Dal mio libro: Le Moto Raccontano
Dall’Italia alla Mongolia, luglio-agosto 2010
“Per fare un viaggio come questo ci vuole una buona preparazione fisica, una moto efficiente, un pizzico di follia e tanta tantissima fortuna”.
Su queste basi Tawil, il Mio Compagno, aveva costruito il nuovo viaggio, la grande avventura che stava per incominciare. Salto a piè pari la forma fisica del Motociclista che, visto l’itinerario molto lungo ed impegnativo deve essere perfetta per presentarvi “la moto efficiente” vale a dire una bianca nuova BMW F 800 GS. Ho un motore bicilindrico in linea che eroga ottantacinque cavalli raffreddato a liquido, quattro valvole per cilindro e sono adatta ad ogni situazione, stabile, maneggevole, trasmissione a catena, forcellone doppio braccio in alluminio, telaio a traliccio in acciaio, ammortizzatore a smorzamento progressivo e consumo pochissimo. Per farla breve dovrei essere la moto ideale per Tawil e per questo viaggio. L’unico neo sta nel fatto che, io ed il Mio Compagno ci siamo incontrati solo ventiquattro ore prima della partenza e capisco l’imbarazzo di Tawil che mi sta girando attorno da un paio d’ore molto pensieroso. Se potessi parlare gli direi di stare tranquillo. Sono una moto eccezionale. Perfetta in ogni particolare. Come hai detto giustamente tu, solo la sfortuna ci potrà fermare. Nient’altro!
Sono stracarica di bagagli. E’ il prezzo da pagare se si vuole viaggiare in autonomia. Tawil ha deciso di montare le capienti e robuste borse in alluminio per mettere al sicuro i ricambi, tutto ciò che necessita per la mia manutenzione e i viveri. In una borsa prendono posto le leve freno, frizione e cambio, le camere d’aria, l’olio motore, il filtro aria, le pastiglie freni, il grasso catena, le chiavi torx e due taniche da cinque litri per la benzina. Nell’altra invece, le scorte di viveri a base di cibi liofilizzati, le scatolette di tonno, sgombri e sardine, gli integratori, la frutta secca, le barrette energetiche e un piccolo fornello a gas da campeggio con due bombolette di propellente. La tenda, il sacco a pelo e il materassino prendono posto in due sacche stagne fissate sopra le borse d’alluminio, mentre una terza sacca, ancorata sopra le altre, contiene tutto ciò che serve per preservare il Mio Compagno dagli eventi atmosferici come la pioggia e il freddo. L’abbigliamento personale invece è in una borsa capiente legata in parte sul portapacchi posteriore e in parte sulla sella del passeggero. Per completare il carico ci sono anche due gomme tassellate di scorta legate sopra il borsone, mentre l’attrezzatura fotografica prende posto nella borsa serbatoio. Il colpo d’occhio di tutto l’insieme è impressionante e lascia perplessi, ma devo dire che Tawil dopo aver fatto un giro di prova e constatato maneggevolezza, stabilità e sicurezza è molto soddisfatto.
Partiamo in un assolato e torrido pomeriggio di una domenica di luglio, carichi di bagagli, speranze e “sudati” come un cammello di Timbuctu. La tensione del Mio Compagno è alta e quasi paralizza ogni suo movimento, poi acceso il motore, tirata la frizione e inserita la prima marcia tutto cambia, tutto si trasforma. E’ la magia dell’andare in motocicletta. Indescrivibile ed incomprensibile per i non addetti ai lavori. Un cocktail tra una potente medicina capace di guarire ogni sorta di malattia, un’orgia di sensazioni forti molto vicine all’orgasmo e un gran senso di pace. Andiamo! Direzione? Est! Obiettivo? Il cuore dell’Asia e la Mongolia. Il percorso? Nella testa di Tawil nei minimi particolari da mesi, nella mia da due giorni. Una gran confusione, ma adesso è inutile pensarci, perché ci vogliamo godere ogni metro di questo viaggio. Imbocchiamo la tangenziale di Milano. Sono rapida come una freccia scoccata dal possente arco di Genghis Khan. “Una freccia velocissima lanciata verso il sole nascente”… anzi due. La seconda colpisce ingloriosamente la mia gomma anteriore mentre superiamo il casello di Milano Est. Sbandiamo paurosamente. Abbiamo solo il tempo di farci da parte. Ci fermiamo sulla corsia d’emergenza. Una foratura non ha mai fermato nessuno. Abbiamo tutto il necessario per sostituire la camera d’aria, anche se Tawil dovrà sudare le fatidiche sette camicie con una moto carica e sprovvista di cavalletto centrale. Dovrà scaricare tutto, “coricare” me, vale a dire la moto su un fianco oppure trovare un ceppo di legno o un grosso macigno che mi sosterrà mentre smonta la ruota anteriore. Di macigni e ceppi in tangenziale non se ne vedono, quindi non gli rimane che “stendermi” sulle gomme di scorta. Sono a terra, ma la ruota anteriore è bloccata. Il Mio Compagno ha forato decine di volte. In Africa, Asia e Sud America, ma in tangenziale mai. In qualsiasi parte del mondo gli basterebbe un cenno con la mano ad un camion, furgone, auto o moto per ricevere aiuto, ma a Milano? E’ domenica. L’autostrada è zeppa di veicoli che rientrano dal fine settimana. Non saprebbe se fermare una luccicante Porsche Cayenne con il suo carico di benessere, facce abbronzate e telefonini tecnologici, un’allegra famiglia su una monovolume giapponese piena zeppa di bambini, cani, gatti e tavole da surf oppure una moto pilotata da un marziano in tuta di pelle “ingarellato” alla Valentino Rossi in uno sciame di missili. Passano in tanti. Nessuno s’accorge dell’uomo invisibile. Il problema è solo suo. Prova vergogna nel chiedere aiuto sulla tangenziale di Milano. La sua gestualità “pro caritas” è timida e inconcludente. Si sente terribilmente fuori luogo. Allora che farà? Ha solo due possibilità: chiamare il carro attrezzi oppure impiccarsi al viadotto con le quattro camere d’aria nuove che ha portato di scorta. Karma negativo oppure semplice sfortuna? Niente accade per caso. Bene! Ci sarà un motivo se abbiamo forato. Intanto sarebbe opportuno usare il cervello. Penso mi legga nei pensieri perché sta telefonando a suo cugino. “Ciao Elio come va? I figli stanno bene? La moglie anche? Bene! Non hai niente da fare in questa afosa domenica di luglio? Ti andrebbe di darmi una mano? Sono partito da due ore, in moto, per andare in Mongolia e… ho forato in tangenziale. Sono fermo al casello di Milano Est. Parti subito con tuo cognato Domenico? Grazie mille. Vi aspetto.” In tre cambiare una camera d’aria è un gioco da ragazzi. Ripartiamo, leggo nella mente di Tawil molta apprensione. Se dovesse forare un’altra volta, avrebbe solo tre camere d’aria… per impiccarsi ad un viadotto. Battute a parte, sono fermamente convinta che nessuno ci potrà fermare. Nessuno potrà arrestare la “Tua Freccia dell’Est” Alla vecchia frontiera tra l’Italia e la Slovenia il karma del viaggio cambia quando incontriamo un motociclista che in sella ad una vetusta ma affascinante mia antenata BMW R 100GS Paris/Dakar bianca e rossa segue il nostro stesso percorso. Pensare che un gran paese come la Yugoslavia non esista più getta nello sconforto il Mio Compagno. Ha passato gli anni più belli della sua gioventù motociclistica in questo paese trovando sempre gente simpatica, belle ragazze, cibi gustosi e spiagge incontaminate. Non potrà mai dimenticare le vecchie ruvide strade con l’asfalto raffazzonato che lo accompagnavano fino al mare e che lasciavano il posto alla “marmorea” statale adriatica tanto liscia e tanto insidiosa con la pioggia. Per ritrovare le vecchie vie bisogna abbandonare le moderne e levigate autostrade che collegano ormai tutto l’Est europeo. Tawil ha molta nostalgia anche degli enormi spiedi di carne sfrigolante delle “Gostionice” ai quali non poteva resistere. Ora la Slovenia è l’immagine dell’ordine e della pulizia. Bella certamente, ma niente a che vedere con il fascino un po’ decadente della vecchia e dissolta Yugoslavia. Incredibile anche arrivare al confine ungherese e non trovare la dogana. Niente filo spinato, torrette di guardia, mitragliatrici, militari severi, sbarre né il visto obbligatorio sul passaporto. Superiamo di slancio la meravigliosa capitale magiara Budapest, per avvicinarci il più possibile al confine Ucraino. Eger una città del Nord dell’Ungheria, capoluogo della provincia di Heves, tranquilla ed immersa nel verde è il posto ideale per trascorrere la notte. Eger è conosciuta principalmente per il suo castello, ricordo della lotta contro i turchi e per i bagni termali. Il confine ucraino, poco distante, è superato senza problemi. Questo enorme paese, indipendente dal 1991, è molto interessante. Sulle origini del proprio nome ci sono varie controversie. In ucraino “Krajina” significa semplicemente paese, terra, tradotto in russo invece equivale a “terra di confine”. Sulla mappa questo paese sembra non finire mai. Le strade, parecchie a doppia corsia, sono ottime, mentre i limiti di velocità di quaranta chilometri orari nei centri abitati e settanta sulle strade extraurbane, molto bassi. La polizia è molto presente e ha una fama sinistra. Ce n’accorgiamo subito. Ad un incrocio una coppia di giovani gendarmi ci ferma. Ritirati i documenti ci “invitano” a seguirli in uno stanzino. “Alcuni colleghi ci hanno segnalato che avete attraversato un centro abitato a settanta chilometri all’ora” dice uno. “Dove?” rispondo Tawil. “A dieci chilometri da qui”. Foto o riprese video che confermino la nostra infrazione non ce ne sono. Oltretutto il “Protokol” in altre parole il verbale, si paga solo in una banca con un’enorme perdita di tempo. Comprendiamo immediatamente che i due giovanotti non hanno intenzione di verbalizzare, ma di “rapinarci” denaro in contanti. Inizia una lunga trattativa sull’ammontare dell’operazione, che finisce con una bella salassata di trenta dollari a testa. Un simile comportamento non ha giustificazioni. La polizia taglieggiando gli stranieri offende soprattutto il popolo ucraino che si vede rappresentato da veri e propri banditi. Gli agguati continuano su tutto il territorio e le multe sono evitate solo grazie alla nostra lenta andatura e alle continue segnalazioni luminose dei veicoli che incrociamo. L’Ucraina è un paese verde e rigoglioso. In questa stagione e con questo caldo mi sarei aspettato un paese arido. Nel tardo pomeriggio comprendo il motivo di tanta grazia. Improvvisamente ci si para davanti un nero e tetro temporale. Non c’è scampo. Ai centauri rimane solo il tempo per infilare la tuta contro la pioggia. Non disdegno i temporali estivi tanto violenti quanto brevi. L’acqua, anche se abbondante, porta il tanto sospirato refrigerio, poi in poco più di un’ora è tutto finito e c’è ancora il tempo per viaggiare ed asciugarsi sotto i raggi del sole. Leopoli, incastonata tra il confine polacco e i Carpazi, è il luogo ideale per passare la notte. Dopo una rapida visita all’interessantissimo ma caotico centro storico ci dirigiamo verso un tranquillo e isolato motel di periferia. Ci arriviamo per caso seguendo un cartello pubblicitario. L’albergo è gestito da due ragazzine molto avvenenti. La più giovane indossa la minigonna più corta che Tawil abbia mai visto dal millenovecentosessantanove ad oggi. La prima impressione è quella di stare in un albergo ad ore, ma non è così, le ragazze sono le figlie del proprietario che sfoggiano la cosa più bella che hanno: il loro fisico mozzafiato!
Lungo la strada chiedere informazioni è difficile. Pochi parlano l’inglese, ma fanno di tutto per soddisfare le nostre esigenze. Nei loro occhi c’è la curiosità di sapere per quale motivo stai attraversando il loro paese. Impieghiamo tre giorni per superare questa “terra di confine”. Lo stillicidio con la polizia continua, anche se i tutori dell’ordine non sono tutti uguali. All’uscita da un piccolo villaggio, superiamo abbondantemente i cento chilometri orari. Mimetizzati sotto gli alberi una coppia di gendarmi non perde tempo e ci ferma. Questa volta non ci sono scuse la pistola laser indica chiaramente 108 km/h. “Va bene tavarisch (compagno)” dice Tawil “sono italiano”. Il poliziotto sembra più interessato alla sottoscritta che alla giusta ammenda. Constatata l’impossibilità di comunicare indica ripetutamente il limite di velocità di 70 km/h sul cartello stradale a due passi da noi. Ormai rassegato ad estrarre il portafogli Tawil rimane davvero stupito quando il tutore della legge sorridendo ci lascia andare. “Bene, posso offrire una birra compagno?” esclama Tawil. Il faccione del simpatico poliziotto dice di no, ma la sua espressione è sicuramente un sì. Cinque dollari spesi bene.
Antracity, una modesta città mineraria di confine, è la sosta obbligata prima di entrare in Russia. Troviamo ospitalità in un moderno motel senza grosse pretese, ma pulito ed accogliente. Ad un viaggio come questo, puoi solo adeguarti. E’ lui che impone i suoi ritmi. Ci sono giorni in cui devi percorrere quattrocento chilometri ed altri mille, ma non è questa la cosa più importante. L’unica certezza è che devi viaggiare dall’alba al tramonto. Cambiano solo il ritmo e la durata delle soste. Spesso non ti rendi neanche conto se sei tu che vai avanti oppure è la strada che ti viene incontro. E’ l’estasi dell’unione tra “cavallo” e cavaliere. Due entità che hanno sempre dialogato tra loro. La storia di Don Chisciotte, Alessandro Magno, Napoleone, El Cid, Zorro e Tex Willer non sarebbe completa senza Ronzinante, Bucefalo, Marengo, Babieca, Tornado e Dinamite. Forse sono i motociclisti i cavalieri moderni. Una cosa è certa: noi motociclette abbiamo una capacità eccezionale di far uscire fuori da ciascuno di voi un potenziale spesso sconosciuto anche a voi stessi e il viaggio esalta sia cavallo che cavaliere. Viaggiare è un continuo cambiamento, sia fuori che dentro. Interessante è il cambiamento interiore del Mio Compagno. Una serie di setacci dalle maglie sempre più strette sottrae giorno dopo giorno qualcosa dalla sua mente. Le prime cose che spariscono sono quelle superflue, le meno importanti. Il mondo della politica arrembante e senza scrupoli che ogni giorno avvelena la sua vita è il primo ad essere inghiottito. Anche la televisione spazzatura dei reality show è rimossa e dimenticata. Il lavoro invece resiste due o tre giorni, poi si dissolve anche lui come neve al sole. Dopo quattro giorni il Mio Compagno rimane solo con i suoi pensieri, il viaggio ed io, la moto. Rimangono gli affetti più cari. E’ il momento in cui Tawil crede fermamente che l’amore sia la vera forza che muove il pianeta. L’affetto nei confronti della persona amata è forte e non lo lascia mai solo. Può annusare il suo profumo nel deserto più arido, sentire il calore del suo corpo tra le alte vette ghiacciate, ascoltare il suo cuore nel silenzio della steppa e mai potrà dimenticare il suo sguardo, il suo sorriso e le sue carezze.
I posti di frontiera si assomigliano tutti. Nei suoi viaggi il Mio Compagno ne avrà superati un centinaio. Il primo gendarme chiede il passaporto; il secondo i documenti della moto e il terzo controlla i bagagli. Succede sempre così, sia in entrata che in uscita. Lasciamo l’Ucraina nel totale relax. I doganieri salutano il nostro passaggio con larghi sorrisi, ma l’ultima “sola” degli uomini in divisa è in agguato. Superati i tre controllori ucraini ci avviamo verso un quarto controllo. “Ecco il primo militare russo” dice Tawil. L’uomo controlla i passaporti poi, gentilmente chiede la “Carta Verde Russa”. Alla risposta negativa di Tawil con un bel sorrisone ci indirizza in un ufficio a pochi passi. Una donna bassa, tarchiata e simpatica come una cacca di cammello ci accoglie a braccia aperte e ci mostra un listino prezzi in euro. “Centodieci euro a moto” esclama. La cifra è esorbitante. Protestiamo, ma la donna è irremovibile. Chiudiamo il discorso spuntando un piccolo sconto, ritiriamo la salatissima carta verde e superiamo il guardiano in mimetica. Solo a questo punto comprendiamo il piano della “Banda Bassotti Ucraina”. Il milite non era un russo ma un ucraino ed era in combutta con la simpaticona dell’ufficio rapina stranieri. La carta verde non è obbligatoria in Russia e se qualcuno la volesse richiedere negli uffici doganali della “Grande Madre Russia” la pagherebbe più o meno venti euro! I militari russi sono gentili, seri e veloci nelle pratiche. Abbiamo la fortuna di trovarci di fronte una “militaressa” alta, bionda, occhi verde acqua, unghie curate e smaltate di rosso, profumata come un bouchet di rose e dalla bellezza imbarazzante, che in un ottimo inglese aiuta Tawil a compilare i moduli per l’importazione temporanea della moto. Il Mio Compagno riesce solo a dirle “Spasibo”, Do Svidaniya”, vale a dire “Grazie e arrivederci”, le uniche parole di russo che conosce e a strapparle un sorriso. Gran paese la Russia! Superato il confine ci aspetta una bella e trafficata autostrada. Decidiamo di evitare Volgograd in pratica la leggendaria Stalingrad per visitare un luogo più a Sud a dir poco strano: La Calmucchia. La particolarità di questa repubblica è data dal fatto che si tratta dell’unico territorio europeo in cui una quota consistente della popolazione professa, la religione buddista. I calmucchi arrivarono dall’Asia centrale fino alle steppe dell’Europa sud-orientale nel 1630 e vi si stabilirono fino alla fine del XVIII secolo quando decisero di ritornare nella loro patria con una marcia senza precedenti di circa 200.000 persone. Dopo quasi sette mesi i calmucchi riuscirono a raggiungere gli avamposti della loro patria in Manciuria. Parte dei calmucchi non riuscì ad attraversare il Volga e l’Ural per unirsi al loro Khan nel ritorno in Asia. Questa parte del popolo calmucco si assoggettò quindi alla sovranità russa, prima sotto gli Zar, e in seguito sotto i comunisti. Durante la II guerra mondiale Stalin, sospettoso della loro lealtà a causa dell’insoddisfazione per le loro condizioni, deportò l’intera nazione calmucca senza preavviso in Siberia, su carri bestiame in pieno inverno. Metà dei deportati perì durante il viaggio e nei successivi anni d’esilio, una pulizia etnica fino ad oggi sconosciuta al mondo esterno. Khrushchev infine permise il loro ritorno nel 1957, quando trovarono le loro case, posti di lavoro e terre occupate da immigrati russi e ucraini, che vi rimasero. Il 29 luglio 1958 la Calmucchia divenne nuovamente una repubblica autonoma dell’Unione Sovietica Socialista Russa. Dopo la dissoluzione dell’URSS, ha mantenuto lo status di repubblica autonoma all’interno della Federazione Russa.
Elista, la capitale della Calmucchia ci accoglie tra i suoi templi buddisti e i suoi abitanti “tibetani”. Scendiamo verso il Mar Caspio. Astrakan in questo periodo è gremita di turisti russi che vogliono trascorrere qualche giorno in allegria nei numerosi locali. La passeggiata lungo il fiume al tramonto gremita di belle ragazze è d’obbligo come la cena a base di carne grigliata in uno dei tanti ristoranti. Astrakan è l’ultimo caposaldo europeo. Improvvisamente le case sono più semplici, le stazioni di servizio vetuste e rade e le auto più vecchie. Anche i negozi finora ricchi e ben assortiti di qualsiasi genere alimentare scompaiono per lasciare spazio a modeste botteghe fornite solo dell’essenziale per vivere. La differenza è questa. Il superfluo lascia il posto all’essenziale. L’Europa è separata dall’Asia da un fiume. Le due sponde sono collegate da un traballante ponte di barche che conduce davanti alla frontiera kazaka. I doganieri kazaki di Korduan sono famosi per i voluminosi e buffi cappelli e per uno strano “stop” posizionato sul rettilineo prima del controllo dei passaporti e controllato da una tecnologica telecamera. Chi non si ferma al finto stop, e se non fosse stato avvertito anche Tawil avrebbe tirato dritto, una volta raggiunta la minuta caserma si vedrà elevare una bella ammenda di cento euro tondi senza nessuna possibilità di replica. Siamo fermi sotto il sole davanti al celeberrimo cartello da un paio di minuti, quando finalmente riceviamo un fischio d’approvazione dal “cappellone” di turno che c’invita al controllo dei documenti. A parte questa “trappola” in poco più di un’ora superiamo la dogana kazaka. Lungo la strada incontriamo due motociclisti australiani che sbarcati a Vladivostok hanno attraversato la Mongolia e sono diretti a Londra. Atyrau conosciuta anche come Jaizk e Guriev, è una città di 150.000 abitanti prevalentemente d’etnia kazaka e per il 20% russa. La città fu fondata come Jaizk nel 1645 da un commerciante russo chiamato Guriev. Era un avamposto militare russo a causa della sua posizione strategica. Oggi Atyrau è il porto principale del Kazakhstan sul Mar Caspio. Fa un caldo terribile. Per fortuna troviamo un buon albergo provvisto di camere con aria condizionata e un ristorante all’aperto con una gigantesca griglia fumante di “shaslik” gli appetitosi spiedini di carne di montone e bibite ghiacciate. La tappa che ci attende oggi è lunga e impegnativa. Fino a qualche anno fa la strada era discreta fino a Kulsary, poi si perdeva tra la polvere. In seguito i ciclopici lavori per la costruzione della via che conduceva da Kulsary al confine Uzbeko obbligavano i rari passanti a vere e proprie gimcane tra le piste polverose e torride del deserto. Oggi esiste una strada meravigliosa che conduce a velocità supersoniche fino a Beineu dove l’asfalto finisce e lascia il posto ad un facile sterrato d’ottanta chilometri. L’unico inconveniente è la quasi totale mancanza delle stazioni di servizio. E’ obbligatorio fare rifornimento nei due o tre benzinai in territorio kazako se non si vuole rimanere a secco. Oltretutto dall’Uzbekistan arrivano notizie inquietanti sulla totale mancanza di carburante sull’intero territorio. L’unico conforto per Tawil arriva dalla consapevolezza di poter percorrere con un pieno di benzina, circa sedici litri, più di trecentocinquanta chilometri, che sommati agli altri duecento chilometri dei dieci litri delle due taniche di scorta, ci consente un’autonomia di tutto rispetto. Finora è andato tutto molto bene. Le uniche operazioni di manutenzione sono state quelle di un controllo al livello dell’olio motore che non si è spostato neanche di un millimetro e di ingrassaggio della catena un paio di volte.
Il deserto ormai è padrone della scena. E’ un deserto vero di sabbia, sassi e temperature prossime ai cinquanta gradi. La dogana uzbeka è sommersa da una coltre di trenta centimetri di sabbia finissima. In tutta l’area fervono i lavori per la costruzione dei nuovi edifici doganali, che tra qualche anno accoglieranno i passanti nei moderni uffici muniti d’aria condizionata. Adesso l’impatto con il polverone del piazzale è devastante. Ovunque regna il caos e se riusciamo a trovare i vari uffici dislocati nei container di lamiera sparsi sul piazzale è solo grazie alle indicazioni d’alcuni camionisti russi. Lasciamo “Forte Apache” alle quattro del pomeriggio. Il primo luogo abitato decente certo è a duecentosettanta chilometri. Aumenta la sete. L’acqua delle borracce sembra evaporare. Avanziamo di un centinaio di chilometri. Solo sabbia, sassi e un forte vento torrido laterale. Dal nulla si materializzano due enormi camion in sosta. Abbiamo subito pensato ad un guasto, ma come ci spiega uno dei conducenti, la fermata è solo per godersi un po’ di fresco riposo stesi su una coperta sotto i mastodontici veicoli. Approfittiamo dell’incontro per chiedere una bottiglia d’acqua. Alzare la mano e infilare il pollice in bocca con il mignolo alzato ad indicare “abbiamo sete” conduce al fatto che prima ci sia offerta una bottiglia di vodka, e solo in un secondo momento un boccione da due litri d’acqua gasata e bollente che passa dalla cabina infuocata del camion, direttamente nelle gole riarse dei due centauri. Bruciamo altri cento chilometri. Ad un posto di blocco mentre la polizia ci controlla i documenti riempiamo i serbatoi con la benzina di un intraprendente contrabbandiere al triplo del prezzo di mercato. Ci sarebbe da arrabbiarsi, perché tremila Sum, l’equivalente di quasi due euro, per un litro di benzina potrebbero sembrare molti, in realtà non ci sono possibilità e c’è da ringraziare la buona sorte per averci fatto incontrare l’apprendista “benzinaio”. Kungrad non è molto distante, ma il buio ci coglie impreparati lungo i quaranta chilometri di sterrato che ci separano dalla meta. Ancora un’ora di pista polverosa sotto il riflesso e la magia della luna piena. Oggi abbiamo percorso novecento chilometri in sedici ore. Kungrad è quasi una città, ma per dormire non ci sono molte opportunità. La scelta, l’unica disponibile, cade su un alloggio per viaggiatori locali composto di una camera di sei letti disposti in due spazi abitativi in comune, una doccia raggiungibile dal giardino, in una specie di pollaio ristrutturato, d’acqua non corrente ma abbondantemente contenuta in secchi di lamiera zincata e una latrina puzzolente. “Sulla strada c’è anche il ristorante di famiglia aperto” dice il proprietario dell’albergo. La cena consiste in due piatti fumanti di riso e carne di montone. “Poteva capitarci anche qualcosa di molto peggio” esclama Tawil. “Khiva dista solo duecentosettanta chilometri, ma il ponte che conduce alla città vecchia è interrotto” commenta il nostro albergatore mentre s’improvvisa benzinaio. Questo paese è incredibile. Nei distributori non c’è una goccia di benzina, ma nelle case, pollai, garage e capanne, le taniche abbondano. Il prezzo? Sempre tremila Sum!
Nukus che fino al 1932 era solo un piccolo insediamento, oggi è una città con più di 150.000 abitanti dallo stile tipicamente sovietico con ampi viali e una pianta regolare; l’isolamento della città convinse i sovietici a farne la sede dell’Istituto di Ricerca chimica dell’Armata Rossa. Nukus e tutta la repubblica del Karakalpakstan subisce le conseguenze del disastro ecologico del lago d’Aral. Il prosciugamento del lago ha scoperto un fondale composto di sale e pesticidi che venti e tempeste hanno trasportato in tutta la regione trasformando l’area in una zona malsana, incolta e ad elevata incidenza di neoplasie e malformazioni. Stranamente non ci sono neanche i cartelli stradali. Ci affidiamo alle chiare indicazioni del GPS, che non ci evita di sbagliare strada più di una volta. La chiusura del ponte ci costringe ad una lunga deviazione lungo una strada secondaria in uno stato pietoso. La fatica e i disagi sono ampiamente ripagati da questa meravigliosa città protetta dall’Unesco. Khiva, una città completamente fortificata, fu un centro commerciale importante lungo la Via della Seta. Per molto tempo la città fu tristemente famosa anche per il mercato degli schiavi. Oggi, per chi come noi arriva dal terribile deserto uzbeko, rappresenta oltre che un sito imperdibile anche un’oasi di pace e tranquillità. Tawil visitando la città sei anni fa fu molto colpito dalla moschea Juma unica del suo genere con le sue duecentodiciotto colonne di legno che sostenevano il soffitto. In questo luogo sacro aveva anche fotografato una bella donna, all’epoca dipendente della moschea. E’ ancora al suo posto ed è molto felice di ricevere il suo ritratto. La strada che conduce a Bukara attraversa l’ultimo tratto del terribile deserto uzbeko. Il vento laterale è così forte che in alcuni tratti la sabbia copre completamente la via. La vecchia Bukara è incredibile. Passiamo la notte in un albergo a due passi dal minareto Kalan. L’edificio di 47 metri era probabilmente il più alto dell’Asia centrale e ha resistito per più d’ottocento anni ai terremoti grazie ad un sistema antisismico antico ma efficace. Anche Gengis Khan ne fu impressionato e diede l’ordine di non abbatterlo. Continua lo stillicidio della mancanza del carburante che ha raggiunto l’ammontare di quattromilacinquecento Sum al litro. Raggiungiamo Samarcanda in poco più di quattro ore seguendo una fantastica strada a due corsie perfettamente asfaltata. Nella città resa famosa da Tamerlano abbiamo un appuntamento con Gianni e Pier Felice, due amici motociclisti, che sono diretti in Mongolia e viaggiano con le rispettive fidanzate. Ho sempre ammirato il coraggio delle compagne di viaggio dei motociclisti, spesso “comodamente” sedute sui pochi millimetri quadrati delle nostre selle semi sommerse dai bagagli, che dividono le gioie e i dolori della motocicletta solo per amore. Barbara divide con Gianni una KTM LC4, Irene viaggia su un’Honda Dominator con Pier Felice e Nicoletta, che ha raggiunto Taskhent in aereo, ha preso posto sulla storica BMW R 100 GS Paris/Dakar bianca e rossa di Mirco. L’anziana Dominator, arrivata via terra dall’Italia, accusa qualche acciacco dovuto all’usura dei tanti chilometri percorsi all’ammortizzatore posteriore che deve essere sostituito. Il problema è che il nuovo ammortizzatore arrivato in aereo da Roma non è compatibile. La moto giace nella sala operatoria di un volenteroso meccanico da questa mattina. Solo al tramonto arriva il verdetto: operazione perfettamente riuscita! Un’altra ombra scende sempre più fitta sul viaggio. Il Kirghizistan, dopo essere sprofondato in una sanguinosa guerra civile tre mesi fa, da qualche settimana ha chiuso le frontiere. La situazione nelle aree kirghise che dobbiamo attraversare di Osh e Jalalabad è pesante. Tawil ha dei ricordi bellissimi di questo straordinario paese e dell’ospitalità della sua gente e lo riempie di tristezza dover rinunciare. Noi andiamo avanti nella speranza che arrivati sulle alte vette del Pamir la frontiera sia riaperta, in caso contrario saremo costretti ad invertire la marcia e a ritornare verso l’Uzbekistan. La dogana tagika dista solo cinquanta chilometri da Samarcanda. Il Tagikistan è un paese ricco di miniere d’oro, carbone, rame, rubini e marmo pregiato, ma in realtà sembra più povero dell’Uzbekistan, ma forse è la gente, piacevole e accogliente, ad essere più povera. Potevamo seguire la facile strada asfaltata fino ad Ayni, ma per dare libero sfogo al richiamo verso l’avventura c’infiliamo sulla pista che conduce verso lo Zurmech Pass. Lo sterrato molto impegnativo attraversa un’impervia area montagnosa di una bellezza cristallina. Quattro ore di passione, polvere e sole accecante tra rocce granitiche e ruscelli d’acque trasparenti. Dopo Ayni ricomincia l’asfalto. Dopo aver attraversato una gola da brividi inizia l’arrampicata verso i tremila metri dell’Anzob Pass. Rimane solo il tempo per fare gli scongiuri e per regalare ai polmoni dei nostri centauri ancora qualche boccata dell’aria pura e frizzante delle alte vette tagike prima di sprofondare in uno dei luoghi più sinistri del pianeta. Danno il benvenuto le inquietanti e nere facce degli addetti ai lavori cinesi che presidiano l’entrata di questo tunnel trappola. La galleria è un cantiere aperto e parzialmente allagato. Nei primi metri procediamo a passo d’uomo. Più che un tunnel è una grotta buia e fetida di smog. Manca l’aria. Tawil per favore cerca di evitare i chiodi. Rimanere con una gomma a terra in questa tana? Sarebbe la fine. Di tanto in tanto il cambio di corsia è obbligatorio a causa degli allagamenti e delle voragini nella pavimentazione. Usciti dall’incubo inizia la lunga discesa che conduce fino alla capitale Dushanbe. Il nome della città deriva dalla parola tagica “lunedì” (du “due” e shanbe “giorno”) e si riferisce al fatto che la città era un frequentato mercato nel giorno di lunedì, il secondo della settimana. Contrariamente alle altre popolazioni dell’Asia Centrale, i cui tratti fisici rivelano l’origine mongola, i tagiki sono d’origine persiana e ne vanno fieri. L’intera ex Unione Sovietica è un’enorme e ingarbugliata matassa che rischia di esplodere. Quando Stalin divise in cinque repubbliche l’Asia Centrale, Samarcanda e Bukhara sarebbero dovute essere incluse nel territorio del Tagikistan. Il fatto che fossero inserite dentro i confini uzbeki è un altro esempio della politica “divide et impera” del comunismo sovietico. Questo è uno dei motivi per cui oggi tra uzbeki e tagiki non scorra buon sangue. I tagiki sono il primo gruppo etnico dell’Asia Centrale, ma la maggior parte dei tagiki oggi vive in enclavi uzbeke, nel Nord dell’Afganistan, in Pakistan e nello Xinjiang Cinese. Ahmad Shah Masoud, il Leone del Panshir, afgano, ma tagiko dal punto di vista etnico, aveva il grande sogno di creare un grande paese e di “gustare l’uva di Samarcanda”. Dusanbe è una città gradevole adagiata in mezzo ad una catena di montagne. Abbiamo la fortuna di pernottare in un comodo e moderno albergo che servirà da base di partenza per il Pamir. Approfittiamo della cortesia di un’impiegata dell’albergo per chiedere informazioni. Pier Felice ha bisogno di un ottimo meccanico e di un buon saldatore per rimettere in sesto la vecchia Dominator. Dopo tre ore di lavoro lo scarico è come nuovo, ma quando il motociclista romano chiede il conto nessuno vuole denaro. A fatica Pier Felice infila nelle tasche tagike qualche banconota. Lasciamo la capitale tagika in tarda mattinata seguendo la statale M41. Dopo pochi chilometri ad un posto di blocco, alcuni militari c’informano che la strada è interrotta a causa delle abbondanti piogge e della piena che ha spazzato via un ponte. Lasciamo la strada principale “rossa” per seguire una “gialla” via secondaria poco battuta che conduce verso Sud. L’asfalto finisce presto per lasciare il posto ad una polverosa pista bianca che cambia ancora una volta l’aspetto degli abiti dei nostri avventurieri. Kulyab, un fiorente centro industriale sotto il controllo Sovietico, non ha molto da offrire. Anche la ricezione alberghiera lascia molto a desiderare. La nostra scelta per la notte cade su un albergo grande e di gradevole aspetto esteriore, ma l’edificio di tre piani presto si distinguerà per lo stato d’abbandono di due dei tre piani esistenti, per le camere sporche, i bagni senz’acqua e le finestre con i vetri rotti. Il proprietario è un russo presuntuoso, maleducato e arrogante. La cena in una piccola locanda gestita da due simpatiche signore è gustosa e cordiale. Ripartiamo all’alba con la convinzione di arrivare a Khorog distante “solo” quattrocento chilometri nel primo pomeriggio. Superiamo un bel passo di montagna, poi immersi in un paesaggio fantastico di rocce dai colori rosso, ocra e giallo scendiamo verso il confine Afgano. La pista durissima, che segue un fiume dalle acque grigie e limacciose, mette a dura prova le nostre sospensioni e i fondo schiena dei nostri cavalieri. Fa una certa impressione vedere alcuni motociclisti afgani sfrecciare sulla mulattiera dall’altra parte del fiume. I due paesi sono divisi solo da un fiume che in alcuni tratti non supera i venti/trenta metri. Ad una sosta, ci troviamo davanti un gruppo d’afgani in bicicletta. Quanto piacerebbe al Mio Compagno parlare con loro. Si sbraccia per salutarli. Un secondo dopo ricambiano. Ci fissiamo per qualche secondo poi, Tawil con tutto il fiato che ha in gola d’istinto urla: “Masoud Forever!” Continuano a guardarlo. Con il frastuono del fiume è impossibile che lo abbiano sentito. Masoud è stato ucciso da due finti intervistatori che si sono fatti saltare in aria con l’esplosivo nascosto nella loro videocamera il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attacco alle torri gemelle di New York. Masoud sarebbe stato sicuramente il riferimento afgano per l’occidente per un attacco contro i talebani. Sono due decenni che Tawil ha voglia di visitare questo paese, ma fin ora è riuscito solo a sfiorarlo. Inseriamo le coordinate di Bazarak, capoluogo della valle del Panshir, il luogo dove è sepolto Masoud. Sono meno di 250 chilometri in linea d’aria. Nel 2000 durante un viaggio in Pakistan Tawil ha sentito molto parlare di lui e delle sue gesta eroiche prima contro i russi, poi contro i talebani. Fu particolarmente colpito da una frase detta dal proprietario di un albergo di Chitral nella zona dell’Hindu Kush, molto vicino al Nord Afgano: “Masoud ha un grande difetto, non lo puoi comprare”. Che il Tagikistan fosse un paese vero, ce n’eravamo accorti subito, ma nessuno s’immaginava di trovare un simile gioiello. Il paesaggio cambia continuamente. Sono chilometri che ci stiamo arrampicando, con i nostri cavalieri imbacuccati come a Natale per il freddo, lenti come lumache su una specie di mulattiera dal fondo duro e ondulato, poi improvvisamente la strada si livella, scende e fa caldo. Raggiungiamo la statale M41, Kalaykhum e l’asfalto nel tardo pomeriggio. L’unica stazione di benzina è sprovvista di carburante, ma, su indicazione dei locali, facciamo il pieno ai nostri serbatoi con le taniche da un privato. Passiamo la notte in una semplice locanda che offre solo due camere parzialmente già occupate da tre e quattro letti. Ai “comodi” letti Tawil e compagni preferiscono le tende, meno accoglienti, ma più tranquille. Le informazioni sul Kirghizistan già piuttosto negative diventano ancora più nefaste. Il paese è completamente interdetto al passaggio degli stranieri. In pratica non potremmo nè entrare nè uscire dal paese. Per raggiungere Bordobo, il posto di frontiera tra il Tagikistan e il Kirghizistan, che dista ancora settecento chilometri abbiamo bisogno di almeno tre giorni di viaggio. Arrivare fin lassù e poi ritornare indietro porterebbe fuori della nostra portata la capitale Mongola e di conseguenza il volo di rientro in Italia. Rientriamo in Uzbekistan. E’ triste rinunciare ad una parte del viaggio. La situazione Kirghisa, in special modo nel Sud del paese è compromessa. L’etnia uzbeka all’interno del paese sfiora il 40%, e la convivenza con i kirghisi ha conosciuto negli anni momenti drammatici, con centinaia di morti nel 1990. In questo anno gli scontri violenti sono iniziati nel mese d’aprile e la proclamazione dello stato d’emergenza e il coprifuoco non sono bastati a soffocare il caos. Bande armate di fucili, bombe incendiarie e spranghe hanno saccheggiato i quartieri uzbeki di Osh e Jalalabad, dato fuoco ad automobili, case, negozi. E’ iniziata la fuga degli uzbeki, verso il vicino confine uzbeko. Ancora una volta si sente parlare di pulizia etnica e si contano duemila morti e centinaia di migliaia di persone hanno perso tutto.
Rientriamo a Dushanbe viaggiando senza sosta per dodici ore, poi attraversando ancora una volta il tunnel maledetto in Uzbekistan. Superata la dogana Tagika, dalla parte Uzbeka ci aspetta un’amara sorpresa. Capita raramente d’incontrare dei militari corrotti e senza scrupoli. Per la prima volta abbiamo subito il controllo visivo della valuta. In pratica hanno voluto constatare di persona che i ragazzi avessero un bel po’ di soldi in tasca. L’operazione effettuata in un locale appartato ha portato al prelevamento dal portafoglio di Tawil di venti dollari. Da questo punto in poi i “volonterosi” gendarmi hanno fatto di tutto per rallentare le operazioni doganali per obbligarci a pagare il pedaggio. Ha dell’incredibile che in una dogana completamente deserta abbiamo subito sei ore d’angherie. I militari passavano dalla tortura psicologica con domande tipo: “Do you speak english?” ripetute per decine di volte alla compilazione volutamente errata dei moduli verdi dell’importazione temporanea delle moto. Tawil è rimasto in un torrido ufficio con un doganiere senza che lui riuscisse a scrivere nemmeno il nome di uno dei motociclisti. Oltretutto aveva un raffreddore allucinante e gli stava addosso come una sanguisuga. Dopo tre ore ha chiesto il cambio a Pier Felice. Correva il rischio di strangolarlo con le sue stesse mani. Imperativo: portare pazienza e non sganciare nemmeno un dollaro. Alla fine, quasi a notte inoltrata, ci hanno fatto passare. Mancano solo cento chilometri alla capitale Tashkent. Uno scherzo se non fosse per la mia luce anabbagliante bruciata che ha costretto Tawil ad una guida precaria. Anche la moto di Pier Felice per “osmosi” ha avuto lo stesso problema. Per fortuna a metà strada abbiamo fatto una sosta per una grigliata di carne di montone veramente squisita in un ristorante gremito di gente simpatica e cordiale. Nella capitale uzbeka Pier Felice è costretto ad abbandonare il viaggio per la definitiva rottura dell’ammortizzatore della sua Honda Dominator. Lasciarsi alle spalle un compagno che dovrà attendere l’arrivo del nuovo ammortizzatore da Roma e rientrare da solo in Italia non è facile, ma il viaggio deve continuare. Uscire dall’Uzbekistan verso il Kazakistan è più complicato del previsto. Saryaghash e Qibray, le due frontiere nelle vicinanze di Tashkent sono aperte solo ai locali. I forestieri devono scendere di ottanta chilometri verso Chinaz, risalire d’altri cento verso Nord, ripassando a meno di venti chilometri dalla capitale uzbeka. Un sacco di ore sprecate. Il traffico pesante a cui non eravamo più abituati da tempo insieme al caldo soffocante ci mette un po’ in difficoltà, mentre il paesaggio dei pascoli gremiti di cavalli e cammelli tra le dolci colline kazake e le montagne color giallo e ocra del kirghizistan è straordinario. Superiamo Shymkent, Taraz, Qulan, poi da Oytal costeggiamo per centocinquanta chilometri il confine kirghiso separato dal Kazakistan da un terribile filo spinato alto quattro metri e nuovo di zecca. Cento chilometri prima di Alma Ata ci fermiamo per la notte in uno strano albergo gestito da una famiglia turca. Il modesto hotel, in pratica abbandonato, è rimesso in funzione per l’occasione ghiotta e remunerativa di ospitarci. Le camere sono piuttosto malconce, ma il ristorante funziona alla grande e il cibo è squisito. Superiamo gli ingorghi del mercato della domenica di Alma Ata e ci dirigiamo concretamente a Nord. Cambiano in breve tempo le condizioni meteorologiche. Cessa il gran caldo, ricompaiono le nuvole in cielo e aumenta l’umidità. A Taldugorgan le mie gomme, che hanno percorso finora novemila chilometri, vengono sostituite con le gomme tassellate che mi hanno accompagnato dall’Italia sul sellino posteriore. Il Nord del Kazakistan è sempre più verde. Hanno fatto la loro ricomparsa anche gli alberi e da questa mattina cielo grigio, pioggia e manto stradale come una gruviera. Incontriamo Pavel un motociclista kazako in sella ad una due tempi CMZ. Pavel indossa un fantastico casco modello “Che Guevara” e un paio di guanti molto estivi oltre che malconci. Tawil vorrebbe regalargli un paio di guanti di scorta che non usa da quindici anni, ma ottiene solo un cortese rifiuto. Insiste. Pavel allora apre una delle sue incredibili borse laterali auto costruite in compensato multi strato e ci mostra un paio di guanti “lunghi” di pelle nera. Arrivano fino al gomito. Tawil gli fa notare che anche le gomme sono finite, ma lui sorride e con lo sguardo di un uomo soddisfatto e felice di stare al mondo commenta con un “no problem” davvero incoraggiante. La moto color del cielo parte al primo colpo di pedivella. Grande Pavel! Fai parte della categoria dei motociclisti che amano la propria moto e la trattano come fosse cosa viva. La cittadina a pochi chilometri dal confine russo sembra avere tutto, ma in realtà non ha niente. Non c’è un albergo decente, un bar, un ristorante. Solo palazzotti grigi e tristi ereditati dal blocco sovietico. E’ disponibile solo una vecchia casa gestita da un uomo che vive in uno sgabuzzino. Le camere al terzo piano sono enormi e contengono quattro vetuste brande di ferro, mentre il bagno è in comune al secondo piano. L’albergo, a prima vista disabitato, si riempie con il passare del tempo di gente. Inutile sarebbe la ricerca di un ristorante in questa città, perciò il gruppo di italiani utilizza i fornelli da campeggio per cucinare bollenti zuppe di verdure. Noi, le moto, siamo al sicuro in un garage diroccato e senza luce dietro l’enorme edificio alberghiero. Nessuno penserebbe mai di cercare delle moto in un posto simile. In ogni caso se qualcuno tentasse di introdursi nel garage finirebbe per rompersi l’osso del collo in una buca profonda un paio di metri subito dopo la porta d’ingresso. Ripartiamo sotto la pioggia gelida. La dogana è molto affollata e ci prende quasi tre ore. Siamo di nuovo nella Grande Madre Russia. Stiamo viaggiando su una bella strada diritta e ben pavimentata. Superiamo una colonna d’auto che procede ad andatura lenta. Più avanti ad un posto di blocco la polizia ci ferma. Tutti i nostri sorpassi a cavallo dell’invalicabile striscia continua e la nostra velocità superiore al consentito sono stati immortalati dalle telecamere e scorrono sul monitor davanti ai sorridenti poliziotti. Tawil è l’unico a cui contestano le infrazioni. Molto probabilmente per il fatto che chiudendo il gruppetto dei motociclisti hanno rilevato solo la sua targa. Non è il caso di protestare. Consegna la patente e il passaporto e attende il salasso. Il poliziotto guarda divertito la sua patente di plastica. “Patente Internazionale” commenta. “No, Patente Italiana” risponde Tawil. Dalla faccia divertita del militare posso dedurre che forse prima d’oggi nessuno avesse mai mostrato un documento come il quello del Mio Compagno. “Motociclisti Italiani niente multa” dice il militare riconsegnandogli i documenti. La prima impressione è sempre quella giusta: Grande Paese la Russia! Raggiunta Simek abbiamo due possibilità: seguire la strada principale asfaltata che conduce direttamente verso gli Altai e la Mongolia oppure seguire una via alternativa più lunga e piena d’incognite verso l’interno. Naturalmente scegliamo l’avventura. Le strade secondarie sono più strette, alternano asfalti ruvidi a sterrati, sono piene di buche, ma incredibilmente più affascinanti. Il paesaggio cambia continuamente in un sali scendi tra dolci colline e veloci rettilinei che si perdono tra i campi coltivati, oceani di girasoli gialli e infinite distese di prati verde smeraldo. Di tanto in tanto incontriamo minuscoli villaggi di case di legno, qualche fattoria e cavalli, mucche, capre, pecore e maiali. L’unico problema è comunicare con le persone. Bisogna insistere e sfoderare tutta l’arte della mimica per essere capiti. Tawil chiede ad un motociclista russo in panne se nei paraggi ci sia un negozio alimentare. L’uomo, molto disponibile, decide di accompagnarci. La moto parte solo grazie alle spinte degli italiani. Purtroppo il centauro spalanca il gas troppo in fretta sull’asfalto viscido e cade rovinosamente. Niente di grave, a parte una sbucciata ad un ginocchio e ad una mano. Il “supermarket” vale a dire una casa normalissima è poco distante e ben fornito. E’ l’occasione giusta per far felice il nostro simpatico motociclista con quel famoso paio di guanti che Tawil si porta appresso da quindici anni. Chiediamo anche indicazioni per dormire. “Niet” risponde il russo. Non ci resta che campeggiare in cima ad un colle, l’unico che abbia l’erba falciata di fresco. Prima di prendere sonno sotto la russa volta stellata c’è ancora il tempo per ricevere la visita del proprietario del campo che, a giudicare dal tono concitato della sua voce, non è molto contento che una banda di motociclisti abbia occupato il suo terreno. Pochi minuti di dialogo, in pratica parla da solo, visto che nessuno capisce una parola, poi il tono diventa amichevole, uno scambio di sorrisi e la buona notte. Abbiamo due buoni motivi per raggiungere Ust Khan. Il primo è che da questa cittadina in poco più di due ore si rientra sulla strada principale che ci condurrà in Mongolia. Il secondo è che in questo villaggio ci aspetta Alessandro, un motociclista di Reggio Emilia. Tawil ha conosciuto Alessandro per caso un sabato di maggio al mare. “Il sogno della mia vita è quello di partire da casa e di arrivare ad Ulaanbaatar in moto” gli aveva detto. “Non ho mai fatto un viaggio così lungo, poi la moto l’ho appena comprata. Mi spaventa un po’ attraversare il nulla della Mongolia da solo”. Aveva comprato una vecchia e gloriosa Africa Twin, l’aveva sistemata, aveva anche costruito con le sue mani le due borse laterali d’alluminio ed era partito carico di speranze. E’ da questa mattina che ci aspetta ad Ust Khan. Stamattina sembrava tutto facile. Avevamo superato brillantemente gli sterrati di ghiaia delle pianure gli impegnativi splendidi e ripidi passi montani, ma a sessanta chilometri dal traguardo, la strada è bloccata da una frana. Non ci sono possibilità, bisogna ritornare indietro di duecento chilometri e tentare di raggiungere la strada principale da un’altra parte. Ritroviamo la strada maestra verso sera. Siamo di nuovo in rotta per la Mongolia. Peccato che la BMW di Mirco abbia il cambio bloccato in terza marcia. Un difetto congenito non riparabile di questo vecchio modello. Ad Altay, una graziosa cittadina, troviamo da dormire solo per un colpo di fortuna. Gli alloggi sono tutti chiusi o pieni, ma grazie all’aiuto di un tassista troviamo una casa privata con due camere, una cucina e un pollaio per noi moto. Straordinario il paesaggio “svizzero” degli Altay russi con la prima neve che imbianca le cime delle montagne. Fa freddo. Ad una stazione di servizio incontriamo Alessandro e tutti insieme raggiungiamo nel tardo pomeriggio Tashanta, il confine tra Russia e Mongolia. Superate le solite formalità imbocchiamo una splendida strada asfaltata che, dopo trenta chilometri, ci conduce davanti ad un cancello. Un militare in tuta mimetica ci viene incontro e ci chiede gentilmente i passaporti. L’uomo è entrato in una piccola casa poco distante, molto probabilmente per l’ultimo controllo e l’ultima registrazione. Passano cinque minuti, il militare ci viene incontro sorridente, riconsegna i documenti, poi ci apostrofa: “Good Luck Guys” e spalanca il cancello. Da questo punto in poi inizia lo sterrato e incomincia la grande avventura mongola. Bastano pochi metri per rimanere disorientati. Gli spazi infiniti e la totale mancanza d’abitazioni sono le prime cose che colpiscono e non importa se a meno di dieci chilometri ci troviamo davanti il grande edificio della dogana mongola. Sappiamo che sarà l’ultimo baluardo di civiltà prima dei duemila chilometri che ci separeranno dalla capitale Ulaanbaatar. Per la prima volta incontriamo gli equipaggi del Mongol Rally. La manifestazione a cadenza annuale consiste in un viaggio non competitivo dall’Europa ad Ulaanbaatar. Il regolamento è molto semplice: tre mesi di tempo per arrivare a destinazione, automobili di cilindrata massima da 1300 centimetri cubici che saranno donate in beneficenza nella capitale mongola, un migliaio di sterline d’iscrizione ad equipaggio, un po’ di coraggio e tanta fortuna. Lasciamo la dogana poco prima del tramonto. Il freddo dei duemila metri d’altitudine è pungente. A meno di un chilometro dal confine c’è Tsagaannuur, un piccolo villaggio, poche case, e per poche intendo meno di dieci, dove ci attende una vecchia jeep Uaz russa con autista che, prenotata qualche giorno fa, servirà per trasportare i bagagli del gruppo. L’autista viaggia insieme al fratello e alla sorella. La cosa non stupisce più di tanto quando veniamo a sapere che il biglietto dell’autobus di linea che raggiunge la capitale in soli tre giorni e tre notti senza fermarsi mai costa sessantamila Tughrik, in pratica circa cinquanta dollari americani, una somma considerevole in Mongolia. I due giovani conoscono anche qualche parola d’inglese e fungeranno da interpreti con l’autista. Grazie a loro Tawil e compagni riescono a far capire all’autista che la vecchia jeep andrebbe sostituita con un pick-up o un furgone per il trasporto della BMW con il cambio bloccato, di Mirco e Nicoletta. Lo scambio di vetture si potrà fare solo ad Olgiv, una cittadina ad ottanta chilometri di distanza. Comprendiamo immediatamente che in Mongolia parlare di chilometri non ha senso quando la giovane ragazza dice: “Voi potete dormire qui, mentre noi andiamo con la jeep ad Olgiv per cercare un pulmino. Tre ore per andare e altre tre per ritornare. Ci vediamo domani mattina alle otto”. “L’albergo” è composto da un edificio rettangolare che comprende una grande camera con sei letti, una minuscola stanza da due “letti mancanti” vale a dire senza niente e un locale con un lungo tavolaccio di legno per la cena. Il bagno è un lavandino alimentato ad acqua in pratica un rubinetto con una piccola vasca che è riempito ogni volta che finisce. Il bagno vero è fuori nell’angolo del cortile e consiste in un buco scavato nel terreno profondo un paio di metri chiuso da un basamento di legno tipo turca e coperto da una costruzione di legno di un metro per un metro. Nel cortile oltre al bagno “Jacuzzi” ci sono anche due gher, le famose tende o Jurte mongole in feltro, abitate dalle due famiglie che gestiscono l’alloggio. La gher è l’abitazione della popolazione nomade: una tenda bassa e larga, circolare, generalmente bianca. E’ smontabile, a parte la porta d’ingresso, in poche ore. Il terreno della gher è preparato battendolo e ricoprendolo con il letame delle pecore, per tenere caldo. Su questo si pianta un’intelaiatura di legno. Nel punto più alto della tenda c’è un foro, che all’occorrenza viene chiuso, dal quale penetra la luce ed esce il fumo.
Tutto il complesso è completamente circondato da un alto steccato di legno alto due metri in cui si accede solo attraverso un cancello chiuso da un robusto lucchetto. Per cena sono serviti sei grossi ravioli bolliti ripieni di carne di montone a testa. Puntuali come un orologio svizzero alle otto di mattina ricompaiono i mongoli su un vecchissimo pulmino russo Uaz a quattro ruote motrici. Ai tre “fratelli” si è aggiunto anche il proprietario del nuovo mezzo che sarà in nostro autista ufficiale per tutto il tragitto. La vecchia BMW è parzialmente smontata per prendere posto nel nuovo trasporto così come i bagagli posizionati in parte con la moto ed in parte sul tetto. Chiudono il carico la sfortunata coppia dei motociclisti appiedati e i quattro mongoli. In Mongolia non ci sono strade, ovvero ce ne sono tante, per non correre rischi bisogna usare buon senso, istinto e il GPS naturalmente. Le tracce che vanno un po’ da tutte le parti di tanto in tanto traggono in inganno e ci conducono in qualche recinto di cavalli, ma percorsi pochi chilometri tutto diventa, per ora, più semplice. In cima al passo incontriamo un anziano cavaliere. Il suo viso scavato dal tempo è incredibile almeno quanto il suo cappotto. Ci guarda un po’ stupito, ma la vera attrazione è lui. Olgiv è una piccola città in mezzo al nulla in cui non mancano né i ristoranti né gli alberghi. Un italiano incontrato per caso c’indica il ristorante turco Pamukkale dove tutto il gruppo riesce finalmente a gustare i ricchi piatti di carne arrostita accompagnati da montagne di patatine fritte. Hovd dista duecentocinquanta chilometri. Le caratteristiche della pista sono la larghezza abbondante e il tole-ondulèe molto alto e impegnativo. Per non distruggere tutto quello che sta ancorato sopra i “cavalli” e non far perdere le protesi dentarie ai “cavalieri” è necessario viaggiare ad una velocità di almeno ottanta chilometri orari. Non ci sono piloti professionisti nel gruppo, inutile rischiare di farsi male, ma dopo pochi chilometri i nostri “cavalieri” danno tutta manetta perché ad andature medie basse non sono in grado di tenere il manubrio con sicurezza. Hovd, a millecinquecento metri d’altitudine, a parte la temperatura mite, è la fotocopia della città precedente: all’entrata c’è una specie di casello autostradale dove le auto pagano il pedaggio e le moto no, poi quattro strade polverose, nonostante l’asfalto ormai sia presente in tutta la città, tre alberghi, due stazioni di rifornimento, un paio di locande e nulla più. Noi motociclette siamo ricoverate in un garage sotto chiave perché a detta del proprietario le strade di notte in città non sono sicure, Tawil e compagni invece, una cena frugale e a letto con le galline. Era nostra intenzione di partire all’alba, ma la chiave del garage è scomparsa e nessuno dell’albergo conosce dove si trovi. Dopo un’ora abbondante d’attesa arriva sulla sua BMW X5 nuova il proprietario un po’ scocciato per la sveglia fuori programma. Inutile spiegare in inglese ad un mongolo che la chiave del garage non si porta appesa al collo come la chiave della cintura di castità delle mogli nel medioevo. Per raggiungere Altay ci sono quattrocentocinquanta chilometri di pista e negli ultimi trecento non c’è niente. Abbandoniamo la terribile pista, più o meno a metà strada, in un luogo incantato. Colline verde smeraldo a perdita d’occhio, profumo di licheni e di fiori. E’ pazzesco attraversare un prato che non finisce mai. Ci accampiamo alle pendici di una collina. Tawil e compagni trovano “riparo” nelle tende un attimo prima che si scateni il finimondo. Ad Ovest il colore del cielo cambia colore in pochi secondi. Una marea di nuvole color marrone scuro c’investe spinta da un vento terribile. Ci mancava la tempesta mongola. Le tende si piegano, ma non si spezzano. Resistono solo grazie al peso dei “cavalieri” all’interno che le tiene ancorate al terreno. Il temporale è violento, ma dura poco. Un’ora e mezza dopo tutto il gruppo armeggia intorno ai fornelli per un’allegra cena purtroppo guastata da nuvole di zanzare assetate di sangue. Fa anche un freddo intenso, quindi a Tawil e compagni rimane solo l’opzione di infilarsi nei sacchi a pelo. La volta stellata è impressionante. Dopo la sveglia ci attende un cielo color piombo. Le nuvole sono così scure da far pensare al peggio, ma è solo la nostra impressione. Si alza anche un vento gelido. Per fortuna la pista sempre più ondulata, tiene la mente di Tawil occupata e concentrata. In mezzo al nulla si materializza una specie di locanda che serve zuppe bollenti, un vero nettare per le pance congelate del gruppo. Raggiungiamo Altay. La città è sicuramente la migliore incontrata fino ad oggi. L’albergo accogliente offre camere doppie, pulite, con bagno e doccia bollente. Incontriamo i nostri amici del Mongol Rally. Le auto incominciano a perdere i pezzi. Alcune hanno subito guasti gravi come la rottura del cambio o devastanti amputazioni come il Fiat Marea di un equipaggio portoghese che dopo la rottura del radiatore, trainata da un mezzo pesante, ha perso parte di un longherone anteriore strappato dalla potenza del camion. Il morale di questi ragazzi rimane in ogni caso molto alto. Per tutti loro è un’esperienza unica ed elettrizzante e si vede. Bayanhongor, la prossima città, è a più di quattrocento chilometri di distanza. Il cielo è limpido e l’erba, grazie alle piogge, più verde del solito. Sono più di due ore che Alessandro e Tawil non incontrano il resto del gruppo. Sono entrambi convinti che Gianni e Barbara, che qualche ora fa, inseguivano con la loro KTM una mandria di cammelli, fossero davanti in compagnia del catramone russo che trasporta i bagagli. Decidono di portarsi avanti. Finora non abbiamo mai viaggiato a vista. Chi è avanti ogni tanto fa una sosta e aspetta che arrivino gli altri. Dopo centosettanta chilometri di fuga in una fantastica zona desertica i due centauri comprendono che qualcosa non quadra. Noi abbiamo seguito la traccia sul GPS che ci ha condotto su una pista sabbiosa a Sud, mentre gli altri potrebbero avere seguito la più diretta pista rossa a Nord. Tutte e due le piste conducono a Bayanhongor, ma s’incrociano solo a destinazione. Abbiamo anche il problema della benzina. Io grazie ai consumi contenuti e alla tanica da cinque litri di scorta che ho nella borsa d’alluminio fin dall’Italia, non ho problemi per arrivare a destinazione. La gloriosa Africa Twin invece no. Tutto il mondo sembra essersi incontrato in questo posto dimenticato da Dio. Il motivo? Un vecchio cartello che indica una fantomatica ed inesistente stazione di servizio, una decina di gher per un eventuale pernottamento e un guado che blocca il passaggio. Abbiamo solo due possibilità: dormire in una jurta nella speranza di essere raggiunti dagli altri oppure proseguire. Da una rapida occhiata alle gher, comprendiamo che sarebbe una bell’esperienza dormire con una famiglia mongola tutti insieme appassionatamente stesi sugli affollati letti sotto le penzolanti carcasse delle capre macellate di fresco. Il destino decide per noi in due mosse. La prima: arriva un vecchio catramone russo carico d’umanità e guidato da un mongolo. L’uomo, che parla un ottimo inglese, gentilmente ci concede dieci litri di benzina. La seconda: un indigeno immerso fino al ginocchio nelle acque del fiume si presta ad indicarci la giusta direzione per non finire a mollo. Andiamo avanti. Bayanhongor è raggiunta un’ora dopo il tramonto, pochi minuti prima che le buche fetenti della pista scomparissero dalla nostra vista. Una bella fortuna! Troviamo una camera in un albergo gestito da due giovani ragazze. L’hotel è provvisto anche di un ristorante e dell’immancabile karaoke. Non avremo notizie dei nostri amici fino al mezzogiorno seguente. Il catramone russo lanciato a tutta velocità aveva “perso” una delle ruote anteriori rischiando il ribaltamento e le riparazioni avevano preso più di quattro ore. Di conseguenza il gruppetto aveva passato la notte in una delle jurte vicino al guado. Radio Mongol Rally dà la tappa di oggi, da Bayanhongor ad Arvayheer, come l’ultimo tratto sterrato. Finora ho retto benissimo tutte le asperità di queste piste, me la sono cavata molto bene sullo sterrato grazie al mio telaio robusto, le ottime sospensioni e la ruota anteriore da 21 pollici. I consumi? Da record, quasi venticinque chilometri con un litro di benzina. A trenta chilometri da Arvayheer la solita pistaccia ondulata si trasforma, complice una fitta pioggia, in un vellutato manto stradale d’asfalto. Dopo le abbondanti piogge notturne lasciamo Arvayheer sotto un pallido sole. Usciamo dalla città dandoci appuntamento al bivio per l’antica città di Karakorum. Questo importante sito è raggiungibile seguendo la comoda strada asfaltata lunga più di duecento chilometri, oppure deviando su una pista sterrata più corta d’ottanta chilometri. Le moto seguiranno la pista breve, mentre il vecchio Uaz, la strada asfaltata. Lo sterrato all’inizio sembra buono. Un po’ di fango nei primi chilometri, poi sabbia. Gianni con la sua KTM guida il gruppo, seguito da Alessandro, mentre io faccio da fanalino di coda. I due centauri che mi precedono stanno accecando Tawil con le tonnellate di polvere che stanno alzando. Decidiamo di seguire una pista parallela, con la convinzione che in Mongolia tutte le piste alla fine si rincontrano. La distanza tra le due vie, stando alle indicazioni del mio GPS, non supera mai i cinquecento metri e, anche quando lo sterrato incomincia ad arrampicarsi sulle maestose colline e i nostri compagni di viaggio scompaiono alla nostra vista, non c’è da preoccuparsi. Dopo una quindicina di chilometri però la distanza tra le due piste si allarga a tre chilometri. Incominciamo a pensare di essere sulla pista sbagliata. Dal nulla sbuca provvidenzialmente un motociclista mongolo. “Karakorum” esclama Tawil indicando la strada. “Hujirt” scuotendo la testa risponde il mongolo. Scartata a priori la possibilità di tornare indietro possiamo solo seguire questa pista per altri quaranta chilometri fino a Hujirt e poi proseguire per Karakorum e ricongiungerci con gli altri. Ci rimane solo un dubbio: gli altri, sulla pista buona, non vedendoci si fermeranno ad aspettarci? Se si fermassero, visto che sono su un’altra pista, rischierebbero di aspettarci per tutta la vita. A questo punto Tawil segue il suo istinto: tagliamo per i prati! La Mongolia finora non ci ha mai tradito. Percorriamo appena qualche centinaio di metri. Tawil spegne il motore e si guarda attorno. Solo silenzio. La pista appena lasciata, che sta sicuramente lì, complice l’ondulazione del terreno e il manto erboso che ci circonda, è scomparsa. Nel mare verde ci sono solo due jurte bianche che sembrano due uova depositate da un gigantesco uccello e decine di colline che si rincorrono all’infinito sotto l’azzurro cielo. Ci dirigiamo verso le jurte. Due cagnacci di grossa taglia, vedendoci arrivare, partono di gran carriera e si dirigono minacciosi verso i polpacci di Tawil. Cento metri, cinquanta, trenta, venti, dieci, un attimo prima di saltargli addosso, un lungo fischio li ferma. Continuiamo il nostro tragitto deviando a destra delle jurte, dove l’erba è bassa. Tawil alza il braccio in segno di saluto e ringraziamento. Mancano duemila metri alla pista, ma davanti a noi solo prati, colline e il cielo. Il terreno s’infossa di qualche metro, evitiamo un ruscello. Tawil ha solo un pensiero fisso: evitare di impantanarsi! Andiamo avanti ancora un chilometro, non cambia nulla. Avanti altri cinquecento metri. La pista per Karakorum, secondo lo strumento tecnologico inchiodato sul mio manubrio, dista meno di quattrocento metri, ma non si vede. Siamo davanti a due colline, possiamo solo passare nel mezzo. L’erba ora è alta più di un palmo. Arranchiamo. Tawil apre un filo di gas in più per raggiungere un provvidenziale spiazzo spelacchiato e sicuro. Non ha nemmeno il tempo di pensare. L’avantreno diventa pesante, la ruota anteriore s’impunta. Sprofondo! Sono immersa nel fango fino alle borse d’alluminio. Il Mio Compagno prova a dare gas, tanto gas, tutto gas, senza ottenere nessun risultato. Scende, il fango nero e puzzolente inghiotte completamente i suoi stivali. Abbiamo bisogno d’aiuto. L’unica certezza sono i mongoli delle due jurte. Tawil s’incammina. Dopo mezzora arriva a trecento metri dal “villaggio”. I due molossi lo vedono, ripartono pancia a terra. Solito fischio. Si fermano e gli girano intorno scodinzolando. I due uomini di casa gli vengono incontro. Se fossimo in Inghilterra potrebbe dire: “Motorcycle lie down in the deep mud, can you help me?” ma in Mongolia si accontenta solo di mimare una moto che sprofonda nella melma, aggiungendo “Brum, Brum, Brum”. I due sorridono, ma hanno sicuramente capito tutto. Arriva anche una donna, che dopo un rapido sguardo alla faccia grondante di sudore di Tawil, lo invita nella jurta. Il Mio Compagno fa finta di togliersi gli stivali infangati, ma comprendo dall’espressione dei tre che va bene così. Lo fanno accomodare sulla sedia buona e gli offrono una grossa ciotola di latte. Il latte fermentato di giumenta abbondantemente salato non gli è mai piaciuto, ma per onorare l’ospitalità di questa gente straordinaria non ha scelta, lo deve bere tutto. Dopo una decina di minuti d’amabili gesti ricambiati da altrettante gestualità si alza, ringrazia con un inchino e la mano sul cuore ed esclama: “Brum, Brum”. I due mongoli sembrano divertirsi un sacco seguendo la traccia lasciata sull’erba dalla mia gomma con il loro camion e quando Tawil cerca di metterli in guardia sulla presenza del fango lo guardano dritto negli occhi come per dire: “Che fai vuoi insegnare ad un mongolo la strada da seguire in Mongolia?” Infatti pochi metri prima della zona a rischio deviano a destra, fanno un largo giro e sbucano davanti a me. Provano a sollevarmi di peso, ma invano. A questo punto mi coricano su un fianco, poi di peso mi spostano di un metro prima il davanti, poi il posteriore. Dopo avermi rimessa in piedi grazie a due cinghie mi trascinano in avanti per cinque sei metri ed il gioco è fatto. Tawil ringrazia con il solito inchino, poi mette mano al portafogli. Ha solo banconote da 5000 Tughrik, vale a dire l’equivalente di tre dollari. Il primo mongolo rimane impietrito dalla sua generosa offerta, il secondo ci ride sopra. Guardiamo con gran riconoscenza il primo, di bassa statura, che sta davanti a me. Tawil d’istinto lo abbraccia e lo alza di peso stringendolo forte a sé. Pochi secondi, ripartiamo. Il piccoletto ci guarda con gli occhi lucidi e qualche lacrima bagna il suo volto. Comprendiamo solo che la pista per Karakorum è a sinistra, ma dobbiamo andare a destra se non vogliamo sprofondare un’altra volta nella melma. Avanziamo lentamente. Di tanto in tanto Tawil rivolge lo sguardo verso i due amici mongoli che stanno sempre là, poi una collina ci divide. Seguendo le preziose indicazioni finalmente troviamo due tracce ben marcate sul terreno, poi poco più avanti la tanto agognata pista per Karakorum. Percorriamo una ventina di chilometri e ritroviamo Gianni e Alessandro alle prese con un guado. Alessandro è sprofondato fino a mezza ruota, ma grazie all’aiuto di Gianni e Barbara ormai è fuori dai guai. Andiamo avanti ancora pochi chilometri, poi lo sterrato finisce su un nero manto d’asfalto. Karakorum, costruita nel 1220, fu l’antica capitale dell’impero Mongolo di Genghis Khan e ne costituiva il centro politico, culturale ed economico. E’ da qui, infatti, che partirono le orde mongole alla volta dei quattro angoli della terra, in un’arrestabile ed invincibile sete di conquista. Karakorum si trova nella valle del fiume Orkhon, all’incrocio delle strade della Via della Seta che collegava l’Oriente con l’Occidente. La città fu distrutta nel 1388 dall’esercito cinese della dinastia Ming ed oggi sono visibili solo affascinanti rovine evocative della leggendaria capitale.
Tra i monumenti più rilevanti il Monastero Erdene Zuu (“cento tesori”). E’ il più antico monastero buddista del Paese, con funzione anche di fortezza. Contava inizialmente da 60 a 100 templi, trecento gher e poteva ospitare fino a cento monaci. Oggi se ne possono ammirare i tre templi superstiti, circondati da una possente cinta muraria e dedicata alle tre fasi della vita del Buddha (l’infanzia, l’adolescenza e la maturità) e la preziosa collezione d’opere d’arte, con lavori di importanti artisti del Buddismo.
Da Karokorum ad Ulaanbaatar la strada è completamente asfaltata. E’ l’ultima tappa. La Mongolia rimane un paese che disorienta il viaggiatore con i suoi enormi spazi e la quasi totale mancanza d’esseri umani. Esseri umani veri, i mongoli hanno un grande attaccamento per la loro terra, sono ospitali, gentili e mai invadenti. I veri mongoli sono i nomadi che vivono nelle loro bianche gher tra le nude montagne, le pianure sconfinate e gli aridi deserti arroventati dal sole estivo e dal freddo polare d’inverno. Per niente al mondo rinuncerebbero ai ritmi dolci della natura.
La Mongolia è straordinaria, anche se un po’ inquietante, soprattutto nei primi giorni. Questo paese riesce a dare un taglio netto al viaggio. Una volta entrato in Mongolia vivi solo di Mongolia. Il resto del viaggio sembra appartenere ad un percorso di parecchi anni prima. La bellezza superba della natura ha il dono di inghiottire le ansie che inevitabilmente gli esseri umani si portano dentro e di esaltare le emozioni. La moto avvicina a questo popolo. I Nostri Cavalieri hanno molto in comune con i mongoli. Sono nomadi, amano il vento sulla faccia, i grandi spazi e hanno una vera e propria venerazione per le loro amate cavalcature. I guerrieri mongoli che conquistarono mezzo mondo oggi sono nomadi gentili. I motociclisti invadono il mondo in sella alle loro amate cavalcature indossando tecnologiche armature, elmi non più d’acciaio, guanti e stivali. Al posto dell’arco hanno le macchine fotografiche e le loro frecce sono scatti fotografici.
Un lungo rettilineo ci porta in cima ad un promontorio, poi una serie di curve finché la strada sembra finire inghiottita, come la campagna circostante, da una specie di casello autostradale che conduce verso un altro mondo. La capitale mongola deve il suo nome “Eroe Rosso” alla rivoluzione comunista che mise fine alla dominazione cinese. Oggi la Mongolia è stretta tra i due “Rossi” giganti di Cina e Russia. Rosso fuoco è anche la scritta a caratteri cubitali che ci accoglie alla fine del nostro viaggio: Ulaanbaatar!
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