Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 224 – Ottobre 2014
In viaggio verso Est
Tutti gli esseri umani di questo pianeta sognano di fare qualcosa di speciale nella vita. Il sogno più grande è quello di realizzare il giro del mondo.
E’ un desiderio conficcato nel nostro DNA fin dalla notte dei tempi. In alcuni si manifesta, mentre in altri se ne sta nascosto aspettando il momento propizio per saltare fuori. Ci appartiene per il legame forte che ognuno di noi ha con la Terra, che rinnova ogni giorno il miracolo di tenerci in vita.
Organizzare il giro del mondo in moto non è difficile, non siamo più ai tempi di Marco Polo e Cristoforo Colombo. Oggi abbiamo mappe dettagliate e strumenti sofisticati come i GPS
Per un’eventuale partenza dall’Italia non ci sono tante possibilità. Ad Ovest e a Nord siamo circondati dal mare. Ci sono solo due vie. La prima, scendere attraverso i Balcani, Turchia, Siria, Giordania, Egitto verso l’Africa. Una bella partenza, ma assai complicata, perché l’Africa è un gradino troppo alto per chi vuole iniziare il giro del mondo.
Molto più “semplice” puntare verso Est, verso l’Asia, verso un paese che, nel bene o nel male, cambierà per sempre il nostro modo di vedere le cose, l’India. Dopo l’India, visto che la Birmania è ancora chiusa al transito di mezzi privati, dovremo puntare verso il Nepal. Poi proseguire attraverso Tibet, Yunnan, Laos, Tailandia, Malesia e Indonesia. Da lì potremmo raggiungere con una nave Australia, Nuova Zelanda, poi di nuovo in nave verso Santiago del Cile, giù in Patagonia fino alla Fine del Mondo, per poi risalire tutto il continente Americano, Cile, Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Panama, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, Messico, Stati Uniti, Canada, Alaska. Un viaggio relativamente facile.
Dall’Alaska potremmo attraversare il Canada fino a raggiungere la costa Atlantica, poi ancora verso Sud negli Stati Uniti fino in Florida, poi, per non farci mancare niente, potremmo imbarcarci su una nave fino ad un porto del Venezuela, raggiungere il Brasile, perché prima l’avevamo saltato ed un giro del mondo senza visitare Brasile e l’Argentina, che giro del mondo sarebbe? Già che ci siamo visitiamo anche Uruguay e Paraguay.
Da Buenos Aires potremmo raggiungere in nave il Sud Africa. Ora siamo pronti ad affrontare l’Africa. Il viaggio avrà segnato il nostro fisico e ancora di più avrà stimolato e modificato il nostro lato interiore. Una volata verso Nord attraversando tutta l’Africa, Namibia, Botswana, Zambia, Tanzania, Kenya, Etiopia, Sudan, Egitto, poi, verso il vecchio continente, guerre permettendo, a casa.
Per fare un giro del mondo di questo tipo ci vorrebbero almeno 30 / 36 mesi, come per produrre un buon Parmigiano Reggiano.
L’idea di partire per un eventuale giro del mondo ha sempre accompagnato la mia esistenza, ma è penetrata profondamente nei miei pensieri durante l’inverno del 2011. E’ stato allora che io ed il mio amico Gianni Fornara abbiamo pensato che avremmo anche potuto organizzare un nostro Giro del Mondo. Un giro del mondo a tappe. Noi avremmo viaggiato come sempre durante le vacanze estive e natalizie, mentre le nostre moto ci avrebbero aspettato alla fine di ogni tappa.
Per questo tipo di viaggio abbiamo volutamente scelto delle moto vetuste. Anziane, sì, ma molto affidabili. Gianni ha preparato la sua Ktm LC4 del 2003, fedele compagna negli ultimi viaggi. Io ho acquistato la migliore Due Ruote mai costruita nella storia dell’umanità, una Honda Africa Twin RD 07 del 1993, mentre Bibo e Antonio, due compagni di viaggio ormai consolidati da tempo, si sono aggiunti al gruppo con due mitiche Honda Transalp, una del 1988 e una del 1999.
La prima tappa del viaggio?
Dall’Italia a New Delhi.
Partiamo il 21 luglio 2012, un sabato mattina nuvoloso che, a parte un’afa insopportabile, non promette niente di buono. Siamo in quattro. Appuntamento al casello di Bergamo, sulla Milano – Venezia.
Attualmente non ci sono tante strade per raggiungere l’India. La via dei Figli dei Fiori, quella che alla fine degli anni sessanta attraversava l’Iran e l’Afghanistan, è ancora interrotta. L’invasione sovietica, che risale al periodo dal 1979 al 1989, è ormai lontana, ma la situazione afgana non è certo migliorata. Anche il Baluchistan, la regione nel Sud del Pakistan che confina con l’Iran, ci è stata sconsigliata per motivi di sicurezza.
Rimane un unica via. La nostra.
A Rovato, prima di Brescia, alla prima sosta caffè, Antonio scopre di avere una gomma a terra mentre siamo davanti ad un gommista. Più fortunati di così non si può!
Superiamo il confine sloveno. Nella patria dei krapfen, che ci accoglie con freddo e pioggia, sembra già arrivato l’inverno. Troviamo riparo a Trojane, in un grazioso chalet di montagna. Nel villaggio impazza una festa gastronomica dove spicca su tutto e tutti il “trojanski”, un’enorme e gustoso bombolone alla crema.
Il sole ci accompagna fino a Budapest. Arriviamo nella capitale ungherese, allegra ed elegante, giusto in tempo per una cena luculliana in un ristorante di classe. Il cibo è di alto livello e il vino, una bottiglia di Tokaj Aszù, il famoso muffato ungherese, eccellente.
Entriamo in Ucraina. Evitiamo Leopoli e Kiev, le due città più belle, per scelta, perché l’India è lontana e il tempo tiranno. Rimangono solo duemila chilometri di rettilinei noiosi, qualche poliziotto in agguato e le stangone alte due metri in minigonna. Dopo due giorni raggiungiamo Antracity, una polverosa città di confine, poi una volata attraverso la Calmucchia, l’enclave tibetana in Russia, fino ad Astrakhan. In questa cittadina, dove d’estate c’è sempre schierata l’intera flotta russa del Mar Caspio, ci concediamo un po’ di relax passeggiando lungo il romantico argine del fiume Volga tra navi che dondolano pigramente alla fonda illuminate dalla luna e lo struscio di giovani ragazze dalla bellezza imbarazzante.
Lasciamo Astrakhan e l’Europa attraverso un ponte di barche galleggianti che collega il vecchio continente all’Asia. Ci aspetta l’enorme Kazakistan con le sue steppe desertiche e il caldo, quello vero. Arriviamo ad Atyrau giusto in tempo per una grigliata di carne di montone, una montagna di patate fritte e tanta, tantissima coca cola ghiacciata. Siamo vicini al Mar Caspio, ma del grande lago salato non si vede nemmeno l’ombra. Lo sfioriamo, gli giriamo intorno, scendiamo verso l’Uzbekistan, lungo una strada che fino a qualche anno fa era un inferno, tanto era malandata, mentre oggi è levigata come un biliardo. Prima della dogana uzbeka ci attende un breve quanto polveroso ed insidioso sterrato. La pioggia da queste parti è una rarità.
Dopo la frontiera, a soli quindici chilometri di distanza c’è una locanda. La sosta è d’obbligo perché davanti a noi non c’è altro che l’ infuocato deserto del Nukus, vale a dire trecento chilometri di invivibile nulla. “L’autogrill” molto spartano è gestito da una graziosa fanciulla dagli occhi a mandarla. Gli ospiti sono quasi esclusivamente camionisti di passaggio che innaffiano la cena con quantitativi industriali di birra gelata. Tutti quelli, che dopo aver bevuto e cantato a squarciagola fino a tarda notte i cori dell’armata rossa, crollano sul pavimento in coma profondo, possono dormire nel locale. Gli altri, i pochi sobri, quelli che ancora camminano, hanno a disposizione per la notte un torrido locale nel retro. Si dorme, vale a dire si cerca di dormire, sdraiati a terra su un vissuto materasso. Di tanto in tanto viene a farci visita un tizio. E’ un giovane russo di bassa statura, sempre lo stesso individuo, con il cervello e la vista annebbiati dall’alcol, che cerca qualcosa o qualcuno che esiste solo nella sua fantasia.
Di dormire non se ne parla, ma c’è molto tempo per riflettere:
Siamo motociclisti perché amiamo viaggiare in moto. La moto per noi non è solo un mezzo di trasporto è una compagna di viaggio. Andare in giro per il mondo in moto è fatica.
9, 7, 9, 13, 11, 8, 7, 10, non sono i numeri del Superenalotto sono le ore che abbiamo passato in sella ogni giorno. Ore comprensive delle brevi soste per mangiare, andare in bagno, bere e fumare una sigaretta, solo che nessuno di noi fuma. Abbiamo la barba lunga, il naso arrostito dal sole e la giacca sbiadita dal tempo. Viaggiamo solo con 4 t-shirt lise perché le laviamo ogni giorno, calzini bucati, slip a brandelli per l’usura del fondo schiena contro la sella.
Viaggiamo senza sponsor perché i media non nutrono interesse nei nostri confronti. Non scriviamo libri in viaggio perché non abbiamo tempo, al massimo prendiamo appunti e i libri li scriviamo a casa perché le emozioni di un viaggio sono così forti che apparterranno per sempre alla nostra memoria.
Noi motociclisti siamo un incrocio tra gli antichi cavalieri e i primi aviatori, quelli che volavano esposti ad ogni sorta di intemperie protetti solo da un giubbotto, un casco in pelle e un paio d’occhiali.
Noi motociclisti abbiamo scelto di accarezzare il pianeta solo con un paio di millimetri delle nostre coperture. Viaggiamo sereni osservando i cambiamenti del mondo e abbiamo ogni giorno una conferma che su questo pianeta i miracoli esistono e che nell’universo niente va sprecato. Noi motociclisti facciamo parte di un grande progetto che ancora non comprendiamo, sopra di noi c’è solo il cielo a volte sereno, oppure grigio e carico di pioggia, ventoso, glaciale o stellato e sopra ogni cosa c’è, per chi ci crede, Dio con la sua lunga barba bianca che tutto osserva e che ci sorride compiaciuto.
Questo viaggio per me è speciale. Ho un Angelo biondo che mi accompagna. Ci siamo conosciuti tanti anni fa, ma ci frequentiamo solo da pochi giorni. Silvia mi scrive tutti i giorni, più volte al giorno. I nostri sms, che hanno poco di “short”, di corto, sono molto intensi e non finiscono mai di sorprendermi. Ogni volta un regalo. E’ come se facessi due viaggi, il primo bellissimo in motocicletta con i miei amici e l’altro straordinario con Lei, così presente, sempre.
Ripartiamo più stanchi di quando siamo andati a letto. Il nostro “amico” russo, dopo aver vagato nella nostra camera per tutta la notte, dorme profondamente nella sua auto. La voglia di ribaltarlo è grande, ma la sua faccia da profugo lontano dalla Grande Madre Patria Russia ci commuove e lo abbandoniamo al proprio destino.
Khiva era un’oasi sull’antica Via della Seta. Cercheremo di raggiungerla prima del tramonto. Ci arriviamo dopo una cavalcata di tredici ore. Un miraggio rilassarsi al fresco, stesi sui materassi ricamati, nelle locande di questa città.
Mi ricordo molto bene la prima volta che l’ho visitata. Ero appena arrivato, in moto, stanco morto. Era sera, non notte, vale a dire quando è buio ma non è ancora tenebra. Nella mia camera d’albergo. La finestra aperta. Una musica lontana. Una strana musica. Incuriosito uscii e m’infilai tra i dedali della città vecchia. In poco più di mezz’ora girai tutta la cittadella. Khiva non è grande. Le poche persone incontrate sembravano neri fantasmi, ombre nell’oscurità. Non trovai da dove provenisse la musica, anche se la musica era reale. Ho sempre pensato che questa città mi avesse attirato dentro di sé con l’escamotage della musica.
Da quella notte per me questa città è magica.
Dopo due giorni di pausa rientriamo nel caldo torrido. Quattrocento chilometri di strada orribile, in parte sommersa dalla sabbia del deserto, ci conducono fino a all’affascinate città storica di Bukhara. Pernottiamo in un albergo del centro circondato da moschee, madrase e dall’imponente minareto Kalon, il più alto dell’Asia.
Samarcanda dista solo trecento chilometri. Visitiamo il Registan, uno dei complessi più affascinati dell’Asia Centrale, con le sue tre magnifiche madrase che ne delimitano il perimetro.
Lasciamo l’Uzbekistan con le sue pianure torride e polverose, per puntare su Dushambe, la capitale tagika, dove ci aspetta Barbara, la compagna di Gianni. Tutti insieme cercheremo di raggiungere il Pamir.
Le forze dell’ordine di Dushambe confermano le notizie che avevamo raccolto in internet nei giorni precedenti. Le strade che conducono verso il Pamir sono chiuse. Decidiamo di non percorrere la statale più agevole che segue il confine afgano optando per un’altra strada, una pista magnifica poco battuta incastonata tra montagne selvagge, con la speranza che i militari non ci blocchino. Lungo la via incontriamo numerosi posti di blocco. Tutti i militari raccontano la stessa storia, vale a dire che il Pamir è chiuso, ma ci lasciano passare. Arriviamo a pochi chilometri dalla città di Kalaikum, la porta del Pamir, dove invece il blocco è senza speranza. Nelle vicinanze di Khorog, una cittadina alle pendici del Pamir, alcuni terroristi hanno fatto un’incursione uccidendo alcune persone. Per questo motivo la strada da alcuni giorni è interdetta agli stranieri.
Rientriamo per dirigerci verso gli altopiani del Kirghizistan. Raggiungiamo i 3600 metri di Sary Tash ammantata da una coltre di minacciose nuvole grigie. Visitai per la prima volta questo villaggio nel 2004. Ero diretto in Tibet con un folto gruppo di motociclisti. Arrivammo di notte infreddoliti e affamati. Due famiglie ci accolsero e ci diedero ospitalità nelle loro case. Sono i ricordi più belli dei viaggi. Scattai alcune foto di una bambina che avevo tenuto sulle ginocchia per tutta la cena. Allora aveva quattro anni. Oggi è un po’ cresciuta, la sua famiglia gestisce ancora l’unico negozio alimentare di Sary Tash, il suo sorriso è sempre lo stesso.
La forzata rinuncia al Pamir e la bocciatura da parte dell’agenzia cinese che ci aveva venduto i servizi per l’assistenza nel Celeste Impero, di anticipare il nostro ingresso in Cina, ci ha regalato una settimana in più da spendere in questo meraviglioso paese.
Ci attrae molto il Nord del Kirghizistan.
Dopo aver abbandonato la bella strada asfaltata che conduce verso Osh, ci infiliamo, seguendo piste secondarie bellissime, tra le montagne, in direzione di Naryn. Non ci sono alberghi da queste parti, ma è sufficiente chiedere in giro per essere ospitati in un’abitazione privata. In un minuscolo villaggio incontriamo un uomo con un viso simpatico e una folta barba grigia. Dormiremo sui tappeti del salotto buono di casa sua. La cena è in famiglia. C’è solo latte, yogurt, pane e una zuppa bollente, poi tutti a dormire. Qui si va a letto con le galline. E’ il capofamiglia che spegne la luce e ci augura una buona notte.
Dopo esserci lasciati alle spalle il piccolo villaggio, saliamo di quota, attraverso uno scenario naturale fantastico. La pista ghiaiosa che scorre in una valle coltivata punteggiata da alberi rigogliosi è circondata da montagne sempre più brulle e rocciose. Raggiungiamo i tremilacinquecento metri. Siamo immersi nei pascoli di montagna, tra sinuose colline verde smeraldo e le acque cristalline del lago Son Kul. Dormiremo in una Yurta vista lago, ospiti di una famiglia kirghisa. Una notte glaciale. Freddo sì, ma che meraviglia.
Dopo due giorni di relax ritorniamo verso Sary Tash e il vicino confine cinese. A una decina di chilometri dalla dogana c’è una piccola comunità, un’altra nostra vecchia conoscenza. Nel 2004, dopo che un nostro mezzo in appoggio precipitò in un burrone con tutti i bagagli, fummo costretti ad una sosta forzata a Nura. Dormii con altri quattro compagni nella camera di una donna, che si trasferì in cucina per tre notti con i suoi due figli Nurgia e Askar. Ho ancora un bellissimo ricordo di quelle notti sdraiato sui tappeti del pavimento di quella piccola casa in mattoni e travi di legno. Nura aveva un migliaio di abitanti. C’erano tanti bambini. Ora quel villaggio non esiste più. Ci sono tante piccole case, tutte uguali, con il tetto azzurro adagiate e ordinate una dietro l’altra. Il vecchio villaggio è stato completamente distrutto dal terremoto del 2008. Quasi 100 morti, 50 i bambini. Anche Askar. Con lui e sua sorella Nurgia avevo giocato a pallone. Askar è rimasto sotto le macerie. Adesso riposa nel nuovo cimitero all’ingresso del paese, dove ci sono le lapidi con i nomi di tutti. C’è anche il suo. Nel centro del cimitero c’è un monumento in pietra, una donna alta come un gigante volge lo sguardo verso il cielo, disperata. Sembra che parli con Dio.
Nurgia e la mamma si sono salvate e si sono trasferite a Biskek. Passiamo la notte a Nura. Una notte fitta di pensieri e di ricordi.
Entriamo in Cina mentre nelle strade si festeggia la fine del Ramadan. Nello Xinjiang la maggior parte della popolazione è musulmana. Kashgar rispetto a otto anni fa è quasi irriconoscibile. In centro le belle case in mattoni stanno scomparendo per fare posto ad anonimi grattacieli. Il nostro albergo, che è sporco, puzzolente e cade a pezzi, verrà abbattuto prima della fine dell’anno per far posto ad un’altro edificio più alto e più bello. Ci lasciamo alle spalle la caotica e brutta Kashgar, per salire verso la purezza del Lago Karakul, incastonato come un diamante ai piedi del gigantesco Muztagata, la seconda vetta più alta del Pamir, con i suoi 7546 metri di altezza, coperto di neve.
Entriamo in Pakistan. La via di accesso si raggiunge solo dopo avere scalato i 4580 metri del Kunjerab Pass. In cima i militari controllano in fretta i nostri passaporti. Fa troppo freddo. Ripartiamo. La dogana vera è più in basso, dopo sessanta chilometri, a Sust. Stiamo percorrendo la Karakorum Highway, una strada incredibile, lunga più di mille chilometri, che collega la capitale pakistana Islamabad alla Cina, costruita e voluta dai governi dei due paesi. Nel 2000 era una bella strada asfaltata. L’avevo percorsa in tutte due i sensi con la mia KTM e mi ricordo molto bene delle code pazzesche dei camion carichi di ogni mercanzia che faticavo a superare. Nel 2008 una frana gigantesca ha bloccato la valle ad ottanta chilometri dal confine cinese. Con la frana si è formato un lago lungo ventitré chilometri. L’unica strada, la Karakorum Highway, è finita sott’acqua. Da allora, solo le auto e le moto possono passare sulle chiatte di fortuna, che il governo ha messo a disposizione, mentre il traffico pesante è bloccato da quattro anni.
Arrivati al lago, dopo una breve trattativa sul prezzo da pagare, imbarchiamo le nostre moto ed attraversiamo in poco più di due ore lo stretto e lungo lago turchese. Dopo lo sbarco ci attende una ripida e polverosa salita, poi giù fino al pertugio che si è scavato il fiume sotterraneo sotto la frana che esplode in un vortice di acque spumeggianti. Raggiungiamo la Valle Hunza, uno dei luoghi più belli di tutto il Pakistan. La valle è famosa per le succulente albicocche che maturano in alta quota e per i suoi abitanti che grazie al clima favorevole raggiungono agevolmente i cento anni di età. Duikar, un piccolo villaggio che svetta sulla valle, è un vero paradiso. Anche l’albergo, da cui si gode una vista mozzafiato, è meraviglioso.
Riprendiamo il viaggio verso Gilgit, una città importante, in posizione strategica tra il Nord e il Sud del paese. Purtroppo il grosso centro è sotto un severo coprifuoco imposto dell’esercito pakistano. Un gruppo di terroristi, qualche giorno fa, a pochi chilometri di distanza, dopo aver assaltato un autobus e aver fatto scendere i passeggeri, hanno barbaramente ucciso tutti gli sciiti. Ventidue morti.
Nel mondo islamico Sciiti e Sunniti non vanno per niente d’accordo.
In Pakistan i Sunniti, che sono maggioranza, seguono la tradizionale religione Islamica, il Corano, le parole e la vita del Profeta Maometto, mentre gli sciiti, in minoranza, si sono staccati ed hanno identificato in Alì, cugino e genero del Profeta, il successore.
Ci lasciamo alle spalle Gilgit e i suoi posti di blocco per deviare verso la stretta valle dell’Indo, che conduce dopo centottanta chilometri di curve e incredibili strapiombi, a Skardu.
Skardu non offre granché, ma rappresenta il punto di partenza per tutte le spedizioni verso il K2 e le alte cime Himalayane. Nell’albergo governativo che ci ospita c’è anche un museo dedicato ai grandi scalatori italiani Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, che hanno raggiunto la cima della montagna nel 1954 e di quelli non meno grandi che hanno dato un aiuto determinante alla scalata, come Walter Bonatti e Ardito Desio.
Per raggiungere di nuovo la Karakorum Highway senza ripassare dalla stessa strada, puntiamo verso Astore. La pista, man mano che saliamo verso i 4200 metri dell’altopiano, diventa sempre più difficoltosa. E’ un percorso più adatto ai veicoli 4×4 che alle le nostre motociclette. Lungo il tragitto superiamo a fatica un ponte pericolante e un tratto di strada in costruzione, ma dopo molta apprensione e un ottimo pasto caldo a base di carne di montone, raggiungiamo il nostro albergo. La fatica di questa tappa viene ampiamente ricompensata dalla bellezza di questo angolo di Pakistan. Un luogo molto simile alle nostre Alpi se non per il fatto di essere poco abitato e molto selvaggio.
Una bella strada, che gira intorno al Nanga Parbat, ci riporta a valle, dove ritroviamo la Karakorum Highway che conduce verso Islamabad. Al primo posto di blocco ci viene assegnata una scorta militare. Viaggeremo con un convoglio armato. Sui monti l’esercito sta braccando i terroristi che hanno compiuto la strage degli sciiti. L’unico pericolo è che qualche fuggiasco scenda nello stesso istante in cui passiamo noi. Una possibilità remota, quasi impossibile. Verso sera, dopo un’intera giornata in compagnia dei militari, finalmente, veniamo abbandonati al nostro destino. Siamo esausti. Un’intera giornata passata guidando a velocità ridotta imposta dalla nostra scorta ci ha letteralmente sfiancato. Bibo, un grande ed esperto motociclista, guida il gruppo. Il sole sta tramontando mentre affronta una curva a gomito. Accecato sbaglia completamente la traiettoria, mentre dall’altra parte arriva un grosso furgone. Lo scontro, nonostante la bravura del driver pakistano che tenta in ogni moto di evitare il centauro, è tremendo. Un frontale terribile. La moto batte violentemente e si accartoccia distrutta. Bibo vola in alto nel cielo, come se volesse andare direttamente in Paradiso, senza neanche salutare gli amici. Sono attimi eterni. Un volo pazzesco, che finisce rovinosamente, per la nota legge della gravità, con un’atterraggio violento di testa sull’asfalto. Bibo resta a terra, immobile e privo di sensi.
Molta paura, ma per fortuna niente di grave. Il centauro si rialza intontito e un po’ pesto. Arriva la polizia e scopre che l’autista pakistano non ha i permessi necessari per il trasporto merci. Solo dopo il nostro intervento, se Bibo è ancora vivo lo deve a questo signore, lo lasciano andare in pace. Ci salutiamo con un abbraccio tra molta commozione e qualche lacrima. La moto viene caricata sul primo furgone che passa in direzione di Islamabad. Questo paese avrà anche tanti problemi, ma i pakistani sono il davvero il massimo auspicabile quando hai bisogno di una mano.
Islamabad, capitale del Pakistan solo dal 1967 perché Karachi era troppo fuori mano, non è certo una bella città, ma per quelli come noi che arrivano dal selvaggio Nord Est è come la manna dal cielo. L’albergo prenotato dal nostro corrispondente Isaq Alì è molto confortevole, tranquillo e in una zona sicura. Bibo tenta anche un’improbabile riparazione della sua Transalp, ma al bravo e volonterosi meccanico mancano i pezzi di ricambio necessari per rimetterla in strada. Decidiamo di abbandonarla nella capitale pakistana. Bibo cercherà di recuperala nel prossimo viaggio.
Lasciare il Pakistan è un po’ come salutare un caro amico che sai di non rivedere per molto tempo. Anche l’ultimo militare della dogana, conferma la grande disponibilità della gente del Paese dei Puri, invitandoci, prima di farci uscire dal paese, a consumare un delizioso piatto di riso e lenticchie con lui. Grazie Pakistan!
Entriamo in India. Un paese che adoro, nonostante il caos, il caldo soffocante, le piogge monsoniche che allagano le strade, lo smog, lo strombazzare di ogni genere di clacson, le puzze, quelli che ti tamponano mentre aspetti che il semaforo diventi verde oppure ti passano sul piede con la gomma dell’automobile e tu li vorresti ammazzare, ma quando ti guardano con un sorriso disarmante sorridi anche tu come se niente fosse successo.
Per tutto questo l’India potresti anche odiarla, invece l’ami senza condizioni, come fosse la donna della tua vita.
Amritsar ci ospita per un intero giorno, che dedichiamo alla visita del Tempio d’Oro dei Sikh. Un oasi di pace, di colore e di spiritualità, poi il viaggio prosegue fino a Delhi.
A meno di cento chilometri dalla capitale indiana, la moto di Gianni si ferma per la rottura dello spillo conico del carburatore della sua KTM. Carichiamo la moto. Arriviamo a New Delhi nel tardo pomeriggio. Sono passati quarantacinque giorni dalla partenza. Abbiamo percorso dodicimila chilometri, volati via in un attimo.
Parcheggiamo le moto nel salotto buono di una villa signorile nel centro storico della città, una gentilezza del proprietario dell’albergo, che ci ospiterà per qualche giorno, prima del nostro rientro in Italia.
Riposeranno per quattro mesi in buona compagnia, insieme ad una vecchia Triumph color avorio e a una luccicante Harley Davidson nera.
Di certo non si annoieranno, ne hanno di cose da raccontare…