Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 227 – Febbraio 2105
In moto dall’Italia alle montagne del Caucaso.
Viaggiare è un po’ sognare ed io da grande sognatore quale sono ho sempre nella mente un bel giro del mondo in motocicletta. Un pensiero che non mi lascia mai. Neanche adesso mentre percorro i primi chilometri della Statale Varesina, casa mia ancora dietro l’angolo, il ronzio familiare del vecchio bicilindrico della mia Africa Twin nelle orecchie, l’idea fissa non mi molla.
Siamo diretti in Turchia. Un itinerario molto elastico, con un unica condizione, quella di evitare l’affollamento dei traghetti, visto che oggi è il 31 luglio. Primo obiettivo raggiungere Istanbul, ma senza fretta, due o tre giorni di viaggio con l’intenzione di visitare qualcosa di interessante lungo il tragitto attraverso la Yugoslavia, che oggi esiste solo nel mio cuore, la Bulgaria, un giro ad anello nel paese della mezza luna con una breve escursione in Georgia e Armenia, poi il ritorno a casa.
Un bel viaggio. Certo che paragonato al giro del mondo, potrebbe sembrare poca cosa, ma sono convinto che non esistono viaggi di serie A e di serie B.
Il viaggio, che non deve mai essere un impresa, ma una scoperta di cose mai viste prima, offre sempre una chance per una nuova avventura.
La moto è stata inventata per regalare al motociclista il punto di osservazione migliore che si potesse inventare. La posizione di guida è perfetta. Lo stress scompare in pochi secondi perché siamo al centro del viaggio con le braccia aperte in avanti come se abbracciassimo il mondo, anche se, questa volta è il Mondo seduto sul sellino posteriore della mia moto che abbraccia me. Silvia, la mia compagna, condividerà con me tutte le emozioni di questo viaggio.
Raggiungiamo Zagabria nel pomeriggio. Abbiamo tutto il tempo per visitare il centro storico che ruota intorno alla Cattedrale gotica simbolo della città.
L’ultima volta che ho percorso la strada che da Zagabria raggiunge il Sud dei Balcani risale a più di trent’anni fa. Allora era una statale infernale piena zeppa di camion e automobili con la targa ovale tedesca guidate dai turchi che rientravano in patria per le vacanze estive.
Oggi la vecchia via è stata sostituita da favolose autostrade a doppia corsia battute sempre dai soliti turchi che tornano a casa a bordo di lussuose auto tedesche. Corrono come dei pazzi per ritrovarsi tutti insieme appassionatamente in fila in dogana e il numero delle dogane dopo lo scioglimento della Yugoslavia sono triplicate. Ore ed ore sotto il sole cocente nelle auto trasformate in forni a microonde, con bambini ancora in fasce e anziani al seguito.
Oggi ne avrò incontrati a migliaia, solo in uscita dalla Croazia verso la Serbia e dalla Serbia verso la Bulgaria, c’erano decine di chilometri di fila, per fortuna appena mi inquadravano nello specchietto retrovisore con un cenno della mano mi mandavano avanti. Sudati, stanchi, ma mai un gesto di stizza. Sorridenti alle domande di rito dei doganieri: chi siete? Dove andate? Cosa portate?
Loro lì, impassibili, come se la vita, anche nei suoi risvolti più stressanti, fosse una magnifica imperdibile occasione.
La grandezza di una nazione è legata ai suoi abitanti ed i turchi sono che grande popolo.
Viaggiamo sotto un cupo cielo grigio dove di tanto in tanto convergono minacciose e dense nuvole nere che ci regalano temporali di grande intensità. Ritroviamo il sole ad un centinaio di chilometri dal confine serbo/bulgaro, che superiamo, dopo un’intera giornata di viaggio. La sosta per la notte è in un piccolo ma grazioso hotel incastonato tra il verde delle colline e il giallo abbagliante dei campi di girasole.
Entriamo a Sofia, evitando la più comoda circonvallazione, solo per vedere con i nostri occhi l’elegante capitale bulgara. Abbiamo solo il tempo per una frugale colazione in un bar del centro storico, un’annusatina veloce all’aria carica dei tanti pensieri della gente delle grandi città e uno stop imprevisto imposto da un poliziotto pignolo oltre che gentile, che in un primo momento ci contesta di viaggiare con le luci spente in pieno giorno, ma poi è ben felice di fare due chiacchiere con una coppia di italiani in motocicletta.
Plovdiv, che dista solo centotrenta chilometri da Sofia, è una città universitaria piena di storia. Conosciuta fin dai tempi dei romani prima come Philippopolis poi col nome Trimontium. Interessante l’arena del II secolo, il teatro ed il foro romano costruiti sotto l’imperatore Traiano, la moschea e lo splendido monastero di Backovo che sorge sui primi contrafforti dei monti Rodopi a mezz’ora di strada dalla città che raggiungiamo grazie alla gentilezza di una coppia di bulgari emigrati in Italia che non vede l’ora di farci da guida.
Le antiche mura di Costantinopoli, nonostante il recente sviluppo edilizio e la forte espansione demografica di Istanbul, riescono sempre a farmi venire i brividi. E’ solo un rapido sguardo, ci fermeremo ad Istanbul sulla via del ritorno, da una delle tante trafficate autostrade che percorriamo verso il porto di Yeni Kapi dove attraverseremo i Dardanelli verso Mudanya un po’ per risparmiare tempo prezioso ma anche per evitare il delirio dell’autostrada che collega Istanbul ad Ankara.
La notte ci inghiotte dalle parti di Bursa, che in un primo momento avevamo scelto come rifugio per la notte, ma poi viste le sue dimensioni impressionanti, superiamo anche se di poco, per un meritato riposo in un anonimo e chiassoso hotel dove si festeggia un matrimonio.
Raggiungiamo nel primo pomeriggio Uchisar in Cappadocia che stranamente è sgombra di turisti. Alloggiamo in una graziosa camera con una splendida vista. Ripartiamo con l’intenzione di visitare la valle di Goreme e di Zelve, ma un violentissimo temporale ci blocca costringendoci a cercare rifugio in una locanda nel centro storico, dove seguendo i preziosi consigli di Enrico, un italiano che vive e lavora con il turismo in Cappadocia da alcuni anni, gustiamo l’Imam disteso vale a dire una melanzana al forno farcita con pomodoro e acciughe veramente squisita.
Ci dirigiamo verso il Nemrut Dagi, una cima del massiccio del Tauro Orientale che, con i suoi duemilacentocinquanta metri è la seconda vetta della Mesopotamia settentrionale. Sulla sua sommità si erge la tomba santuario del re Antioco I, riportata alla luce nel corso di scavi effettuati nel 1953. Si compone di un tumulo di pietra frantumata, di centocinquanta metri di diametro per un’altezza di cinquanta. Tre terrazze formano il santuario; ci sono altari e statue gigantesche che creano uno scenario toccante al suo apice alla luce dell’alba e al tramonto. Data la sua ardua collocazione, la natura ha prevalso sull’uomo e con fulmini, terremoti e lo stesso trascorrere del tempo, le statue sono state decapitate e le teste sistemate intorno all’incredibile tumulo. Il luogo della sepoltura, nonostante diversi tentativi, è ancora da scoprire.
Mentre attendiamo il tramonto facciamo la conoscenza con una coppia di italiani: Fabio e Valeria. Mi colpisce molto la loro giovane età in netto contrasto con l’abbigliamento: giacca e pantaloni molto vissuti come del resto anche la splendida BMW GS 1150 con “soli” duecentomila chilometri percorsi.
Ci salutiamo dandoci appuntamento a Sanliurfa.
La “Gloriosa” Urfa oltre ad avere il miglior Kebab della Turchia, è un affascinante città situata nel Sud del paese, molto vicina al confine siriano. Ricca di storia, conserva una splendida moschea costruita all’inizio del Duecento, quando l’area era governata dagli Ayyubidi, la dinastia musulmana fondata da Saladino, ma è anche nota per essere ritenuta il luogo natio del profeta Abramo, considerato patriarca sia dal Cristianesimo, sia dall’Ebraismo, sia dall’Islam, che si pensa essere nato in una grotta, ora situata vicino alla stessa moschea. Tanto che all’interno dello stesso luogo di culto, si trova una vasca che ricorda la leggenda, secondo la quale il profeta dopo aver distrutto le divinità pagane stava per essere immolato dal re assiro Nimrod su una pira funeraria, quando Dio trasformò il fuoco in acqua e le braci in pesci. Da lì la vasca delle carpe sacre, nel cortile della moschea.
Nonostante il caldo torrido ci spingiamo ancora più a Sud per visitare le interessanti case alveare di Harran e la splendida Mardin appollaiata su un’altura di milletrecento metri che domina sull’arida pianura siriana. La mia Africa Twin, che aveva affrontato la ripida salita con nonchalanche, è costretta ad una sosta forzata per un problema di alimentazione. La pompa della benzina deve essere sostituita. L’operazione, della durata di due ore, viene effettuata in una “fresca” carpenteria metallica gentilmente concessa insieme ad un paio di bibite ghiacciate da un fabbro simpatico oltre che gentile, con l’aiuto di Fabio, mentre Valeria e Silvia sono un apporto fondamentale per riportare il morale precipitato in un abisso di tenebre verso la luce abbagliante di nuove avventure.
Ci attende un’altra giornata con temperature torride prima di raggiungere la frescura del lago di Van e lo spettacolare cratere con i due bacini di acqua color turchese e verde che sovrastano la cittadina di Tatvan.
Poco più a Nord, una breve escursione in barca per visitare la Akdamar Kilisesi ovvero la chiesa di Santa Croce, una meraviglia dell’architettura armena del X secolo appollaiata su un’isola del lago, prima di raggiungere la magica residenza di Isak Pasà che domina sulla spettacolare valle di Dogubeyazit e sul monte Ararat coperto di neve a due passi dal confine iraniano e armeno.
A venti chilometri da Dogubeyazit, a poche centinaia di metri dal confine iraniano, c’è da vedere anche il luogo dove molto probabilmente si posò l’Arca di Noè. Una ripida e stretta salita conduce al piccolo museo gestito da Hassan, un simpatico guardiano tuttofare di quasi ottant’anni e alla lunga impronta a forma di nave dell’Arca.
Prima del tramonto ci spingiamo verso le pendici dell’Ararat seguendo a caso una delle strade che conducono verso uno dei tanti minuscoli villaggi della zona. La lingua asfaltata ben presto finisce davanti ad un appuntito ed immacolato minareto. Da lì in poi c’è solo una pista che sale dolcemente per qualche chilometro tra pietre taglienti ed insidiosi banchi di sabbia che superiamo con facilità. Percorsi una decina di chilometri le pendenze incominciano ad essere importanti ed anche alcuni passaggi diventano impegnativi. Decidiamo di lasciare a terra le nostre amate compagne nei pressi di una vecchia carcassa arrugginita di quello che un tempo doveva essere una buona automobile e proseguire verso l’alto. Andiamo avanti ancora per un’altra decina di chilometri immersi in panorami mozzafiato finchè incontriamo un ripidissimo passaggio. Per non rischiare l’osso del collo decido di fermarmi, mentre Fabio sorretto un po’ dall’incoscienza dei suoi anni e da tanta voglia di avventura prosegue. Arriverà fino al primo villaggio, ormai in alta montagna, assaggiando un tè e la proverbiale ospitalità curda.
Chi si spinge fino a Kars, città agricola e un po’ desolata, non viene certo per visitare il Castello o la Chiesa degli Apostoli in rovina, ma per vedere l’antica cittadella di Ani.
Quelli che come noi provengono da Dogubeyazit hanno due possibilità. La prima: arrivare fino a Kars e prendere una specie di superstrada a doppia corsia levigata come un biliardo, lunga cinquanta chilometri che li condurrà fino ad Ani. La seconda: abbandonare la strada principale che conduce a Kars più o meno dalle parti di Digor ed avventurarsi tra un dedalo di viuzze sterrate fino ad Ani. Scegliamo la seconda, più difficile, ma molto più divertente. La pista per lunghi tratti fiancheggia il confine Armeno. Yerevan, la capitale armena, viene segnalata dal nostro Gps a poco più di sessanta chilometri in linea d’aria. Se penso che per arrivarci, visto che tutti i posti di frontiera tra la Turchia e l’Armenia sono chiusi dovremo percorrere più di mille chilometri mi arrabbio.
Il Genocidio Armeno del 1915 è senza dubbio uno dei principali pomi della discordia tra Turchia e Armenia, se non il principale, ma insieme alle vecchie questioni irrisolte ci sono anche quelle nuove.
In seguito all’indipendenza dell’Armenia nel 1991, malgrado i due Paesi sembrassero inizialmente in grado di instaurare buone relazioni, ci fu il conflitto nel Nagorno-Karabach tra Armenia ed Azerbaigian che provocò un deciso peggioramento dei rapporti tra Ankara e Yerevan. Mentre l’esercito armeno avanzava nel Nagorno-Karabach ed espelleva dalla regione i membri della minoranza azera, lo stesso destino toccò agli Armeni residenti in Azerbaigian, il Paese della Mezzaluna, oltre a rifornire di armamenti l’esercito azero, chiuse i propri confini con l’Armenia, istituì un embargo contro il Paese e minacciò persino un intervento militare contro Yerevan qualora non avesse abbandonato il Karabach.
Da allora abbiamo assistito ad una serie altalenante tra speranze di una riapertura e cocenti fallimenti di chiusura.
Ani val la pena di essere visitata. Sempre! Noi l’abbiamo raggiunta dopo aver attraversato le pianure coperte di grano fino ad arrivare in vista delle sue lunghe mura che circondano le stupefacenti rovine della città medioevale fantasma.
Dopo la sosta ad Ani, grazia alla curiosità di Silvia, capace di legare magnificamente con il mondo femminile locale, facciamo conoscenza con una famiglia curda. Un nucleo di solo donne e bambini, perché come spesso accade, gli uomini durante il giorno sono a governare gli animali al pascolo, che ci hanno aperto la loro casa offrendoci té, formaggio e pane appena sfornato.
Lasciamo Kars, che ci ha ospitato per una notte, per puntare verso la Georgia attraverso vedute infinite di pascoli color smeraldo. Saliamo di quota. Tra i duemilatrecento e i duemilacinquecento metri la foschia delle nuvole grigie e dense ci inghiotte. Non c’è neanche il tempo di sentire il freddo e l’aria frizzante che una lunga discesa ci conduce verso la Georgia e il caldo.
Salutiamo Fabio e Valeria, i nostri amici in moto che hanno condiviso con noi gli ultimi quattro giorni di viaggio, che punteranno direttamente verso l’Armenia, per raggiungiungere la capitale Tbilisi nel tardo pomeriggio.
La vecchia Tbilisi, il cuore della città, è ricca di eleganti negozi, locali alla moda, lussuosi alberghi e confortevoli ristoranti dove servono squisite pietanze, ma dopo averci passato la notte, la dobbiamo lasciare per raggiungere il Nord del paese. In Georgia le strade sono buone, finora abbiamo trovato solo qualche cantiere con lavori in corso che ha ritardato la nostra tabella di marcia, ma niente di più. L’unica preoccupazione viene dai georgiani, nelle soste ne abbiamo conosciuti molti, che sono molto simpatici e disponibili fintanto che sono fermi, mentre quando guidano sono dei pazzi pericolosi.
Lungo la strada facciamo una sosta per vedere il castello di Ananuri che si affaccia sulle verdi acque del lago e la bella e venerata chiesa all’interno delle sue mura.
Ripartiamo. Lungo la via incontriamo numerosi motociclisti russi, tutti o quasi in sella a potenti BMW diretti verso il caldo mare della Turchia.
La strada inizia a salire, il panorama cambia improvvisamente, i boschi rigogliosi e le dolci colline lasciano il posto ai pascoli di alta montagna color smeraldo. Raggiungiamo i duemilacinquecento metri di Kazbegi appena in tempo per evitare un violentissimo nubifragio. Ci ripariamo in un lussuoso albergo, l’unico tra le tante spartane Guest-House, una vera e propia oasi di relax.
Una meraviglia osservare pioggia, fulmini, grandine e alberi piegati dal vento dalla finestra di un ottimo albergo dopo un’intensa giornata in moto, una doccia bollente, avvolti dal tepore di un immacolato accappatoio offerto dall’organizzazione davanti alla cima innevata di un gigante che supera i cinquemila metri di altezza: il sogno di ogni motociclista ed anche il mio.
Lasciamo la frescura dei monti georgiani per il caldo dell’Armenia. Superiamo il confine subito dopo pranzo, davanti una coda “interminabile” di veicoli: due auto! La prima impressione è che l’Armenia sia nettamente più povera della Georgia. Attraversiamo piccoli villaggi, ci lasciamo alle spalle numerose fattorie con tetti in Eternit molto vissuti, vetusti trattori coetanei dei nostri celeberrimi Landini a testa calda del 1930, macchine agricole di ogni genere, carri, cavalli, balle di fieno enormi e tanta tantissima gente che lavora, sorride e saluta al nostro passaggio. Ad una sosta per una foto davanti ad un paesaggio mozzafiato, un’auto ci affianca e, un tizio mimando Tex Willer che prende la mira con il suo Winchester, ci consiglia, visto che siamo vicinissimi al confine con l’Azerbajan, di andare via al più presto. Un’esagerazione di sicuro, ma meglio proseguire fino al monastero di Goshavank eretto all’interno del villaggio di Gosh. Mkhitar Gosh, statista, scienziato, scrittore, autore di numerose favole e parabole e fondatore del codice armeno che ha preso parte alla costruzione del monastero, è qui sepolto in una piccola cappella affacciata sul complesso principale.
Ci accoglie un simpatico prete che intrattiene alcuni fedeli con canti religiosi e preghiere che ci omaggia di una benedizione personalizzata.
Poco prima del tramonto arriviamo a Dilijan, una fresca cittadina immersa nel verde. L’albergo è semplice, pulito e la cena, a base di carne arrostita cucinata e consumata direttamente sulla strada in compagnia del macellaio che tartassa di domande di ogni genere Silvia, è gustosa.
Il lago Sevan non è molto distante e dall’omonimo monastero in cima alla montagna si gode un’ottima vista, peccato che sia molto affollato dai visitatori. Molto bello ed affascinante anche il monastero di Gheghard. Arroccato su montagne selvagge, questa costruzione monastica del IV secolo d.C. colpisce per la sua austera solennità. Secondo un’antica leggenda, la lancia che ferì il costato di Cristo venne custodita qui. L´edificio principale ha una parete scavata nella roccia ed è collegata ad altre due chiese anch´esse scavate scolpite nella montagna. Una delle due ha un serbatoio che raccoglie le acque provenienti dal sottosuolo, ritenute miracolose.
Prima di fermarci nella capitale armena Yeravan, facciamo una sosta al tempio di Garni. Il tempio fu edificato nel I secolo d.C. dal re Tiridate I di Armenia e la costruzione fu finanziata grazie al denaro che il re armeno ricevette dall’imperatore Nerone durante la sua visita a Roma. Il tempio era dedicato al dio Mitra. La copertura dell´edificio è sorretta da ventiquattro colonne di ordine ionico. Questo tempio è una meraviglia, la sua unicità risiede nel fatto che è l’unico esempio dell’ Architettura Ellenistica nel territorio dell’Armenia e del Caucaso.
Yerevan si estende su cinque colline. E’ una città piena di vita. La sera la gente si ritrova su una lunga scalinata che domina sulle luci delle grandi piazze, larghi viali, giardini e le sue costruzioni di tufo rosato da cui prende il nome. Abbiamo visitato il Matenadaran il museo deposito degli antichi manoscritti inaugurato nel 1959, dove vengono conservati e studiati più di sedicimila manoscritti che parlano della storia del popolo armeno, la sua arte e letteratura. Visitiamo anche il Museo del genocidio degli Armeni, inaugurato nel 1995, ottant’anni dopo i crimini realizzati dai turchi ottomani che costarono la vita ad un milione e mezzo di persone.
Ci attendono duecentosettanta chilometri di montagne perché abbiamo intenzione di visitare il monastero di Tatev situato nel profondo Sud del paese, a due passi dall’Iran. La strada è sempre spettacolare, per i primi chilometri fiancheggia la cima innevata dell’Ararat, poi sale verso aride vette bruciate dal sole, poi attraversa verdi vallate, ruscelli cristallini fino al bivio verso il piccolo aeroporto che collega il monastero con una moderna funivia. Noi proseguiamo in moto, superando anche i pochi ma ripidi tornanti sterrati che conducono in cima alla montagna dove ai margini della gola del Vorotan, sopra l´omonimo paese e in posizione strategica è arroccato il monastero che risale al IX secolo. Una leggenda dice che l’architetto, dopo aver costruito Tatev, prese due pezzi di pietra e pregò Dio di avere le ali. Il suo desiderio fu concesso e lui volò via. La parola “Tatev” in armeno significa dare le ali.
Rientriamo a Yerevan in serata percorrendo la stessa strada con le stesse emozioni provate in mattinata.
Visitiamo Echmiadzin, il vaticano armeno. E’ un luogo sacro per gli armeni: si pensa che qui, nel 300, avvenisse la conversione al cristianesimo del re Tiridates III. Egli ordinò che una vergine cristiana fosse lapidata e in seguito fu colto dalla pazzia. Un prigioniero cristiano di nome Gregorio, in seguito promosso con il titolo di Gregorio l’Illuminatore, salvò e convertì il sovrano, che venne presto seguito da tutto il paese. Echmiadzin ospita oggi la più importante cattedrale ortodossa fondata da Gregorio sul sito in cui precedentemente sorgeva un tempio pagano. La città è inoltre la dimora spirituale del capo della chiesa armena ortodossa, il Supremo Catholicos. Entriamo nella cattedrale mentre ci sono i preparativi per la messa cantata. Ci sono almeno trenta religiosi nel coro e una ventina per la funzione religiosa. Un evento da pelle d’oca.
Ripartiamo verso Nord e ben presto ci lasciamo alle spalle l’Armenia con i suoi pascoli e le sue fattorie. Alla sosta per il pranzo rimaniamo esterrefatti dalla crudeltà del ristoratore quando scopriamo nel suo giardino un grande orso bruno prigioniero in una minuscola e sudicia gabbia di ferro.
Ci restano ancora un centinaio di chilometri tutti in discesa, circondati dalle montagne e una gola bellissima che sembra non finire mai, curva dopo curva, fino ad una cittadina dal nome impronunciabile con un sacco di h e k che si scrive Akhaltsikhe, dominata dall’alto da un bellissimo castello medioevale e uno spartano quanto rumoroso albergo con una camera, la nostra, affacciata per due lati sulla piazza principale, che ci ospiterà per una sola interminabile insonne notte.
Batumi, una località balneare georgiana sul Mar Nero, che dista solo centosessanta chilometri potrebbe essere raggiunta in sole due ore, massimo tre, ma percorsi cinquanta chilometri la buona strada asfaltata si trasforma in una pista accidentata molto impegnativa.
Percorsi un paio di chilometri di sterrato incontriamo quattro vetture pilotate da giovani tedeschi iscritti al famoso Mongol Rally, una manifestazione non competitiva benefica che ha come meta il raggiungimento della capitale mongola Ulaan Baatar, entro il 15 settembre. “La pista è molto dura” afferma uno di loro. “È finita” aggiungo io facendoli esultare di gioia.
La pista si arrampica fino a duemilacinquecento metri di altitudine. Si va avanti piano, con la moto molto carica, tra vere e proprie voragini sul terreno da evitare e qualche burrone. Una fortuna che ci consente di osservare con attenzione ciò che ci circonda.
Un paesaggio di montagna con foreste intricate che profumano di muschio all’inizio, poi boschi di abeti sempre più radi man mano che ci si avvicina alla cima del monte e pascoli verdissimi sconfinati punteggiati dai tetti spioventi di lamiera che luccica al sole delle piccole case di legno con minuscole finestre da cui sbucano le esili manine dei bambini che salutano il nostro passaggio e mucche, tantissime mucche ovunque. Un luogo di grande bellezza dove l’aria frizzante e pura ha il leggero sapore della legna che arde nei camini.
Superato il passo ed iniziata la discesa il paesaggio non cambia, di tanto in tanto incontriamo venditori di miele che da queste parti deve essere ottimo. Lo sterrato come era cominciato finisce. Abbiamo percorso cinquanta chilometri in quasi tre ore. Ci fermiamo per la colazione in una locanda piena di camionisti che fumano una sigaretta dopo l’altra e sorseggiano grosse caraffe di birra. Siamo gli unici che consumano té con biscotti.
Raggiungiamo Batumi e superiamo la dogana georgiana/turca in poco tempo. Trabzon è a soli duecento chilometri.
Il tempo è pessimo. Le nuvole grigie e dense ci accompagnano da così tante ore che abbiamo la netta sensazione che arriveremo a destinazione con i piedi asciutti, ma all’improvviso, prima con una pioggia fastidiosa e leggera, poi con un acquazzone violento farcito da una serie impressionante di fulmini, il nostro destino di pulcini bagnati si compie. Mi piace la pioggia abbondante, mi piace anche quando la tuta antipioggia incomincia ad imbarcare acqua come un relitto prima di affondare, ma non sopporto le saette che, per nostra fortuna, finiscono tutte nel Mar Nero che si infrange agitato sulla spiaggia a pochi metri dalla strada. Raggiungiamo Trabzon fradici fino al midollo. Neanche una tuta da palombaro avrebbe resistito ad una tempesta come questa.
Trabzon oltre alla pioggia, non ha molto da offrire, ma Aya Sofya la chiesa della saggezza divina che domina la città è imperdibile. La chiesa che risale al XII secolo, costruita su un sito pagano è stata trasformata nella parte centrale in moschea.
Questo è il classico esempio di come si possa rovinare un luogo di rara bellezza. Voglio sperare che il pessimo lavoro per trasformare una chiesa straordinaria in una mediocre moschea non sia un problema religioso, ma solo opera di incompetenti, creare un soffitto con tessuti anonimi che impediscono di vedere gli affreschi meravigliosi sulla cupola della chiesa è un grave delitto contro l’umanità.
Trabzon ha un clima tremendo. Caldo, umido e ancora pioggia.
Abbiamo un appuntamento con una coppia di cari amici. Bibo e Sabrina, entrambi motorizzati, Ktm per lui, Suzuki per lei, stanno visitando la Turchia girando in senso contrario rispetto al nostro itinerario. Insieme andremo a visitare il Monastero di Sumela a meno di quaranta chilometri da Trabzon.
Il Monastero che è molto bello, si raggiunge, dopo il tragitto in moto, con una scarpinata di pochi minuti. L’unico problema è il numero dei visitatori che è molto elevato.
Rientrando verso Trabzon incontriamo anche Fabio e Valeria, i nostri amici in sella alla Bmw Gs 1150, che avevano condiviso alcuni giorni del nostro viaggio, poi ripartiamo e finalmente ci lasciamo alle spalle Trabzon puntando verso Istanbul che cercheremo di raggiungere in due o tre giorni.
La prima tappa ci conduce a Ordu, una graziosa località bagnata dalle acque del Mar Nero che ci ospita in un piccolo albergo con camera e terrazzo vista mare.
Poi affrontiamo una delle classiche tappe di trasferimento, vale a dire uno di quei giorni in cui salti in sella e macini tanti chilometri. Il brutto tempo ci accompagna finché costeggiamo il Mar Nero, infatti, appena ci lasciamo alle spalle Samsun, ritorna il sole. Dopo una sosta per la notte a Gerede, una cittadina tranquilla, raggiungiamo Istanbul e i suoi venti milioni di abitanti.
Saremo ospiti di Giovanni, un caro amico, che si è trasferito da Bassano del Grappa in questa metropoli più di dieci anni fa per insegnare l’italiano. Ho incontrato per la prima volta Giovanni in Marocco nel 1996. Un amicizia nata sulla strada come spesso accade a chi corre dietro alla comune passione di viaggiare in moto. Passeremo quattro giorni nella sua casa, vicino alla torre di Galata, nelle strette viuzze impregnate di odori e suoni nel cuore pulsante di questa grande città.
Ciò che rende imperdibile questa città è la storia millenaria che rappresenta, una città che si è nutrita dei secoli che l’hanno attraversata, delle civiltà che l’hanno condivisa come greci, romani, bizantini, latini, ottomani, tutto il mondo è passato da quelle parti.
Quattro giorni volati, Silvia ed io l’avevamo già visitata, già amata. Insieme abbiamo visto i luoghi più famosi di questa città, vale a dire la Moschea Blu, La Moschea di Solimano, Santa Sofia, La Basilica Cisterna, il Gran Bazar e quelli meno frequentati dal turismo di massa ma splendidi gioielli come la Piccola Santa Sofia, la Moschea Rustem Pascià, la Moschea Sokollu Mehmet Pascià. Per non farci mancare niente abbiamo fatto anche il classico giro in barca sul Bosforo, visto i Dervisci Rotanti danzare in omaggio ad Allah sempre Grande e Misericordioso.
Una grande città come questa, anche se magnifica, può essere spaventosa agli occhi di uomo nato in un piccolo e sperduto paese come il mio.
Cammini tra la gente, un fiume sempre in piena, osservandone portamento, fisicità, sguardi, quasi cercando nei loro pensieri. Pensieri che vorresti comprendere, un brusio confuso, inghiottito dal rumore della città. Ascolti guardando la faccia della gente, leggi nei loro occhi, ottimismo, serenità, cinismo, rabbia, preoccupazioni profonde, non sai mai se sono solo le emozioni di un momento oppure il peso di tutta una vita. La vita degli altri ti passa accanto, la maggior parte delle volte neanche ti sfiora, ogni individuo segue il proprio destino chiuso in un mondo invisibile che sfiora altri mondi altrettanto invisibili come se gli esseri viventi di questo pianeta fossero precipitati in un profondo isolamento. Eppure basta poco per cambiare. Me ne rendo conto appena mi siedo su una panchina, protetto dall’ombra di un grande albero, davanti all’ingresso di Santa Sofia, una cosa che faccio spesso quando sono stanco di girare per il mondo e voglio che sia il mondo a ruotare intorno a me. Al mio fianco c’è un uomo. Un viso giovane e allegro avvolto da una folta barba nera. Indossa una t-shirt e un paio di jeans che probabilmente non toglie da parecchio tempo, ma non è un barbone. La panchina è il suo ufficio. Lui aiuta le guide incaricate di acquistare i biglietti per i gruppi numerosi delle agenzie turistiche. Un servizio per evitare ai visitatori le lunghe code che si formano all’ingresso di Santa Sofia. Appena li vede arrivare, hanno tutti un accompagnatore con un numero, lui chiama, anche se non ha il dono della parola, dalla sua bocca esce a fatica solo un suono, come se un grande violinista dal suo Stradivari non riuscisse a suonare che una nota. Mi colpisce la sua serenità, mi commuove la sua venerazione per un cagnolino che tiene in braccio, un batuffolo di pelo che avrà sì e no tre o quattro settimane di vita, che si strofina contro la barba, lo lecca, lo bacia. Due esseri viventi che vivono in armonia uno dell’altro uniti dalla più grande forza di questo mondo: l’amore, il resto non conta.
Solo quando lasci una grande città come Istanbul ti rendi conto di quanta energia ti ha portato via. Per fortuna la moto è stata creata per ritemprare il tuo fisico provato. Silvia è rientrata in Italia in aereo perché aveva impegni di lavoro, mentre io in due o tre giorni dovrei arrivare a casa, ma senza fretta, perché il viaggio non finisce nemmeno quando entri con la tua moto nel garage sottocasa, figuriamoci quando mancano ancora duemila chilometri.
Duemila chilometri volati in un attimo. Una sosta, la prima, in Bulgaria, la seconda a Palmanova, bloccato dalla notte che mi aveva inghiottito e dalla paura che la trasmissione ormai alla frutta della mia Africa Twin classe di ferro 1993 mi abbandonasse, poi, per finire in bellezza, un breve sosta a Padova per condividere una squisito baccalà per pranzo con Paolo, un’altro caro amico, un Grande Motociclista conosciuto in giro per il mondo. Un rapido scambio di opinioni sulle due ruote, sui viaggi futuri, insieme, chissà, poi a casa accompagnato solo dai miei pensieri e dalle emozioni di questo viaggio che rimarranno dentro di me in eterno. Silvia mi aspetta. Condividere questo viaggio con una Creatura Meravigliosa come lei è stato per me un grande privilegio e una conferma che viaggiare abbracciati su un Cavallo di Ferro per un lunghissimo mese è una Grande Magia.