimora delle Nevi” una coperta di pile infilata come un poncio! Partito da Manali alcuni giorni fa con questo “vestiario tecnico” da far impallidire i più blasonati produttori di abbigliamento motociclistico, aveva visto la sua moto cadere letteralmente in pezzi e per giungere a destinazione aveva dovuto ricorrere ad un trasporto di granaglie ed ora, come noi, aveva bisogno di abili cure per essere rimessa in strada. Si rivolge a Gianni: “Se vuoi la mia batteria per un po’, te la cedo volentieri”. Collegata la batteria ne approfittiamo per portare i bagagli in hotel. Ritorniamo dal “Signor Meccanico” che finalmente si mette all’opera. Una nuova batteria viene montata, ma la moto non carica. L’uomo in ginocchio fra pozzanghere d’olio e fili elettrici scoperti e scintillanti lavora febbrilmente, aiutato da un collega.  Dopo due ore sentenzia: “ Adesso è tutto OK!” Approfitto anch’io del “Gran Maestro” per fare una messa a punto generale a Shiva prima di affrontare il terribile Khardung La. L’olio motore è in tre parti separate: il carter, la trasmissione e il cambio. La trasmissione ne contiene quasi un litro, controlliamo… ed è completamente a secco: ecco svelato il mistero dell’olio lasciato su tutte le strade dell’India e del livello controllato quasi tutti i giorni che non calava. Anche nel cambio non troviamo nessuna presenza oleosa. Il filtro dell’aria invece, che risiede nella classica “scatola filtro”, normalmente ha un coperchio di plastica che chiude l’accesso esterno. Il coperchio non c’è! Praticamente il mio carburatore nei millecinquecento chilometri percorsi fin’ora poteva anche aspirarsi una scimmia senza che me ne accorgessi. Tutto a posto invece per le valvole e l’impianto elettrico. Il conto è onestissimo come del resto il nostro bravo Meccanico.
Leh,  incastonata fra una splendida catena di montagne è dominata dal Namgyal Tsemo Gompa, costruito nel 1430. Nel monastero ci sono una decina di monaci che pregano accompagnati da alcuni strumenti a fiato e tamburi. Sono preghiere propiziatorie per il bel tempo che ancora latita. Sopra l’edificio, da un vecchio forte in rovina si gode la vista sulla splendida valle e sul vecchio Palazzo Reale, residenza della famiglia reale prima che essa venisse esiliata nel 1830 a Stok. L’edificio risale al XXVII secolo ed ora è in ristrutturazione. Incontriamo Laura e Paolo una coppia di amici/viaggiatori/trekkisti di Padova, conosciuti anni fa in Marocco e con loro ceniamo in un bel ristorante che serve prelibatezze tibetane: ottimi i momo (ravioli) al vapore ripieni di verdure, tonno e pollo. La salita che conduce verso il Khardung La è una lunga arrampicata su asfalto fino  al posto di controllo militare a quota quattromilatrecento metri. Abbiamo deciso di affrontare il più alto passo carrabile del mondo in modo intelligente caricando i bagagli sulla jeep dei nostri amici padovani che ci seguono. Il mezzo è guidato da Sunny, un giovane musulmano che si distingue per la sua disponibilità e affidabilità. Dopo l’avamposto militare, l’asfalto lascia il posto ad uno sterrrato impegnativo. Le moto arrancano, ma avanzano, la salita sembra interminabile ma, improvvisamente, fra due alti picchi di roccia  la scritta: “questa è la porta per la Nubra Valley” annuncia che siamo in cima al passo. In discesa, mi rilasso e pure Shiva, che dà chiari segni di cedimento sotto forma di spegnimenti improvvisi e vistosi cali di “potenza”. Penso che il problema sia dovuto alle altezze aeronautiche, ma arrivati a livelli “normali” il problema rimane. Per fortuna il panorama incredibilmente ricco di strapiombi mozzafiato, oasi verde smeraldo e vette Himalayane imbiancate di neve mi distoglie dai pensieri sinistri di un’eventuale e non remota possibilità di rimanere  appiedato. Ma se è vero che, come una normale canzone quando sale di tono diventa musica, un viaggio non si trasforma “nel viaggio” se non presenta mille incognite. Che vada come deve andare. Io e i miei compagni ci crediamo e… andiamo avanti!     Il fondo valle si divide in due tronconi. Seguiamo la via che conduce a Diskit, che attraversa un vero e proprio deserto di alta montagna formato da centinaia di dune di sabbia. Scoppia un violento temporale che, per fortuna, dura solo pochi minuti. Una parte del villaggio, una decina di giorni fa è stato spazzato via da un’inondazione che non si ricordava a memoria d’uomo. La Guest-house immersa in una rigogliosa oasi è perfetta per la notte. Un vero peccato invece che nelle camere aleggi un nauseante odore di muffa. Un mini trekking di un’ora lungo un ripido sentiero è il giusto prezzo da pagare per visitare l’affascinante gompa di Diskit arroccato in cima al monte dove i monaci  riuniti per la preghiera serale avvolgono il luogo di una patina spirituale e magica. Prima di visitare il secondo ramo della valle, quello che conduce verso il confine cinese, ho controllato a fondo Shiva che non ne vuole sapere di mettere giudizio e procede sempre a singhiozzo. E’ incredibile la pace che regna in questo luogo, perfino i mansueti somarelli al pascolo sembrano strizzarci l’occhiolino per la gioia. Io invece ho un solo pensiero: riuscirò domani a superare per la seconda volta il mitico Khardung La?    Ho solo una possibilità: partire “in fuga” per il “Gran premio della Montagna” davanti a Gianni, Barbara, alla jeep di Sunny che eventualmente raccoglierà i “cocci” di Shiva e superare il passo senza fermarmi mai! Fermarsi vorrebbe dire far spegnere la moto e Shiva è ormai alla fine.   Superato il passo, invece, solo la folle discesa mi separerà dal “Magico Meccanico” di Leh, che sicuramente mi rimetterà in careggiata. Un’impresa non facile, ma nemmeno impossibile. Laurence d’Arabia lancerebbe il suo famoso grido: “Ognuno per sé, Dio per tutti e… niente prigionieri! Supero di slancio sparuti villaggi e greggi di pecore e capre che saturano le mie narici con il loro odore pungente. La moto sale poderosamente lungo il discreto  fondo asfaltato, ma appena inizia lo sterrato, pietre, buche e fango mettono in evidenza la non proprio idoneità di questo mezzo, lungo, pesante e dal cavalletto così basso da sbattere ovunque. Oltretutto la cima del monte è avvolta da nuvole grigie che la fanno sembrare irraggiungibile. Uno sguarcio improvviso illumina la meta coperta da un’immacolata e fresca nevicata! Per fortuna i mezzi incrociati sono rari. Tutti procedono a passo d’uomo in mezzo alla pista e, visto che, anche lo “squillante” clacson, ormai è solo un lontano mormorio, segno nefasto che significa: “Ehi amico, hai finito la batteria!”,  urlo con tutto il fiato che ho in corpo ai conducenti di darmi strada. Shiva sputacchia, brontola, sembra trapassare, ma non molla. Dopo un incredibile tornante un tizio in mezzo alla strada mi chiede un passaggio. Riesco a malapena a staccare una mano dal manubrio ed a portarmela sotto la gola come per dire: “Non ce n’è per nessuno”! L’uomo capisce al volo il mio gesto disperato, sorride e si fa da parte. Adesso la neve ricopre il paesaggio rendendo l’ascesa ovattata e surreale. Il passo non è lontano, c’è un lungo rettilineo, un maledetto tornante con pietre come meloni dove la moto salta come un canguro, una nuova salita,  poi… sul lato “Gran Burrone” si materializza uno Yak. E’ enorme! Non ho mai visto niente di simile! Cosa ci farà quassù a cinquemilacinquecento metri? Non c’è nemmeno un filo d’erba! Se ne sta lì immobile come uno spettro con gli zoccoli piantati nella neve e il suo manto scuro e peloso che sfiora il terreno. Sbuffa zaffate di vapore caldo dalle narici che vanno a miscelarsi ad uno sfondo di nuvole biancastre. La testa è gigantesca. Mi fissa, con il suo sguardo sicuro e fiero come per dire: “Io sono lo Yak più grande dell’India”, ma non è ostile. Vorrei fermarmi, fotografarlo, ma non posso. Se mi fermassi, non riuscirei più a partire e poi… non si possono fotografare i fantasmi. Un ultimo balzo, vedo le bandierine preghiera: sono in cima! Il passo è gremito di gente. Urlo a tutti di lasciarmi passare. Entro in “velocità” in pozzanghere profonde di neve marcia e qualcuno finisce sicuramente “lavato” da capo a piedi. La folla si apre, riesco a passare inseguito solamente da sibilanti palle di neve e la cosa mi fa sentire come il “Motociclista” Felliniano di Amarcord. La discesa è facile anche se Shiva è inguidabile e devo continuamente tirare la frizione per non far spegnere il motore. Quando arrivo al posto di controllo militare sono esausto e decido di fermarmi per aspettare gli altri. L’avamposto è comandato da una strabiliante ragazza, forse in passato candidata a Miss India, vestita in una elegante mimetica zeppa di stellette e medaglie. Mentre beviamo un tè, il silenzio è interrotto da un lontano inconfondibile scoppiettante rombo di una Royal Enfield. Non è Ganesh, è una giovane coppia di francesi diretti nella Nubra Valley. Lui indossa una giacca a vento e un paio di guanti da sci, lei un pesante pile a mani nude. Mi chiedono informazioni sulle condizioni della strada e poi ripartono. Finalmente arriva la moto di Barbara e Gianni. Per loro è stata molto dura: Barbara è dovuta scendere dalla moto diverse volte. Anche loro hanno visto lo Yak. Allora non era uno spettro. Bah, chi può dirlo? A me piace pensare che lo splendido animale appaia solo ai motociclisti meritevoli.  Shiva non parte e, solo dopo numerosi disperati tentativi in discesa si mette in moto. Adesso il clacson è muto, la corrente finita e il propulsore gorgoglia, ma grazie a tutte le potenti divinità indiane, arrivo davanti ad un sorridente e niente affatto sorpreso  “Juma the Magic Wonderful Mechanic” mentre Shiva esausta dà uno sbuffo asmatico e nerastro dallo scappamento, un sussulto al motore e poi … definitivamente rende l’anima al Divino.
Lo “Juma Automobile Workshop” è come la sala di rianimazione del miglior ospedale per moto del mondo e, Shiva, che era stata fermata anche questa volta da un banale quanto mortifero guasto elettrico (cedimento mascherato e bastardo del solito Main Fuse) riprende a correre come un cammello che vede una pozza d’acqua nel deserto. Visitiamo lo splendido monastero di Hemis, uno dei più grandi, a trenta chilometri a sud di Leh e quello di Shey dove all’interno spicca una statua di Buddha alta dodici metri.  Forse incomincio a “vedere” anche quello che non capisco nel rapporto fra i fedeli e le divinità. E’ nell’attimo in cui lo sguardo di chi viene a pregare incrocia lo sguardo del Divino che si sprigiona  l’enorme spiritualità Indiana. “Guardare e nello stesso tempo essere guardati”. Solo una frazione di secondo, ma con un’intensità cosmica.
Tre passi himalayani sopra i cinquemila metri sono troppi anche per moto da enduro, figuriamoci per due scassate Royal Enfield cariche di bagagli. Ce ne accorgiamo subito! Dopo aver attraversato una lunga e stretta gola, dove la pista fiancheggia un torrente violento e limaccioso che, di tanto in tanto si è divorato interi tratti di strada, costringendoci a dei veri e propri rally cross tra fango, guadi e detriti; inizia una folle salita che ci porta dopo un’asfissiante sterrato all’importante quota di cinquemilatrecentoventotto metri del Taglang La. Ganesh è più lenta di Shiva per due buoni motivi: per la cilindrata di 350 cc, solo un sospetto, perché le moto sono identiche, subito confermato dal nostro “Amico Meccanico” di Leh che, constatava senza ombra di dubbio e, per il peso superiore dei bagali e del passeggero. Per questo motivo sono sempre davanti, con il tacito accordo di aspettare Ganesh in cima ai passi. In vetta mi accorgo con raccapriccio che il mio portabagagli è completamente in pezzi: tubi dissaldati, ferri tranciati e dadi persi! Ho sempre un paio di metri di filo di ferro con me, ma qui non bastano. Per nostra fortuna in una vicina discarica militare abbandonata recuperiamo dei provvidenziali fili di ferro arrugginiti. Un’ora di lavoro a cinquemila metri è pesante! Mi sfilano davanti agli occhi tutte le squadre di lavoratori incontrati lungo la strada che spaccano pietre, stendono asfalto e spalano frane enormi a queste altitudini e mi vengono i brividi. Siamo circondati da una catena di montagne rocciose che alternano colorazioni gialle, rosse e verdi: uno spettacolo!  Il traffico molto scarso ad un certo punto scompare del tutto, per poi ricomparire su una pista polverosa che scorre ad un paio di chilometri da noi. Un mistero subito svelato: la pista che stiamo percorrendo ha “perso” due ponti e scompare in un pantano. Facciamo un largo giro, su un fondo “molliccio” che ci lascia in apprensione, ma riusciamo a ritrovare la via per poi finire inghiottiti da una gola incredibile e popolata solo di baracche militari disabitate. Superato il “centro disabitato” risaliamo verso il Lachalung La che superiamo a quota cinquemilasessantacinque metri senza difficoltà, una breve tregua giù per il pendio, e di nuovo, tutto in prima marcia perché, in seconda il motore muore, verso la vetta del Nuchli La a cinquemilaventi metri. Le brulle montagne lasciano lentamente il posto a verdissimi pascoli e ad immensi greggi. Superato il fiume, salutiamo definitivamente il Ladakh per entrare nell’Himachal Pradesh. Sarchu, a quattromilacinquecento metri, non è altro che un campo tendato dove, oltre ad una confortevole tenda per la notte, riusciamo anche a trovare dieci litri di benzina e, il fatto che il prezzo sia superiore al valore di mercato, non sposta la nostra opinione che il tizio ci abbia fatto un grande favore, perché nonostante, le taniche di scorta non saremmo mai arrivati a Manali. Se ci siamo lasciati alle spalle i duecentocinquanta chilometri che separano Leh da Sarchu in dieci ore, i restanti duecentoquindici chilometri per arrivare a Manali dovrebbero essere alla nostra portata, ma non sarà così. Fatti pochi chilometri la strada si trasforma prima in una pietraia poi in un torrente. Arrivo in cima al Baralacha La, a quattromilanovecentonovanta metri, mezzo morto e con le braccia a pezzi e aspetto Ganesh con ansia. L’ultima volta che l’avevo visto andava talmente piano che si poteva superarla a piedi. Dopo venti minuti finalmente arriva. Ha superato l’ostacolo, ma a caro prezzo: distruzione completa del portabagagli e rottura del freno posteriore (l’unico che frena). Ci mettiamo al lavoro e, dopo la solita ora, molto filo di ferro e un mal di testa allucinante, ripartiamo verso valle. In sette ore abbiamo percorso solo cento chilometri, siamo sfiniti e decidiamo di pernottare a Keylong che è adagiata in una valle fertile. L’albergo è buono e il proprietario gentile ci indica un meccanico saldatore che in pochi minuti rimette in ordine le nostre Royal Enfield. Le rampe del Rohtang La si materializzano all’improvviso e il cartello che indica solo tredici chilometri alla vetta sembra un miraggio. In cima a quattromila metri ci sono numerosi cavalli da passeggio per turisti, venditori di pannocchie arrostite e i primi contrafforti dell’immenso monsone che ghermisce tutta la pianura indiana. Durante la discesa una fitta nebbia mi avvolge costringendomi per rendermi visibile ad azionare il lampeggio frecce visto che il fanale è sempre morto, poi quando Shiva inizia la solita manfrina degli scoppiettamenti, mancanze di corrente e potenza, senza indugio cambio il “Main Fuse” anche se apparentemente è buono, con uno nuovo che fa parte della “manciata” con cui mi aveva riempito le tasche a Leh il “Magnifico Meccanico”.  Manali, famosa per essere una stazione turistica molto frequentata dai turisti e per la produzione di un derivato della cannabis, che cresce spontanea anche vicino alla fermata dell’autobus  ci accoglie con un abbraccio caldo, grigio e “fumoso”. I dintorni del luogo di rara bellezza sono completamente immersi nel verde di una foresta ricca di cascate, ruscelli cristallini, cedri e abeti. Delude invece la città molto trafficata e di conseguenza inquinata e desisamente anonima. I trecento chilometri che ci separano da Chandigarh sono tutt’altro che facili. Prima lunghi tratti di fango che  trasformano la strada in campi coltivati, poi larghe chiazze di gasolio, perse sull’alsfalto bagnato da qualche camion, che fanno scivolare a terra  dopo una curva insidiosa Ganesh. Niente di grave ne per Gianni e Barbara, che durante la caduta ha protetto eroicamente la preziosa macchina fotografica, ne per la moto, che se la cava con la sola rottura del fanale e qualche lieve ammaccatura. Intanto è ripreso il classico traffico indiano fitto fitto di mezzi pesanti. Dopo la sosta notturna in un albergo di lusso con ristorante italiano annesso riprendiamo il viaggio. Per un motociclista rimanere con una gomma a terra a poco meno di cento chilometri dalla fine del viaggio è sicuramente “sfiga”, ma quando capita nell’infernale pianura indiana a mezzogiorno  a quaranta gradi proprio davanti a un gommista invece è   un gran colpo di fortuna. Uno stranissimo “turafori” in abito chiaro e pulito ci accoglie nella sua “bottega”. Il suo aiutante, un ragazzino di sette/otto anni,  sveglio come pochi smonta, ripara e rimonta il pneumatico in pochi minuti con una professionalità e una malizia da far invidia al più esperto gommista. La cifra da sborsare è di quaranta rupie. Cinquantotto equivarrebbero a un euro. Spingiamo per lasciare una meritatissima mancia, ma non se ne parla nemmeno. A questo punto Gianni, da abile prestigiatore, infila un “deca” nel taschino del ragazzino apprendista senza farsi notare dal titolare. Gli occhi del bimbo lanciano lampi di umida riconoscenza.
Gli ultimi chilometri attraverso la pianura dove il caldo ti spreme come una pressa idraulica sembrano non finire mai. E’ l’India che a modo suo non vuole che questo viaggio finisca. Forse l’India vera è proprio questa: campagne sterminate, coltivazioni, villaggi, luride baraccopoli, stagni zeppi di bufali lucenti, mucche sacre, somari ciondolanti, cani vagabondi, scimmie spelacchiate, biciclette, risciò, motorini, autobus, camion e gente, tanta gente. L’India avvolge e stordisce in un vortice continuo di disperazione, gioia, povertà dignitosa, squallore e bellezza. Non ci sono mezze misure. Non hai scelta, o ti lasci inghiottire oppure tieni le distanze e rimani indifferente. E l’indifferenza è terribile!  La moto, alcune volte mi ha dato la sensazione di essere lei a guidarmi, d’altra parte io volevo proprio la moto indiana per l’India. Certo che con una moto tecnologica sarebbe stato un viaggio diverso. Più sicuro. La Jurassica Royal Enfield è un motocicletta lenta! Così lenta da permettere a chi ci sta sopra di guardare negli occhi della gente, di salutare, di toccare tutto e tutti e la disponibilità indiana è commovente: quando allunghi una mano ne trovi dieci pronte a stringerla. Questo è uno dei lati positivi del viaggio. In un immenso paese dove anche il più esperto viaggiatore è solo un umile apprendista,  un mezzo adatto aiuta a capire e ti fa sentire “dentro”. Per portare a termine questa avventura abbiamo anche scomodato divinità potenti come Shiva,  Ganesh e il Divino. Loro ci hanno sicuramente dato una mano, ma è soprattutto grazie ai nostri sforzi, alla nostra convinzione e a quello che “trasportiamo” dentro di Noi se siamo arrivati in fondo. Lassù fra le alte vette himalayane non ho trovato la Sacra Sorgente del Gange, che da qualche parte deve pur essere. Non sempre ciò che si cerca è visibile, spesso tutto quello che si desidera è dentro di noi, basta cercarlo, la difficoltà semmai è sapere esattamente  cosa cercare. Per l’occidente tutta la vita è basata sulla vita stessa, dove conta  apparire e non essere, circondati dal “tutto” che spesso non porta alla felicità. Tiziano Terzani gran conoscitore dell’India scriveva:“L’indiano è contento che, è meno di felice. Contento è uno che si accontenta e chi si accontenta è perché ha meno desideri”.  Secondo me ci manca il giusto equilibrio con la natura che ci circonda. Per molti anni mi sono sentito Italiano, poi Europeo oggi mi sento profondamente Terrestre. Da bambino guardavo affascinato due pesciolini rossi dentro una sfera di vetro che mi aveva regalato mio padre. Il primo,  forte e arrogante mangiava per tre e occupava tutto lo spazio,  il secondo timido e riservato se ne stava sempre nascosto sotto un sasso. Ai miei occhi il loro mondo mi sembrava così piccolo e fragile. La terra vista da fuori è la stessa cosa. Una piccola sfera con una sottile intercapedine d’aria che ci permette di respirare. Un equilibrio perfetto creato unicamente dalla natura ci permette di sopravvivere. In India, questo “relativamente” grande paese, che visto dallo spazio ha la forma di un cuore, vivono più di un milardo di persone. Forse l’India è proprio il cuore del “nostro” mondo, oppure è solo la mia immaginazione. Chissà! Una cosa è certa: io sono lì nel mezzo! Arriviamo a Delhi, questo viaggio si conclude, ma “il viaggio” attraverso questa Incredibile India è appena incominciato!

“A Sara, che amava l’India così come la vita,
possa il tuo viaggio essere sempre illuminato.”