Goa

Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 166 – Dicembre/Gennaio 2009
 Una corda tesa.

Full immersion di mare, sole, moto e barca a vela nell’India meridionale a caccia di emozioni, sulle orme dei  dei figli dei fiori degli anni ’60.

Freedom, Fredoom, Fredoom urlava Richie Havens il 15 agosto 1969 dal palco di  Woodstock. Al concerto, organizzato a Bethel, nella contea di Sullivan, stato di New York, erano presenti quasi un milione di giovani. Le date del 15, 16 e 17 agosto coincidevano con la consacrazione mediatica della rivoluzione culturale del 1968 e dell’era “hippie”, la generazione ribelle. Nell’America  di quegli anni, sconvolta dalla guerra del Vietnam, c’era una gran voglia di “three days of peace, love and music”. I mega concerti e i viaggi sono stati una caratteristica della cultura hippie. Viaggi in autostop, su pulmini Wolkswagen con lo stemma W trasformato nell’emblema della pace e in autobus. Dei viaggi in autobus, il più famoso, era quello per l’India: da Atene, verso Istanbul, Tehran, Mashad, Kabul, Peshawar, Delhi, fino a Goa.  I “figli dei fiori” con le loro camicie floreali, sandali, collanine di perle colorate, pantaloni scampanati, bandane e capelli lunghissimi non avevano ostacoli: l’Afghanistan era in pace e la strada per l’Oriente diretta e affascinante. Ero troppo giovane per partecipare al raduno di Woodstock e l’America, troppo lontana, era solo un sogno, ma oggi, a quarant’anni di distanza, su un aereo diretto a Goa, non posso fare a meno di pensare a tutti i miei coetanei che in quegli anni seguirono  la via dell’India, alla musica che ascoltavano e a quel concerto che avrebbe contaminato un’intera generazione. L’aereo è un mezzo comodo per viaggiare, in poche ore si passa da un continente all’altro, ma è un viaggio senza emozioni.  Gli aeroporti, poi, sono tutti uguali: stessi negozi, sale, bar, edicole e poltroncine e anche Goa non è da meno. Il solito edificio anonimo ed il caldo e umido abbraccio dei 38 gradi della bella stagione, che presto cederà il passo alla furia del monsone. Giorgio e Viviana, conosciuti in un raid motociclistico anni fa in Etiopia, mi stanno aspettando sulla loro barca a vela. Il Tamata, partito dall’Italia da più di sei mesi, è all’ancora nel largo estuario del fiume Mandovi davanti a Panaji, la capitale dello stato di Goa. Per questa nuova avventura indiana avevo deciso di usare  la “solita” Royal Enfield che ormai conosco molto bene, ma quando il noleggiatore mi propone due vecchie e decrepite 500 Bullet buone solo per la fonderia, scelgo una scintillante Hero Honda Passion Plus. La “motina” è la scelta giusta per le stradine strette ed accidentate dello stato di Goa. Il motore a quattro tempi di 100 cc non è molto potente, ma ben sfruttabile con il cambio a quattro marce, mentre il serbatoio da 11 litri, vero punto di forza, la trasforma in una gran turismo per lunghe distanze. Con un litro di benzina percorre quasi novanta chilometri! Mi dirigo a Nord, nella zona di Bartez, verso le belle spiagge affacciate sull’oceano Indiano.  Le piccole e graziose casette colorate con i tetti in tegole rosse ricordano più l’Europa e il passato portoghese di Goa, dell’India che conosco. La prima spiaggia che incontro è Calangute: una lunga lingua di sabbia bianca zeppa di lettini, sdraio e ombrelloni e circondata da minuscoli bar sotto tendoni sbiaditi dal sole. E’ molto affollata di Indiani, famiglie intere che fanno il bagno nelle torride e sabbiose acque verdastre. Baga, invece, vicino alla foce di un fiume dalle acque cristalline, è più tranquilla. Per raggiungere la parte più bella della baia bisogna attraversare il fiume passando  sull’unico ponte che è raggiungibile solo facendo un lungo giro. Raggiunto il poco frequentato sterrato, posso finalmente testare le prestazioni di questa motocicletta.  Non è certo una moto brillante, ma per uno come me, che ha sempre dato gas non per andare forte, ma per sentirsi vivo, mettersi a correre in un posto dove tutto ciò che mi circonda invita al relax, è come per James Bond bere una bottiglia di Champagne Krug Clos de Mesnil del 1995 a temperatura ambiente. Seguo il sentiero, che conduce direttamente al mare,  superando graziosi villini circondati da odorosi  giardini fioriti, fino a uno slargo occupato  dai tavolini di un ristorante. La scelta mi sembra obbligata. Davanti al locale troneggiano due luccicanti Royal Enfield. Capelli lunghi grigi metallizzati, coda di cavallo, giubbotti di pelle nera. I due bikers sembrano gemelli! L’olandese, che si chiama Peter, è arrivato con la prima ondata hippie all’inizio degli anni settanta, mentre Michel, francese, che vive a Panaji da cinque anni, si è innamorato di Goa e di tutte le sue tentazioni “paradisiache”. “Mille rupie al giorno, (sedici euro) e i tuoi problemi sono finiti mon ami” commenta il transalpino mentre ci servono una dorata frittura di calamari. Il conto, comprese le numerose bibite gelate, non supera la folle cifra di due euro a testa! Avrei speso di più al casello dell’indiavolata tangenziale Ovest di Milano.  I viaggi dei figli dei fiori non erano solo viaggi, ma vere e proprie fughe da una società decadente e oppressiva. Dal grigiore emergevano uomini che il destino avrebbe trasformato in personaggi leggendari. Nel 1967 Ernesto Guevara era stato ucciso dall’esercito boliviano appoggiato dagli agenti americani della Cia, mentre cercava di esportare in Bolivia la rivoluzione. Impossibile dimenticare il “Che” e la sua nera faccia barbuta stampata sulle rosse T-Shirts di quegli anni. Non c’era niente di più rivoluzionario!  Dal 1969 al 1971 il mondo della musica rock perdeva quattro dei suoi più amati figli. Brian Jones, Janis Joplin, Jimi Hendrix e Jim Morrison passarono a miglior vita per cause legate all’uso di stupefacenti. Avevano solo ventisette anni!  Le droghe rappresentavano un’altra via di fuga e venivano usate anche a scopi “esplorativi”.  L’informazione a quei tempi era scarsa e,  paradossalmente, sia l’eroina che LSD, una droga basata sull’acido lisergico molto pericolosa, avevano inizialmente un utilizzo farmacologico per patologie pneumologiche e neurologiche. Solo nel 1967 LSD fu bandita negli Stati Uniti quando più di due milioni di persone già ne facevano uso.  L’eroina venne lanciata in Italia tra il 1971 e il 1973. Le droghe in commercio sparirono come per magia lasciando spazio all’eroina venduta a prezzi bassissimi. In poco tempo i consumatori divennero dipendenti e il prezzo salì vertiginosamente. Le droghe non mi hanno mai attratto. Preferisco essere lucido e affrontare la vita di tutti i giorni, pur complicata e stressante, contando esclusivamente su me stesso e sul mio equilibrio interiore.  Quello che siamo è dentro di noi. Sempre e ovunque! Tuttavia, ci sono delle situazioni in cui i nostri sentimenti, le nostre emozioni vengono esaltate. La moto è un mezzo fantastico per esaltare le nostre emozioni, un potente amplificatore, che trasforma lo stato d’animo in uno stato di grazia. Senza il vecchio  Marshall valvolare non avremmo mai potuto ascoltare quel suono inconfondibile pastoso e distorto della Fender Stratocaster di Jimi Hendrix e l’inno americano eseguito a Woodstock  mi fa ancora venire i brividi. Anche la musica ha un enorme potere sulla nostra esistenza e non c’è vita più triste di una vita senza musica.  La vita è come un film e un bel film può diventare straordinario se è accoppiato ad una bella colonna sonora. Le immagini esaltano, ma è la musica che fa sognare. La spiaggia di Baga e Uncle Sam Blues dei Jefferson Airplaine farebbero sognare. Un blues lento, coinvolgente e senza tregua come le onde che vengono a frangersi sul litorale e la voce di Jorma Kaukonen maschia e intrigante come  la brezza leggera prima del violento monsone estivo. L’aria calda e umida di Goa avvolge e stordisce e il lento trascorrere del dolce far niente rappresenta il punto di partenza di questo viaggio. Riparto. Mi basta un po’ di aria fresca sul viso per risvegliarmi dal torpore e trovo meraviglioso non seguire il mio gps e “perdermi” tra le strette e intricate stradine che non portano da nessuna parte. Perdersi poi, è impossibile, perchè a sinistra c’è il mare e a destra la foresta. Dopo una sosta in un villaggio di pescatori, la mia Honda non ne vuole più sapere di ripartire.  Per fortuna, un giovane vespista, vedendomi in difficoltà, si ferma. Il mio guasto dipendeva solo dalla levetta dell’aria “tirata” che impedisce l’accensione quando il motore è caldo. Ne approfitto per chiedere informazioni. La mia cartina, una mappa da turista della domenica, comprata al mercato di Panaji, lascia molto a desiderare, ma, è grazie al mio nuovo amico, che mi butto lungo un itinerario poco battuto che dovrebbe condurmi verso Old Goa, la vecchia capitale portoghese immersa nella foresta. Non è facile seguire delle indicazioni che non esistono e neppure far capire ai gentilissimi locali che non è nel mio interesse seguire la bella, rettilinea e trafficatissima strada provinciale che conduce velocemente a destinazione. Il risultato? La gente mi guarda sconsolata perché non capisce per quale motivo voglio sprecare tre ore invece di trenta minuti. La strada costeggia il fiume. Supero bellissime ville coloniali color pastello immerse nella lussureggiante piantagione di palme da cocco, chiese candide, fatiscenti fortezze, piccoli villaggi, umili case, donne, bambini, magrissimi cani e mucche che si riparano dal sole accecante sotto le fronde di alberi secolari. La strada finisce davanti ad un rudimentale ferry boat. La piccola arrugginita imbarcazione aspetta senza fretta che la gente salga, poi finalmente parte raggiungendo la sponda opposta  in pochi minuti. Non ho la più pallida idea di quanti chilometri abbia percorso  da questa mattina o quanti ne manchino per raggiungere Old Goa. L’unica certezza è il contachilometri della moto bloccato a 56.674, e il serbatoio pieno che conferma che la moto non consuma niente. Un altro traghetto mi trasporta dall’isola di Chorao all’isola fertile e coltivata di Divar. Old Goa è in vista. L’ex capitale portoghese offre una decina di imponenti chiese e cattedrali. La più grande è la Se Cathedral in stile gotico e molto bella è anche la chiesa dedicata a San Francesco d’Assisi, eretta dai monaci nel 1517. Nel 1635 un’epidemia devastante colpì la città che iniziò un lento ma inesorabile declino. Nel 1843 la capitale fu trasferita a Panaji, che  gli indiani chiamano Panjim. Una bella strada asfaltata collega Old Goa a Panaji. Ci sono ancora un paio d’ore di luce e ne approfitto per visitare le strette e tortuose vie del vecchio quartiere portoghese. Per la cena invece, mi sposto ad Anjuna, famosa per i rave-party sulla spiaggia, la vita notturna e i numerosissimi ristoranti. In uno di questi faccio la conoscenza con il proprietario, un simpatico sessantenne milanese con una gran voglia di parlare italiano e sua figlia, una bambina adorabile di dieci anni.
Anche la barca a vela è un potente amplificatore di emozioni. L’aria ti arriva sul viso come in moto. Identica è la sensazione di libertà. Per il resto, se con la moto non perdi mai il contatto con la “madre” terra, il nostro pianeta, la certezza, con la vela puoi solo abbandonarti allo straordinario potere del mare. Il tuo “equilibrio” viene continuamente messo alla prova dal nuovo elemento liquido, instabile e vivo, poi, scatta la magia quando, issate le vele e spento il motore, avvolti dal silenzio, una mano invisibile ti spinge tra i flutti. In entrambi i casi, non conta arrivare, ma “navigare”.  Con questi presupposti, non potevo certo rifiutare la proposta di Viviana e Giorgio di “dare una mano” in barca per un paio di giorni fino alla spiaggia di Palolem, situata all’estremo Sud dello stato di Goa. Navighiamo a dieci miglia dalla costa su fondali sabbiosi che non superano mai i venti metri di profondità in coppia con Alondra, un’altra barca a vela slanciata ed elegante di una coppia olandese: il simpatico Renè e la sua dolce compagna Edith. I due stanno navigando da quasi quattro anni ed hanno una sola casa: la barca!  Di tanto in tanto incontriamo altre imbarcazioni: pescherecci, piccole lance scure ed aguzze e qualche nave da carico. Vista dal mare la spiaggia di Palolem è magnifica. Una deliziosa insenatura di sabbia bianca orlata di palme ci regala uno scenario vergine ed incontaminato che ben si sposerebbe con il sound ritmato delle percussioni e la velocissima chitarra di Carlos Santana di Soul Sacrifice,  ma una volta sbarcati l’incantesimo si rompe ed appaiono le modeste “capanne vacanza” ed i visi pallidi dei numerosi turisti. Immerso nella vegetazione c’è un centro ayurvedico dove rilassarsi tra massaggi olistici, bibite ghiacciate e profumo di incenso. Palolem merita una sosta e così che decidiamo di passarci la notte. Mentre ci godiamo il tramonto dalla spiaggia, alcuni piccoli kayak circondano le barche a vela ancorate nel golfo. Qualcuno è anche salito sul Tamata. La cosa fa infuriare Renè che con il “tender” raggiunge rapidamente le barche all’ormeggio. Ne nasce un parapiglia e volano  dure parole farcite da raffiche di “fuck”. La situazione precipita quando Giorgio e Renè, dopo avermi riportato sul Tamata, ritornano verso la spiaggia per riprendersi le rispettive compagne Viviana ed Edith. Alcuni scalmanati tentano di bloccare le ragazze. Le pagaie roteano pericolosamente sopra le teste. Qualcuno mostra anche i muscoli, ma fortunatamente i “nostri” riescono a riguadagnare “terreno” fino alle barche. Per non correre rischi inutili, salpiamo mentre il sole  tramonta. Una specie di limbo ci avvolge in un velo grigio e indaco, poi l’oscurità. L’impenetrabile  buio   non è così terribile solo per la certezza che domani il sole sorgerà ancora.  La notte si popola presto di fantasmi, alcuni si materializzano all’improvviso a prua sotto le sembianze di macchie biancastre e tiepide che arrivano addosso all’improvviso. Sono solo nuvole cariche di umidità. Le luci invece sono reali: rosse, blu, verdi, gialle e bianche. Alcune fioche sono appena visibili, altre più forti, altre ancora intermittenti e scintillanti. Tutta la flotta dei pescherecci della costa occidentale dell’India è al lavoro. Incrociamo anche qualche grossa nave, all’inizio solo un’ombra piatta e poco identificabile, poi alta superba e irriverente come un palazzo di venti piani, che ci fa sentire piccoli, soli e disperati come un assolo di violino. Escludendo la breve sosta di Palolem stiamo navigando da più di ventiquattro ore. Cerchiamo sulla carta una baia per riposarci. A cinque miglia c’è una profonda insenatura naturale.  La manovra per l’ancoraggio illuminati dalla luna è magica. Sprofondiamo in un meritato riposo cullati dalle onde e dalle rime sempreverdi dei Nomadi… “poi una notte di settembre mi svegliai, il vento sulla pelle, sul mio corpo il chiarore delle stelle, chissà dov’era casa mia e quel bambino che giocava in un cortile”.  Poche ore, poi, la curiosità di vedere un posto nuovo e sconosciuto ci spinge verso la splendida e deserta spiaggia per un bagno rilassante nella bollente brodaglia dell’Oceano Indiano. Riprendiamo il mare fino a Malpe, un porto gremito di pescherecci. La puzza di pesce è terribile, ma il luogo è così vivace e reale che vale una visita. Un intero mondo ruota intorno alla piazza del mercato. Camion carichi di ghiaccio riforniscono senza sosta i pescherecci che presto salperanno, mentre altri barconi stanno scaricando i loro carichi “profumati” che abili donne stanno già dividendo per qualità, misura e valore. Incontriamo Joe, che ci racconta della sua attività di allevatore di maiali e dell’India. “A pochi chilometri c’è un tempio fantastico imperdibile” ci confida. Lascio la barca ed i  miei amici velisti con rammarico. L’idea è di noleggiare un’altra moto, visitare parte dello stato di Karnataka e ricongiungermi con il gruppo  a Mangalore,  per poi ritornare in aereo a Goa o a Mumbay e rientrare in Italia. Il Krishna Temple, molto frequentato dai fedeli,  è un luogo di pellegrinaggio vishnuita dove è possibile comtemplare la divinità 24 ore su 24. In un angolo, un gruppo di donne dirette da un’anziana che suona un organetto a pedali stanno cantando con buona lena da ore. Canteranno per centodieci giorni consecutivi a turni di sei ore. Incredibile! Posso solo ascoltare estasiato nella calura del tempio accolto dai devoti con rispetto e molta curiosità. Un anziano si avvicina sorridendo e mi spalma sulla fronte un impasto profumato di essenza di sandalo. Dopo aver ringraziato per “la benedizione”  riprendo la strada verso l’interno, immerso nel mare tranquillo di palme da cocco. E’ questa l’India che più mi piace. Quella non contaminata dal turismo di massa, quella vera! Con la campagna coltivata, i piccoli villaggi decorosi, la gente con abiti colorati, gli animali al pascolo, le biciclette, i tuc tuc, gli stagni e i minuscoli negozi che vendono di tutto. Alla sosta per il pranzo una coppia di mendicanti mi fa la corte per avere qualche soldo o cibo avanzato. I due sono simpatici e da queste parti un piatto di riso oltre a non costare niente può momentaneamente rappresentare anche la felicità. Un mendicante spaventa perché fa pensare.  L’india è uno dei paesi emergenti in cui l’economia sta facendo miracoli, ma la cosa più incredibile della globalizzazione non è la ricchezza che crea quanto la povertà che si lascia alle spalle. La ricchezza creata con il lavoro di molti appartiene a pochi. L’India, per fortuna, non trasmette l’immagine della ricchezza dei suoi uomini facoltosi, ma quella della grande cultura del suo popolo. E’ come un gigante addormentato e rinchiuso in una prigione di cartapesta, gli basterà risvegliarsi… Dopo aver vagato per tutta la giornata senza una meta precisa decido di fermarmi per la notte in uno spartano, ma pulito alloggio, tra le colline lussureggianti a Chikmagalur. Nella stanza c’è solo un letto scricchiolante e una vecchia sedia traballante, il bagno in comune è sul pianerottolo e la finestra è senza vetri, ma sono pienamente soddisfatto di questa nuova giornata indiana. La strada che conduce a Mangalore è zeppa di veicoli, ma ho tutto il tempo per raggiungere la città, famosa per il caffè, gli anacardi e le tegole in terracotta entro sera. Joe ha invitato tutti a cena a casa sua e mi sembra un’ottima occasione per salutare i miei amici velisti prima di tornare in Italia. Per trovare il porto di Mangalore non serve il gps ma è sufficiente  seguire la puzza di pesce. Joe viene a prelevarci con uno scassatissimo pulmino vecchio di vent’anni, ma  basta guardare la sua faccia radiosa per capire che è un uomo felice ed esserne immediatamente contagiati. “Se hai un problema in India te lo risolvo io” dice allegramente. Io ho solo due problemi: Il primo, far rientrare la moto a Malpe, che dista settanta chilometri e il secondo, trovare un biglietto aereo per Mumbay.  Joe, telefona mentre guida abbracciato a suo figlio e in cinque minuti è tutto risolto. “Domani andiamo a ritirare il biglietto aereo in agenzia e un amico di famiglia porterà la moto a destinazione”. Andiamo prima a vedere l’allevamento dei maiali fuori città, che non profuma certo di gelsomino, poi a direttamente a casa sua, dove ci aspetta una ricchissima cena a base di pollo in salsa di coriandolo, paneer (formaggio non fermentato), crostini allo yogurt e, naturalmente, carne di suino arrostita, una vera delizia. L’accoglienza della moglie e della giovane figlia è molto cordiale. Tutti parlano un ottimo inglese e la serata trascorre  allegramente intorno al tavolo imbandito sotto lo sguardo benevolo dell’immagine di Padre Pio appesa al centro della parete. Questo paese mi attira ogni volta di più e comprendo chi, arrivato con l’ondata degli hippies, non se ne è più andato. I viaggi dei figli dei fiori verso l’India finirirono nel 1979 a seguito di due eventi tragici: la rivoluzione khomeinista in Iran e l’occupazione russa dell’Afghanistan. L’India non era più raggiungibile via terra. A trent’anni di distanza la situazione afghana non è cambiata, anzi oggi mi sembra ancora più complicata. A parte Fabio Migli e la sua mitica Panda 4×4, non conosco viaggiatori che abbiano raggiunto Kabul via terra e visitare questo straordinario paese e il suo popolo che meriterebbe di essere ricordato sempre rimane un sogno ancora irrealizzabile. L’India invece  è raggiungibile attraverso l’Iran e il Pakistan e spero di intraprendere il viaggio via terra molto presto. Naturalmente in moto. Perchè viaggiare in moto può essere il sogno di tutta una vita. Una vita emozionante come camminare su una corda tesa. Giorno dopo giorno andando avanti, ben coscienti di non poter tornare indietro, passo dopo passo, guardando al futuro sempre con molto ottimismo nella speranza  che il  domani porti una splendida giornata di sole e… che il vento non sia troppo forte.“Dedicato a tutti quelli che vorrebbero scappare, che… non possono, ma sognano, sognano e sognano”.