Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 126 – Gennaio 2005 e N. 129 Aprile 2005
Asia per sempre
Una delle costanti dei miei viaggi in moto è viaggiare da solo.
La mia compagna di viaggio è sempre stata la moto: siamo inseparabili!
Ascolto con ansia i consigli provenienti dal suo “cuore”, ne condivido giorno dopo giorno gioie e dolori e osservo il mondo da una posizione elevata e dominante.
Tra noi c’è un ottimo rapporto, e per questa nuova avventura ho deciso di darle un nome: KaTerina!
Mi sembra un bel nome, poi K e T calzano a pennello con KTM, la mia moto.
Per quanto riguarda invece il posto libero sul sellino posteriore, devo dire che, lanciato a “folle” velocità sull’autostrada italiana, faccio una gran fatica, anche scrutando nello specchietto retrovisore, ad accorgermi se qualcuno ci sia là dietro. Apparentemente non c’è nessuno, ma … Molti pensieri si accavallano nella mente creando una gran confusione ed arrivano i dubbi di sempre: la moto ce la farà? Il mio fisico terrà? Turchia e Iran sono paesi molto tranquilli, ma anche famosi per qualche terremoto devastante. In Turkmenistan attraverserò il deserto del Karakum. In Cina il deserto di Taklimakan che tradotto significa: chi entra non esce!!! In Tibet valicare passi di montagna oltre i cinquemila metri e, per finire, in Nepal percorrerò una delle strade più franose del mondo. Troverò condizioni climatiche molto varie: secco e 50 gradi nei deserti, rigide temperature con pioggia o neve sugli altopiani Tibetani, caldo umido e acqua a catinelle in Nepal. Poi ho anche un paio di problemi burocratici che mi tengono in ansia: l’invito dell’Ambasciata Turkmena “non è pronto”; e c’è un clamoroso errore di scrittura sul “carnet de passage en douane” della mia moto: una maledetta N al posto di una M. Ogni volta il viaggio inizia tra mille perplessità. Ho già provato queste sensazioni, portano ad avere paura. Paura di quello che dovrò affrontare, di quello che sta davanti e non conosco.
Un cocktail di paure che talvolta ti può bloccare, che racchiude la paura universale: la paura di perdere la vita! Ho rimosso questa paura, per mia fortuna, molti anni fa. Non che non la tema. Lei aspetta paziente tutti noi, fa parte della nostra esistenza, è il cerchio che si chiude, ma avendo preso coscienza della fragilità della vita il primo risultato che ne scaturisce è quello di apprezzarla e rendersi conto di quanto sia straordinaria. Per me viaggiare non è una sfida, ma semplicemente è seguire il mio destino. Se la mia strada dovesse finire in qualche remoto angolo del mondo, beh meglio laggiù dove inseguo i miei sogni, dove vado a caccia di emozioni, che su una noiosa tangenziale “nostrana”, zeppa di traffico all’ora di punta, mentre esercito la mia professione di venditore di prodotti siderurgici.
Carico di ottimismo come sempre e con un pizzico di scaramanzia, che non guasta mai, per darmi la carica dico a me stesso: “tranquillo Tawil, all’ottanta per cento andrà tutto bene!”
Neanche il tempo di rendermi conto dei cinquecento chilometri percorsi, assorto da mille pensieri, che il porto di Ancona si materializza. Una nave traghetto mi attende: in due giorni mi porterà a Cesme in Turchia.
La nave lascia il porto al tramonto, per fortuna ho una cabina tutta per me. Ci sono parecchi motociclisti diretti in Turchia, grazie alla loro compagnia la prima giornata in mare passa veloce. Faccio conoscenza con una giovane coppia, Carlo e Jana con un Kawasaki KLR 650 carico di bagagli e con Fulvio e la sua fiammante Honda Transalp.
E’ una notte senza luna. Mentre tutti dormono, vado a prua a scrutare l’orizzonte. Non si vede nulla, il cielo nero sembra mescolarsi con le acque scure del mare, creando un paesaggio irreale. La nave sembra volare nell’oscurità, interrotta talvolta da sbuffi di schiuma biancastra. Mancano ancora parecchie ore alla terraferma, ma, anche se non la posso vedere, mi sembra quasi di sentirne l’odore. E’ un odore nuovo, penetrante, misterioso, eccitante. E’ l’odore dell’Asia.
Ho scelto il porto di Cesme per accorciare un po’ il viaggio.
Ho volutamente evitato Istanbul già visitata a lungo in due viaggi precedenti.
Istanbul, magica città affacciata sul Bosforo, città di magnifiche moschee, con i tuoi affilati minareti che bucano il cielo, che a prima vista potrebbero sembrare dei missili puntati contro un’ignota minaccia, ma a me piace immaginare che siano antenne per captare i messaggi che Allah trasmette dall’universo. Dedicarti una breve e fugace visita sarebbe come offenderti.
Sono molto tentato da arabi, greci, turchi, ebrei, armeni, le etnie che in te pacificamente convivono da secoli, ossia le cinque dita della lunga mano del sultano, ma questa volta non cederò al loro fascino. Mi spiace Istanbul: “non posso.” Sarai sempre nel mio cuore e ti prometto che, se dovessi fare il giro del mondo in moto, il sogno di tutti i motociclisti, partirei dalle tue mura.
Per ora mi “accontento” di questa nuova avventura.
L’itinerario è scolpito nella mia mente da mesi: seguire inizialmente la Via della Seta attraverso Turchia, Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Cina, per arrivare a Shangri-La, la terra delle nevi, per secoli il misterioso regno buddista del Tibet fra le montagne dell’Himalaya, fino a Lhasa, la città proibita.
L’emozione di un viaggio di quindicimila chilometri attraverso il cuore dell’Asia è tale da togliere il sonno per parecchie notti: è un sogno che diventa realtà.
Sbarco a Cesme nel pomeriggio, sbrigo le pratiche doganali ed è buio. Decido di fermarmi per la notte. La cena in compagnia di Fulvio, a base di carne alla griglia e verdura, sdraiati su un tappeto, mi fa capire che l’Europa è già molto lontana.
La sveglia è alle cinque; mezz’ora dopo sono in moto; è ancora buio. Mi attendono novecento chilometri! Arrivo a Nevsehir in Cappadocia nel pomeriggio, dopo dodici ore filate di moto: niente male per il primo giorno.
Bruno, il mio compagno di viaggio mi attende. E’ partito da Verona tre giorni fa, non ha molta simpatia per le navi, ed ha già percorso più di tremila chilometri attraverso la ex Jugoslavia, la Bulgaria e la Turchia. Passiamo la serata in compagnia di Adnan, un mio amico venditore di tappeti.
Ripartiamo per Malatya, una delle località più calde della Turchia, commenta Adnan. La strada è scorrevole e in alcuni tratti a doppia corsia. In alcuni punti raggiungiamo “folli” velocità di poco superiori ai cento chilometri orari. Una pattuglia della polizia ci ferma, un radar su un’auto civetta appostata chissà dove ha rilevato la velocità: centododici chilometri orari!!! Vane le nostre scuse all’italiana: siamo turisti, abbiamo fretta di arrivare in Cina, siamo senza soldi. Irremovibili i tutori dell’ordine. La multa è salatissima: centosettantanove milioni di lire turche, vale a dire cento euro.
Arriviamo a Malatya nel primo pomeriggio, abbiamo intenzione di visitare il Nemrut Dagi. Per risparmiare tempo, lungo la strada acquistiamo gustose albicocche per soli tre milioni al chilo, che verranno consumate in moto “on the road”. Le indicazioni per il Nemrut sono chiare, la distanza di ottantaquattro chilometri alla nostra portata. La strada diventa impegnativa: salite ripide su fondi a tratti asfaltati e a tratti sterrati. Arriviamo in cima, a duemila metri di altitudine, stanchi e soddisfatti, poco prima del tramonto. Il luogo è interessante: Antioco, un re megalomane dell’età preromana, a dir poco bizzarro, fece tagliare due cornici nella roccia, le riempì di statue colossali, che raffiguravano lui e i suoi famigliari, poi ordinò che tra esse si costruisse una vetta artificiale alta cinquanta metri formata da pezzi di roccia impilati l’uno sull’altro.
Abbiamo solo il tempo per scattare alcune foto, poi ritorniamo a valle. Percorriamo i cento chilometri che ci separano da Elazig con il buio. Arriviamo in città che è notte fonda, una cena veloce e si va a dormire; domani si parte alle cinque.
Appena usciti dalla città, la strada incomincia a salire; attraversiamo alcuni villaggi di montagna, incontriamo parecchi pastori con i loro animali: il paesaggio è straordinario. E’ in questi luoghi dove si apprezza maggiormente la vista a centottanta gradi che offre la moto. Gli occhi riprendono senza interruzione e migliaia di immagini vengono registrate. Alcune ti colpiscono immediatamente e rimangono vive, altre apparentemente accantonate e dimenticate in qualche remoto angolo del cervello affioreranno a distanza come per magia e saranno i ricordi indelebili del viaggio per tutta la vita.
Siamo nella zona curda. Sette anni fa da questa parti c’era una forte tensione e parecchi problemi, i posti di blocco militari erano numerosi ed i controlli frequenti. Adesso i pochi militari incontrati ci salutano calorosamente invitandoci a passare.
Abbiamo appena lasciato le acque color turchese del lago Van e siamo in cima ad un passo di 2800 metri. Poco più avanti, il monte Ararat svetta coperto di neve dominando una verde e fertile vallata.
Anche a Dogubeyazit la situazione è tranquilla. Dei quattro carri blindati che pattugliavano di notte il villaggio e che mi avevano particolarmente colpito per le loro dotazioni di armi pesanti, ne rimane uno solo, parcheggiato davanti all’ufficio postale. La sua mitragliatrice “riposa” sotto un robusto e polveroso telo di plastica: buon segno!
Finalmente riesco a “scaricare” in un internet-cafe l’invito dell’Ambasciata Turkmena che servirà ad ottenere il visto a Tehran. Io e Bruno tiriamo un sospiro di sollievo. Rimane il problema del “carnet” sbagliato, ma è inutile pensarci adesso, domani ci sarà il primo “esame” alla frontiera Iraniana.
Di buon’ora visitiamo la residenza di Isak Pasha, che domina il villaggio e tutta la valle circostante. Il palazzo fortezza risale al 1700: un gigantesco portale conduce in un vasto cortile, dove è possibile visitare una moschea e una parte delle 300 stanze. Peccato per le porte placcate d’oro rimosse dai russi che invasero la città e portate al museo dell’Hermitage di Leningrado.
Percorriamo gli ultimi quaranta chilometri che ci separano dal confine Iraniano. Centinaia di camion sono incolonnati in attesa dell’apertura dei cancelli. Una brutta sorpresa ci attende; i computer turchi sono fuori uso: bisogna aspettare!
Approfittiamo delle tre ore di attesa per cambiare al mercato nero un po’ di valuta: un abile “mercante” ci offre 900 Rial per un euro.
Appena superate le formalità turche, un funzionario Iraniano ci viene incontro e gentilmente ci prega di aspettare. Dopo cinque minuti ritorna con i passaporti vistati evitandoci così una coda chilometrica di camionisti. Poi, arriva il responsabile del controllo dei “carnet”. E’ molto simpatico, io gli dico: “c’è un errore di scrittura!” Lui mi guarda sorridente e risponde: “No problem in Iran, welcome!” Siamo in Iran!
La strada che conduce a Tabriz è tutta in discesa, facciamo rifornimento. La benzina costa poco meno di 10 centesimi di euro al litro.
Arriviamo a Tabriz nel pomeriggio, pernottiamo in un hotel modesto, la camera costa solo 12 euro, il proprietario, molto gentile, ci fa parcheggiare le moto dentro la hall. A parte il bazar, veramente interessante, la città non ha molto da offrire. La moschea blu, anche se completamente restaurata dopo alcuni terremoti devastanti è in uno stato misero, il mosaico del portale è gravemente danneggiato e mancante per metà. La cena viene consumata in una piccola locanda, ci viene servito un gigantesco spiedino di carne di montone su una focaccia cotta in un forno a legna completamente ricoperta di cipolla fresca. Completiamo il pasto con deliziose ed irresistibili ciliegie comprate su una bancarella.
Ripartiamo per Tehran, la strada tutta curve è molto divertente ed alterna tratti coltivati a montagne desertiche. Ad un certo punto inizia la “freeway” l’autostrada iraniana a pagamento. All’entrata campeggia un grosso cartello: vietato l’ingresso alle moto! Ci avviciniamo al casello, l’addetto ci accoglie con un sorriso e con un sonoro: “motorbike free, welcome!”
La temperatura dell’aria sale di molto e i carter motore di KaTerina si fanno roventi. Arriviamo a Tehran alle 17,00. I suoi quattordici milioni di abitanti ci stanno aspettando e sono tutti in automobile a giudicare dal caos infernale che c’è lungo le strade: traffico, smog, caldo e gas di scarico da togliere il respiro. Per la prima volta da quando sono partito accuso la fatica: sono stanchissimo! Per fortuna la gente è molto gentile e prodiga di buoni consigli, anche se in lingua farsi; raggiungiamo l’hotel Kowsar dopo un’ora e mezza di inferno.
La notte trascorre lenta e piena di angosce per la febbre alta che mi logora e per i grossi problemi intestinali che disturbano me e Bruno: le succose ciliegie di Tabriz ci hanno fregato!
Lo stato mentale di queste situazioni è tipico e spuntano le solite preoccupazioni: “riuscirò a completare il viaggio?”
Finalmente spunta il sole, la febbre è passata lasciando solo un po’ di spossatezza. Oggi è un giorno importante: dobbiamo assolutamente farci rilasciare il visto Turkmeno in giornata, non possiamo permetterci di perdere tempo prezioso.
L’impiegato dell’Ambasciata è pignolo e ci fa riscrivere tre volte i moduli, ma alla fine sentenzia: “OK, come back at four o’clock P.M.!” Alle 15,30 siamo già davanti allo sportello dell’Ambasciata che dà direttamente sulla strada. Il sole è cocente e ci sono più di quaranta gradi, il funzionario ci guarda, poi guarda l’orologio e commenta: “Niet, four o’clock!”
Finalmente abbiamo i passaporti con il visto: il viaggio continua!!!
Sveglia da record alle quattro, carichiamo i bagagli mentre la città è ancora avvolta dalle tenebre, la strada è deserta, imbocchiamo con facilità la tangenziale che ci porta lontano da questa metropoli. Ci attende la tappa più lunga del viaggio: 1000 chilometri!
Oggi è Bruno che fa da guida; segue scrupolosamente le indicazioni del suo GPS. I GPS cartografici moderni sono oggetti straordinari molto utili, ma spesso non sanno distinguere le strade a quattro corsie dalle mulattiere, scelgono semplicemente la via più breve ed è così che noi sbagliamo clamorosamente ed infiliamo una impegnativa strada provinciale piena zeppa di veicoli pesanti in coda a passo d’uomo, che ci trasforma in poco tempo in due aringhe affumicate. Dopo centocinquanta chilometri di “passione” imbocchiamo una strada secondaria molto divertente e tutta in discesa, passano altri cento chilometri e ci ritroviamo in pieno deserto Dasht è Kavir un luogo arido ed inospitale, la temperatura si aggira intorno ai 35 gradi e sono solo le nove di mattina. E’ il primo vero deserto di questo viaggio, il mondo sembra finire in questa enorme pietraia dove cessa la vita, niente animali, api, mosche, insetti di ogni genere, uccelli, nulla, solo un caldo insopportabile che ti arroventa il cervello e la fatica che ti piomba addosso come un macigno.
Ho già vissuti simili esperienze in Libia, Mauritania, Egitto, Marocco, ti viene un’angoscia indescrivibile, pensi addirittura di non farcela, il cuore aumenta i battiti, la gola si secca, il respiro si accorcia e… KaTerina?
Appena superati i 45 gradi di temperatura dell’aria, che laggiù dove il motore sfiora l’asfalto vuol dire 50 gradi e più, incomincia a sbuffare nuvolette di vapore dallo sfiato del radiatore manifestando tutta la sua disapprovazione.
Riduciamo l’andatura anche a causa di un forte vento teso contrario, i lunghi rettilinei sono interminabili, alcuni bus stracarichi ci sorpassano strombazzando e la gente si sbraccia dai finestrini per salutarci. Facciamo qualche sosta e beviamo moltissima acqua, per fortuna mancano “solo” trecentocinquanta chilometri. Arriviamo a Mashad alle 20,30 dopo quattordici ore di moto, peggio che lavorare in miniera. Pernottiamo all’Iran Hotel, un moderno e confortevole quattro stelle, il minimo dopo una simile fatica, veniamo accolti con entusiasmo e stupore. Un tizio commenta: “Tehran Mashad non stop by motorcycle, crazy, crazy!” Finalmente cala un po’ la tensione del tappone di oggi, ho una gran fame, e … adesso ricordo perfettamente, nel mio stomaco oltre a parecchi litri d’acqua ci sono solo sei biscotti!
Ceniamo nel ristorante del hotel tra famiglie di Iraniani in vacanza; non vedo turisti. Nella città più santa dell’Iran, dove la devozione è fuori discussione, le donne sono tutte vestite di nero, ma non posso non notare mani curate, lunghe unghie levigate e dipinte, trucco, rossetto e soprattutto il famoso “chador” che copre solo a metà le moderne ed eleganti acconciature dei capelli. Penso che l’Iran stia veramente cambiando.
E’ con un’emozione che non provavo da anni che mi appresto in compagnia di Bruno a visitare uno dei luoghi più sacri del paese e dell’Islam: l’Haram è Motahhar cioè il tempio dell’ Iman Reza e i recinti sacri. Arrivati davanti al sito, dove un rigido servizio d’ordine controlla tutto e tutti, abbiamo la prima grande delusione: niente foto o riprese video. Protesto, ma la reazione è ferma, il regolamento di ferro. Oltretutto il recinto sacro è visitabile solo accompagnati da un Iraniano. Visitiamo tutta l’enorme struttura poi, un’altra delusione: è vietato ai non musulmani entrare nella tomba dell’Imam Reza e nella moschea. I nostri accompagnatori, due giovani studenti, ci tempestano di domande: sei musulmano? credi in Allah? cosa pensi dell’Iran? raccontaci dell’Italia. La loro compagnia è l’unica nota positiva della giornata, in nessun altro paese da me visitato ho riscontrato la curiosità e la voglia di comunicare con gli stranieri che hanno i giovani di qua.
Lasciamo Mashad e dopo una ripida salita che ci porta velocemente a 2000 metri arriviamo alla frontiera del Turkmenistan. Mi giro e guardo questo paese, attraversato in tutta fretta, ma visitato molto bene anni fa e un po’ di tristezza mi assale, mi sento molto vicino a questa gente.
Vi abbraccio tutti, arrivederci popolo gentile.
Oltrepassata l’ultima barriera di controllo Iraniana, incontriamo un militare che ci apostrofa: “Welcome to Turkmenistan!” Scoprirò più tardi che sono le uniche parole d’inglese che conosce.
Mi avevano descritto questa dogana come una delle più spinose del mondo. Abbiamo superato l’ostacolo in poco più di tre ore di lungaggini burocratiche. Ho in tasca almeno una decina di documenti di vario tipo: l’assicurazione, l’importazione temporanea del mezzo (il carnet non serve), la dichiarazione di valuta, l’elenco delle merci doganali, la carta verde turistica, più altri foglietti e ricevute svolazzanti, inoltre abbiamo pagato una tassa di 10 dollari più altri 64 dollari a testa per il noleggio della strada che percorreremo in Turkmenistan, calcolato in base ad una complicatissima tabella da tre individui chiusi con il sottoscritto in un locale di tre metri quadrati, al limite di un esaurimento nervoso e in un clima da “scherzi a parte.” Alla fine però devo dire che la prima impressione di questo paese è buona, i doganieri sono pignoli, ma simpatici. Rimane solo il problema della lingua. Nessuno parla inglese ed io della stupenda lingua russa conosco solo: “das-fi-Da-nya” cioè: arrivederci! Troppo poco per comunicare.
Solo venticinque chilometri ci separano da Ashghabat, la capitale, l’unica raccomandazione della nostra guida è quella di non superare i limiti di velocità, anche se sulla strada non incontriamo anima viva, superiamo altri controlli di documenti, un grande cancello, poi finalmente entriamo in città. Da una rapida occhiata, Ashghabat è una città moderna zeppa di viali alberati dove spiccano terribili palazzi bianchi da venti e più piani in stile russo. Ovunque troneggia la statua dorata del presidente Saparmurad Niyazov.
L’Hotel è una specie di mausoleo, una costruzione enorme con stanzoni da sei metri per sei. Il condizionatore sembra un motore d’aereo sia per le dimensioni che per il rumore.
Cambiamo un po’ di valuta, per un dollaro 25.000 manat, il “faccione” del presidente è presente anche sulle banconote, e dal benzinaio, sempre per un dollaro si acquistano ben cinquantotto litri di ottima benzina. Visitiamo il bazar di Tolkuchka, molto vivace e colorato e le rovine di Nisa dove praticamente per 2500 manat si può ammirare la fortezza o meglio ciò che ne resta, cioè nulla.
Una “sola” degna del migliore Totò.
Ad Ashghabat pranziamo nei centri commerciali, alcuni sono completamente deserti, altri invece funzionano a dovere. Un buon piatto di carne costa circa tre dollari.
Mi sono sempre chiesto, arrivando da occidente, in quale luogo dell’Asia incominciassero gli “occhi a mandorla”. Finalmente ho scoperto dove, è il Turkmenistan! Appena oltrepassato il confine è il carattere dominate, ma la vera sorpresa sono le donne molto eleganti e slanciate nei loro lunghi abiti aderenti che sfiorano le caviglie, con i bellissimi lunghi capelli scuri, davvero molto carine.
Incontriamo la nostra guida, si chiama Oleg, è di origine russa, ma vive e lavora per una agenzia turistica turkmena con sua moglie Antonina russa di Mosca e Peter un insegnante inglese che si unirà al nostro gruppo. La prima informazione è raccapricciante: partiremo a mezzogiorno! Entrare nel deserto di Karakum con il sole cocente e percorrere 270 chilometri mi sembra un suicidio, ma non abbiamo scelta. Nonostante la scelta infelice, Oleg sembra sappia il fatto suo, e mi dice: “inutile partire all’alba per arrivare al campo tendato in pieno deserto quando fa ancora molto caldo, meglio lasciare la capitale a mezzodì e arrivare al tramonto.” E’ proprio un “mezzogiorno di fuoco” quando lasciamo Ashghabat Il traffico è scarso e tutti guidano rigorosamente sotto i limiti di velocità. In prossimità degli incroci, le auto, per non correre il rischio di passare il semaforo con la luce gialla, si fermano con il verde. Il motivo c’è: la polizia è presente ad ogni incrocio ed è molto severa. Oleg e Peter guidano il gruppo su un vecchio modello di Lada Niva, Bruno ed io li seguiamo, la strada è sconnessa, ed i resti di quello che cinquanta anni fa doveva essere un buon asfalto tendono a liquefarsi sotto il peso di KaTerina, che come sempre in queste occasioni estreme sbuffa vapore dallo sfiato del radiatore. Dopo un centinaio di chilometri inizia il vero deserto, parecchie dune di sabbia invadono la carreggiata costringendoci a zigzagare. Al contrario della pietraia iraniana del Dash è Kavir, nel deserto del Karakum c’è vita. Non è raro incontrare piccoli roditori come alcuni topolini dal colore chiaro, scoiattoli, dromedari, volpi, e numerose rondini, segno inequivocabile che questo posto è pieno di vita. Nessuna traccia per fortuna del cobra color bronzo, dei grandi scorpioni neri, delle tarantole e dei varani preistorici lunghi più di un metro e mezzo che vivono in questi luoghi. Arriviamo verso sera a Darvaza, un villaggio di poche case e dopo un controllo di polizia, dove ci regalano alcune angurie, piantiamo le tende in una valletta riparata da un’altura.
Oleg ci prepara un piatto a sorpresa a base di pomodori, peperoni, fagioli, carne ed altri ingredienti segreti; è molto saporito, piccante e nutriente, innaffiato con ottima vodka russa. Il risultato è che la bocca brucia come una fornace.
Ad una decina di chilometri dal campo c’è uno strano posto da vedere. Si tratta di un cratere formatosi in seguito ad una esplosione di una condotta di petrolio. Lo spettacolo è straordinario! In un cratere con un diametro di duecento metri e una profondità di trenta metri, fuoriesce gas propano producendo migliaia di fiamme. Un vero girone infernale. In trent’anni nessuno è mai riuscito a spegnerlo ed è diventato un’attrazione turistica.
Sono molto stanco e finalmente mi infilo nella mia tenda. Più che una tenda è un loculo. Per risparmiare spazio nei bagagli, che da sempre assillano i miei viaggi in motocicletta, ho optato per questa elegante tenda da “single” che, ripiegata, occupa lo spazio di un salame felino da un chilo, montata invece è lunga due metri e alta quaranta centimetri, praticamente il telo superiore si appoggia sul mio naso e mi fa sentire come il conte Dracula nella sua bara.
Fa caldo e la vodka russa mi ha un po’ segnato e di dormire non se ne parla. Come è lontano il mio mondo fatto di letti comodi, di case, di giardini, di auto e di gente. Ma è una bella sensazione stare lungo e disteso nel deserto a guardare la volta stellata e la luna piena. I rumori sono pochissimi, solo il vento lontano e qualche animale. Posso ancora sentire il calore della sabbia sotto la schiena, come se la terra, il nostro pianeta, volesse ricordarmi con un abbraccio che siamo tutti figli suoi.
Il deserto diventa il padrone assoluto, espande ed esalta i sensi ed è nella sua grande tranquillità che viene fuori tutto quello che ho dentro. Mi piace immaginare il mio subconscio come un grosso pentolone pieno di brodo primordiale, dove il deserto è una sorta di mestolo che gira e rigira tutta una vita. E’ così che vengono a galla antiche e mai dimenticate tragedie sotto forma di tibie, femori, teschi, ma anche dolcissime ciliegie e deliziose albicocche. Poi piano piano il tepore cessa e dà spazio al freddo della notte ed io rimango solo con me stesso, i miei pensieri, i miei sogni, i miei incubi.
Sono in pieno deserto in uno strano paese, il Turkmenistan, ex Unione Sovietica, non molto lontano dall’Afghanistan, un paese che da sempre mi affascina e stimola la mia fantasia, ma che, per ovvie ragioni negli ultimi vent’anni non sono mai riuscito a visitare. Le frontiere dell’Afghanistan sono tutte chiuse, anche se qualche dubbio mi rimane. Per uno come me, che abita a quindici chilometri dal confine svizzero, ed abituato ad oltrepassare il varco doganale di Bizzarrone quasi quotidianamente, una frontiera chiusa vuol dire arrivare al confine e trovare due robusti cancelli chiusi da due robusti lucchetti. Per esperienza vissuta, anni fa, in Pakistan rimasi una settimana nei pressi della frontiera Afgana, che naturalmente era chiusa. Passava di tutto! Uomini, animali e merci di ogni tipo. I confini Afgani sono un vero e proprio colabrodo, impossibili da controllare. Perciò, per quanto mi riguarda, dall’Afghanistan potrebbe arrivare addirittura il Mullah Omar. Tre anni fa è scappato da Kabul con la sua “motina” e da allora nessuno ha più avuto sue notizie. Chissà che fine avrà fatto! In tre anni deve averne fatti di chilometri. Mi piacerebbe incontrarlo. La moto aiuta molto a fraternizzare, indipendentemente da ciò che uno è nella vita di tutti i giorni. Certo però è strano, che non lo abbiamo mai scovato con tutte le tecnologie satellitari moderne. Da queste parti poi ci deve essere un controllo totale. Qualcuno seduto comodamente davanti a un computer starà sicuramente “spiando” e avrà notato la nostra presenza, le moto, la jeep, le tende.
E se mi scambiassero per il Mullah Omar? Avranno notato che c’è una bella differenza tra una Honda 125 e una KTM, poi c’è Bruno con la sua BMW, Peter l’insegnante inglese e Oleg la guida russa con la sua Lada Niva, insomma siamo una vera e propria forza multinazionale. Però, se qualche fanatico per farsi bello dicesse di aver trovato “probabilmente” il Mullah Omar in compagnia di altri “Talebani”; allora la macchina bellica potrebbe mettersi in moto. Dal centro satellitare potrebbero addirittura telefonare a Bush, che a quest’ora starà tranquillamente passeggiando nel parco della Casa Bianca con il suo cane, che è sicuramente un cane presidenziale, ma anche lui ha certi bisogni. Da Bush a qualche ammiraglio su una delle tante portaerei in giro per il mondo ed il gioco è fatto. Potrebbero mandare a “risolvere il problema” qualcuno dei corpi speciali d’assalto, un aereo invisibile, oppure un missile. Sì, uno di quei missili intelligenti super tecnologici dal costo esorbitante, che con la stessa cifra sfamerebbero mezza Africa per una settimana.
Un tizio preme un pulsante e una scia luminosa squarcia il buio della notte, come ho visto parecchie volte in televisione. Il missile va verso l’alto, come se volesse andare sulla luna, poi piano piano la parabola diventa sempre più bassa, l’ogiva annusa l’aria e incomincia a seguire una rotta precisa: l’obbiettivo, il Mullah Omar, cioè Io.
Che cosa si proverà a saltare in aria colpito da un missile? Senza dubbio si muore ma: “si prova dolore?”
E dove lo avranno puntato? Sulla tenda o sulla moto? Potrei uscire con il passaporto aperto, mostrare la foto e urlare: “Fermi tutti sono italiano!” Se il missile fosse intelligente come dicono, registrerebbe tutto con la sua microcamera e si fermerebbe. Ma, le bombe non sono mai intelligenti. Intelligenti dovrebbero essere gli uomini e non lanciarle MAI.
Che faccio, aspetto o fuggo a gambe levate? Decido di rimanere fermo nella mia tomba di sudore ad aspettare che il mio destino si compia. In meno di cinque minuti sarà tutto finito e potrò vedere in faccia la “Signora in nero” che avrà così vinto la partita. Ma … non succede nulla. In fin dei conti io non sono il Mullah Omar…
Mi domando, che faccia avrà la morte? Me la immagino femmina, alta, magra, lunghi capelli scuri, un viso bianco, inquietante, occhi chiari per vedere nel buio, coperta da un lungo nero mantello con un comodo cappuccio che ne cela completamente il volto. Penso che nessuno l’abbia mai veramente vista in faccia quando avanza e si avvicina. Deve assolutamente avvicinarsi, perché è ben noto che non è armata di un kalashnikov. Imbraccia la sua vecchia, ma efficace falce da “grande mietitrice”, non con la destra visto che è sicuramente “sinistra” e portando tutta la spalla all’indietro per prendersi la forza necessaria per la “rasoiata” fatale, solo in quel preciso momento il suo cappuccio ricadendo indietro le scopre il viso. La vedi un attimo solo e poi…addio. Brrrr…
Mi vengono i brividi. Fa freddo, è quasi l’alba, e fra poco dovrò strisciare fuori dalla mia tenda, smontare tutto e ripartire. Il cielo si sta tingendo di azzurro tenue, spuntano i primi raggi di sole, la luce spazza via tutti gli incubi notturni.
Partiamo, mi aspettano altri 270 chilometri prima di Konye Urgench e sono stanco come un cammello dopo 52 giorni di deserto.
Arriviamo in città all’ora di pranzo giusto in tempo per gustare un’orribile zuppa. Con la pancia “piena” visitiamo il sito archeologico. Per un breve periodo, nella prima parte del XIII secolo, l’antica Urgench fu il cuore dell’Islam. Il sovrano della città tentò di opporsi all’avanzata dei mongoli. Venne rasa al suolo da Tamerlano e non si risollevò più. Attualmente è possibile visitare il mausoleo di Toreberg Khanym, quello del sultano Tekesh e l’impressionante minareto di Kutlug Temir con i suoi 67 metri di altezza, il più alto dell’Asia centrale. Proseguiamo per Dashkhovuz dopo aver fatto rifornimento di benzina al mercato nero. Che strano paese il Turkmenistan: la benzina non costa niente, ma a parte Ashghabat dove si trova in abbondanza, nel resto del paese è razionata a 20 litri a settimana per ciascun abitante. Il risultato è che al mercato nero costa anche 15/20 volte il suo reale valore.
L’enorme hotel Dashkhovuz che ai tempi dell’impero doveva avere 500 camere e adesso ne ha dieci è fatiscente. Per salire al secondo piano entriamo nell’ascensore. E’ il momento più rischioso di tutto il viaggio. Sinistri cigolii annunciano che l’ultima manutenzione è stata fatta ai tempi di Stalin e ad ogni sobbalzo a cui segue una “fermata fuori programma” il simpatico Oleg commenta: “Uhh, Ahh, Ohh”. Dopo alcuni minuti di terrore finalmente la porta si apre su un oscuro pianerottolo dove troneggia una donna non più nel fiore degli anni dall’aspetto trasandato che mostrandoci con un largo sorriso tutti i suoi denti d’oro, ci apostrofa: “welcome”. La camera supera ogni nefasta aspettativa: in bagno non c’è acqua fino alle 19,00, il tubo della doccia è intasato perciò per lavarsi bisogna essere alti massimo 40 centimetri, il water non ha la cassetta per cui nemmeno l’acqua, il lavandino non ha i rubinetti e un odore pestilenziale fuoriesce dagli scarichi. Per non rischiare di essere “gasati” blocchiamo la porta del bagno con un pesante zaino. Due letti traballanti e senza lenzuola “dormono” sepolti sotto una polverosa coperta di un colore indefinito dove pare ci abbia scorrazzato Gengis Khan. Di un fantomatico condizionatore rimane solo il buco nel muro e dall’enorme porta finestra a vetri “rotti” che dà sul balcone si può ammirare ciò che rimane di una piscina senza acqua da almeno un secolo. Per finire, dalla sopra citata finestra entrano orde di zanzare affamate. Caro Tawil: Buona notte!!!
Sono le sette di mattina del primo agosto quando lasciamo l’hotel, il confine è a soli sette chilometri. Ci attende una bruttissima sorpresa: due giorni fa, un gruppo di terroristi ha attaccato l’ambasciata americana a Taskent, la capitale, lasciando alcuni morti sul terreno. Il governo Uzbeko ha pensato bene di chiudere tutte le frontiere. Siamo bloccati!!!
Sono tante sei ore di attesa al confine tra Turkmenistan ed Uzbekistan nonostante la simpatia e la disponibilità dei doganieri. Le notizie si accavallano: ok la dogana è aperta! No, è chiusa per almeno quattro giorni. Una cosa è certa, regna una gran confusione.
Sembra di giocare ad una partita di giochi senza frontiere, dove il risultato è in bilico, poi, Oleg il russo gioca il jolly. Telefona a David il boss dell’agenzia che ha l’ufficio ad Alma Ata in Kazakistan. David chiama un suo corrispondente a Taskent, il quale chiama un amico a Khiva in Uzbekistan, appena 70 chilometri da noi. Alla fine arriva in dogana una telefonata da non si sa bene dove che ordina: “la dogana rimane chiusa, ma i due motociclisti e l’insegnante inglese possono passare pagando una somma di 30 dollari a persona.”
Accettiamo immediatamente la proposta, salutiamo il nostro amico Oleg davvero abile nello sfruttare la potenza dei cellulari dell’ex Unione Sovietica, percorriamo un paio di chilometri di terra di nessuno e arrivati al posto di confine effettivamente chiuso, incontriamo l’amico dell’amico, che per 40 dollari, visto cha da queste parti l’inflazione galoppa, e numerosi larghi sorrisi regalati alle guardie ci introduce in questo nuovo e meraviglioso paese.
Divoriamo di gran carriera i pochi chilometri che ci separano da Khiva e pernottiamo naturalmente nell’ hotel del nostro “amico”.
L’accoglienza è molto calorosa: biscotti, frutta, pane, the e un’ottima stanza pulita e molto ben arredata. Oggi è veramente il nostro giorno fortunato!
L’antica cittadella di Khiva, protetta e finanziata dall’Unesco come patrimonio dell’umanità è un vero gioiello. Il suo centro storico è interamente conservato: bellissimi i minareti, le medresse, le moschee, le tombe e i caravanserragli. Ottima la cena di sette portate all’ hotel Orkanchi per quattro dollari a persona.
Poi, ritornando verso l’hotel attraverso alcune strette vie illuminate dalla luna che gioca a nascondino dietro i numerosi minareti, vengo rapito dalla magica atmosfera di questa città fuori dal tempo.
Ripartiamo all’alba, dopo aver salutato Peter, il nostro amico inglese, davvero molto gentile, simpatico e paziente con noi e con il nostro stentato inglese.
Bukhara dista solo 460 chilometri, davanti c’è Bruno che spiana la strada con la sua mastodontica BMW R 1100 GS carica di bagagli. Bruno ha superato da poco i sessant’anni ed è un motociclista molto esperto, da solo ha girato mezzo mondo. L’anno scorso è partito per un viaggio solitario verso la Siberia, arrivato a Vladivostock dopo 17.000 chilometri di emozioni si è reso conto che non poteva più tornare indietro perché nessun aereo caricava la sua moto. Senza batter ciglio si è imbarcato per il Giappone che ha raggiunto dopo 40 ore di nave e da lì è tornato in patria con un aereo. Nonostante non sia più un giovincello è forte come un toro e leale come un samurai.
Da più di cento chilometri stiamo attraversando una zona desertica: piccole dune, arbusti, sabbia. Molto probabilmente tanti anni fa questa zona era fertile, di qua saranno passate le orde dei mongoli dirette a Sud. Mi sembra di vederli, forti, fieri, coperti di polvere, sempre a cavallo. A parte la loro voglia di conquista che sicuramente non mi appartiene, mi sarebbe piaciuto essere uno di loro, là davanti, nel gruppo in avanscoperta , a cavallo per giorni e giorni, sempre a caccia di posti nuovi e di emozioni forti. Immagino che avessero un ottimo rapporto con il loro “mezzo di trasporto” e che amassero la libertà, esattamente come mi sento io in motocicletta.
Esco dallo spazio temporale dei miei pensieri e mi ritrovo alle porte di Bukhara, sei ore di moto volate in un attimo.
Seguendo le indicazioni di Peter, pernottiamo in una splendida villa a pochi passi dal centro in stile completamente ristrutturata. La città è meravigliosa e la moschea Kalan è straordinaria. In tutta la città si respira un’aria rilassata. Incontriamo alcuni turisti italiani, ottima è la cena in loro compagnia.
Ripartiamo presto la mattina per raggiungere Samarcanda prima di mezzogiorno; la strada è monotona, ma scorrevole. Visitiamo il Registan e veniamo letteralmente catturati dalla bellezza dei minareti e delle cupole, fatti costruire da Tamerlano. Il complesso è una profusione di maioliche e mosaici di lapislazzuli dove il colore dominante è il turchese. Il resto della città, a parte la moschea di Bibi Khanym ed il vicino bazar, frenetico e variopinto, non offre altro. Incontriamo Fabio che è partito venti giorni fa da Roma con la sua Panda 4×4 e dopo avere attraversato l’Austria, la repubblica Ceka, la Polonia, l’Ucraina, la Russia, il Kazakistan è arrivato in Uzbekistan e si unirà al nostro gruppo per visitare la Cina. La storia di Fabio è la storia di un uomo straordinario, ha viaggiato in lungo e in largo per tutto il mondo da solo con la sua Panda, che ha percorso circa 600.000 chilometri. La gente, come dice lui, gli ha sempre dato una mano, ed il fatto che Fabio sia bloccato su una sedia a rotelle non è mai stato un problema. Ai miei occhi, oltre che un grande viaggiatore, è un uomo coraggioso che ha vinto ogni timore e ha trasformato i suoi viaggi in linfa vitale.
Ceniamo tutti insieme io, Bruno e Fabio in un ristorante all’aperto, dove ci servono dell’ottima carne alla griglia, davanti al Registan, che si incendia di colori, rendendo l’atmosfera di questa città simbolo della Via della Seta ancora più magica. Domani, a soli trecento chilometri, a Taskent, la capitale Uzbeka, ci aspetta un gruppo di motociclisti di Avventure nel mondo. Ci uniremo a loro per la seconda parte del viaggio che ci condurrà a Lhasa, nel Tibet. Sono passati diciassette giorni da quando ho lasciato l’Italia, settemila chilometri e tanta polvere. Seguo con il dito la lunga e sottile linea rossa che ho tracciato sulla mappa. Casa mia è sempre più lontana, ed io un puntino che si sta perdendo nel “cuore” di questo sterminato continente.
Ho sempre scelto di viaggiare in moto “strisciando” sulla crosta terrestre, perché ritengo che seguendo “le pieghe” del mondo sia l’unico modo per rendersi conto effettivamente dei cambiamenti e della diversità del nostro pianeta, per conoscere le esigenze dei popoli che vi abitano e che ne scandiscono i ritmi e soprattutto per prendere coscienza che ogni singolo individuo ha ricevuto come dono divino la vita, che nessuno mai dovrebbe togliere.
Come scriveva Tiziano Terzani, giornalista, scrittore, uomo di pace, scomparso proprio in questi giorni: “Angela, venuta a trovarmi nel mio eremo, si divertiva a vedere come acchiappavo con un fazzoletto le mosche entrate nella mia stanza per poi liberarle dalla finestra. Divertiva anche me, non perché pensassi che fossero la reincarnazione di qualcuno, ma perché mi pareva un modo per essere in armonia con gli altri esseri viventi, un’occasione per non togliere la vita. Solo un’intuizione, visto che non ho bisogno di credere, di avere fede, di essere sicuro di nulla. Vivo ora qui, con la sensazione che l’universo è straordinario, che niente mai ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta. E io sono particolarmente fortunato perché, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra”.
A lui, profondo conoscitore dell’Asia, dedico questa prima parte del viaggio, e quella che ancora mi attende, piena di incognite, ma sicuramente “un altro giro di giostra”!!!
E’ grazie alla cortesia di un taxista che arriviamo in albergo e facciamo conoscenza con il gruppo di motociclisti di avventure nel mondo che dividerà con noi un altro mese avvincente.
Il gruppo è formato da otto Bmw, due Ktm , una Yamaha, due jeep in appoggio, ventuno persone e dal mitico Fabio alla guida di una Panda 4×4 che, nonostante non abbia l’uso delle gambe “corre” letteralmente in giro per il mondo a caccia di emozioni.
Viaggiare con un gruppo cambierà tutte le nostre abitudini, sarà importante trovare un compromesso che rispetti le esigenze di tutti. Una cosa non cambia: la sveglia!!!
Partiamo alle cinque per raggiungere il confine Kirghiso di Osh distante quattrocento chilometri. Incontriamo il corrispondente, una giovane ragazza carina e volonterosa, e gli autisti dei due vecchi Uaz, che si dimostrano da subito inaffidabili.
Attraversato il confine, ben presto finiscono le pianure desertiche che ci avevano accompagnato per diversi giorni. La strada sale circondata da un paesaggio da fiaba: montagne color smeraldo, corsi d’acqua impetuosi ed in lontananza prende forma la catena innevata dei settemila metri del Pamir.
Per la prima volta affrontiamo uno sterrato impegnativo, tanto che i mezzi d’appoggio viaggiano con qualche ora di ritardo rispetto alle moto. Le indicazioni della guida sono precise: “arrivate in cima al passo, poi avanti ancora per quattro o cinque chilometri e vi fermate al campo delle yurte, ben visibili dalla strada, lì ci accamperemo”. Arriviamo al valico a notte fonda, centrando tutte le buche sulla pista e zigzagando fra i numerosi camion a passo d’uomo. Un cartello indica: Tadlik pass 3615 metri. Incomincia la discesa e non si vede a un palmo. Di tanto in tanto dal nulla si materializzano enormi camion fermi in avaria. Guardo sconsolato questi uomini dai visi tirati, con gli occhi asiatici sottili, che lavorano bestialmente nella polvere e nel freddo della notte per riparare le gomme esplose per i carichi assurdi che questi mezzi trasportano.
Percorriamo quindici chilometri, nessuna luce a parte le stelle, poi in lontananza, finalmente, il “bagliore” di un villaggio. Una fioca lampadina da 10 watt illumina il cartello di una locanda. Entriamo, due famiglie sono riunite. Neanche il tempo per i saluti che ci invitano a tavola con i loro bambini. La cena è al termine, mangiamo quello che c’è: pane spalmato di panna dolce accompagnato dall’immancabile the. Mentre mangio avidamente, una bambina di circa due anni, per niente spaventata dai forestieri, si siede sulle mie gambe. La faccina è bruciata dal sole, gli occhietti stretti come una lama, mi guarda incuriosita e sorride. E’ una bella sensazione tenere in braccio questa tenera creatura che sembra provenire da un’altra galassia. Passano alcune ore, realizziamo che i trasporti con i bagagli non arriveranno mai. Un tizio ci indica un posto di ristoro dove per un dollaro a testa ci servono uova, pane e tortellini ripieni: magnifico!!! Entra un signore con un cappotto di pelliccia come fossimo in Alaska e ci accompagna in una yurta. Alcuni di noi trovano un comodo letto coperto di pelli, altri, meno fortunati, si stendono a terra su alcuni tappeti di lana. Le coperte abbondano perchè da queste parti d’inverno deve fare un freddo terribile. Prima di prendere sonno, una considerazione su queste popolazioni: gente semplice, pastori, agricoltori. Undici “vagabondi” motorizzati arriviamo all’improvviso di notte, loro li invitano a tavola, trovano di che sfamarli, procurano loro il necessario per dormire; non ci sono parole sufficienti per ringraziarli, solo eterna gratitudine.
Ci alziamo alle otto e poco dopo tutto il gruppo si ricompatta. Mancano solo 78 chilometri al confine cinese. La pista è orrenda, ed impieghiamo tre ore per arrivare in cima al varco di Ishkerdam, la frontiera da poco riaperta, dove centinaia di camion carichi di rottami ferrosi aspettano il momento propizio per passare. Trascorrono alcune ore e non abbiamo ancora notizie del mezzo che trasporta i bagagli. Arriva una jeep con a bordo turisti spagnoli. Chiediamo informazioni. La risposta è sinistra: un pulmino è precipitato nella scarpata e si vedono in fondo al burrone bagagli da turisti sparsi ovunque. E’ tardi, la dogana cinese chiude alle 18,00 di oggi, venerdì, e riapre lunedì mattina. Siamo bloccati!!!
La guida ritorna indietro per recuperare i bagagli e noi cerchiamo un posto per dormire. Sul piazzale zeppo di camion c’è un ricovero con alcune camere. Mi infilo in una di esse. Sembra una stalla!
Alcuni anni fa, in Marocco, ho dormito in una stalla: c’erano asini, capre, pecore e puzza, ma calore, dignità, energia primordiale. In questo posto non ci sono animali, ma gli umani che vi dimorano sono molto peggio. Abbruttiti dalla vodka e dalla fatica della guida snervante dei loro mezzi, arrivano in questo posto dimenticato da Dio a si fermano a riposare. Nessuno pulisce, il risultato è agghiacciante!
Ritorniamo indietro; a cinque chilometri c’è un piccolo villaggio. Incontriamo Raissa, una ragazza molto sveglia di diciotto anni che, in un ottimo inglese, ci propone una grossa casa con tre camere dove possono alloggiare 18 persone e un’altra casa più piccola con una camera da quattro. Le famiglie che vi abitano “traslocheranno” in alcune tende di fortuna.
Scelgo la casa di fianco al torrente che è un po’ isolata. Sonia, una donna di quarant’anni, vi abita con un cucciolo e i suoi bellissimi bambini: Nurjia e Oskar di dodici e sette anni.
Passa così la prima notte, in questa pulitissima casa di mattoni, in una stanza, steso con tre miei compagni su alcuni tappeti colorati, sepolto sotto linde e calde coperte di pile. Quando Sonia entra in camera per augurarci la buona notte e per spegnere la luce, tutto piomba in un buio profondo ed il silenzio è interrotto solo dal “rumore” del ruscello che presto si trasforma in una ninna nanna. Appena gli occhi si sono abituati all’oscurità noto una debole luce che entra da un’angusta finestra: cinque travi di legno sopra la testa sostengono il tetto, mi sento protetto, al sicuro, a casa.
Ci svegliamo presto la mattina e Sonia ci offre il the, che da queste parti si beve in abbondanza conversando piacevolmente, nonostante la donna parli solo kirghiso, sdraiati su un tappeto.
Passa veloce il sabato, completamente dedicato alle moto. I rottami persi dai camion sovraccarichi hanno trasformato la strada in un campo minato e abbiamo sei moto con le gomme a terra. Anch’io approfitto della pausa per sostituire le gomme da strada ormai usurate con nuove gomme tassellate, poi cambio anche l’olio motore ed il filtro. Nel villaggio di 200 anime tutti si sono attivati per sfamarci, qualcuno ha notato che un pollastro ruspante manca all’appello, sarà la base della nostra cena. La mattina successiva, una strana notizia serpeggia nell’aria. Una telefonata del nostro uomo in Cina ci avvisa che, nonostante la dogana sia chiusa, ci faranno entrare. Una bandiera bianca verrà issata dalla parte cinese, sarà il segnale per i frontalieri Kirghisi per farci passare. Carichiamo tutti i bagagli e ci presentiamo al responsabile Kirghiso che è seduto comodamente a tavola in pigiama per il pranzo. L’uomo ascolta con curiosità la nostra storia, si infila la divisa e, con un gruppo di militari, parte per appostarsi in mezzo alla terra di nessuno da dove è possibile vedere la bandiera bianca cinese.
Passano quattro ore fra telefonate dalla Cina tipo: “vi stiamo aspettando, perché non venite”, ma la bandiera non si vede e il comandante, che fin’ora era stato gentile e paziente, incomincia ad arrabbiarsi e ci “invita” ad uscire dal posto di frontiera. E’ tardi per tornare a dormire al villaggio, fa freddo e alcune nuvole scure minacciano pioggia, così decidiamo di campeggiare vicino alla dogana. E’ un luogo tranquillo di straordinaria bellezza, anche se c’è molta gente che va e viene. Ho lasciato KaTerina in una pietraia a poca distanza dalla mia tenda e la cosa mi preoccupa, non vorrei che qualche malintenzionato me la portasse via. Adesso che ci penso, con la mia “amica” seduta sul sellino non potrà capitarle niente di male: chi tocca muore!!!
A mezzanotte arriva una pattuglia di militari che vuole vedere i passaporti. Inutile spiegare a gente che parla solo russo che i nostri documenti sono chiusi in dogana. Dopo un’ora di discussioni interviene il corrispondente, che dormiva da qualche parte sonni beati, e tutto ritorna tranquillo. Rientro nella mia “tenda imperiale” e rifletto sugli ultimi accadimenti.
Il destino me lo immagino come uno di quegli orologi complicatissimi dove, ad ogni lieve spostamento di un ingranaggio, corrispondono centinaia di movimenti di altri meccanismi. Ogni momento è unico ed irripetibile, anche se estremamente variabile, esattamente come la vita.
La sbronza cronica degli autisti Kirghisi precipitati nel burrone ci ha fatto perdere tempo prezioso sulla tabella di marcia del viaggio, ma ci ha permesso di conoscere questo popolo incredibile che ci ha dato da dormire, ci ha sfamato e soprattutto ci ha trasmesso calore, affetto, e un equilibrio che la nostra società piena di ansie, stress e mancanza di sicurezza non conosce più. Da queste parti la ricetta per essere felici è semplice proprio come la popolazione che vi abita: una famiglia, un tetto sopra la testa e la salute.
La terra di nessuno è zeppa di rottami e mi viene voglia di scendere dalla moto e farmela a piedi, poi, passato un reticolato dove tristemente noto i resti dell’alta tensione, una curva e, finalmente, l’asfalto cinese. Nell’attesa faccio conoscenza con i militari che a turno vogliono assolutamente immortalarmi con le loro macchine fotografiche. La mia statura li diverte e vengo subito ribattezzato: “tascian”, elefante!
I controlli sono tanti; ci viene consegnata la patente, il libretto di circolazione e la targa cinese. Poi un marchingegno elettronico controlla la temperatura corporea. Al tramonto, dopo aver fatto rifornimento, partiamo. La strada attraversa catene montuose color terra cotta, dove l’erosione dell’acqua in alcuni punti rende il paesaggio quasi lunare. Saliamo di quota giusto in tempo per prenderci una bella grandinata, poi scoppia un violento acquazzone che mette a dura prova tutti noi. Arriviamo a Kashgar con il buio. L’hotel è moderno e confortevole e la cena, la prima in Cina, è un miscuglio di verdura e carne dai sapori diversi, ma niente male. Il the invece non ha nessun sapore.
Kashgar è famosa per il suo colorato e ricco bazar, punto di riferimento dello Xinjiang, ma anche la città vecchia è interessante, caratterizzata da stretti vicoli e case in mattoni, dove sembra che il tempo non sia mai passato. Vi sono numerosi negozi di libri, copricapi ed altri prodotti artigianali. Un vero labirinto polveroso la zona dei maniscalchi, fabbri, carpentieri e gioiellieri. Visitiamo anche il mausoleo di Abakh Hoja e la moschea gialla di Id Kah con il suo immenso giardino, dove possono trovare posto ben 8000 persone.
Non pioveva da vent’anni nello Xinjiang, ma stamattina da un cielo grigio piombo scendono pesanti scrosci d’acqua e fa freddo, tanto da costringerci ad indossare pile e tute antipioggia. Dopo trecento chilometri entriamo nel deserto di Taklimakan dove non piove più, ma imperversa una tempesta di sabbia, che non è rara in questo periodo dell’anno. Un vento teso laterale crea veri e propri turbinii di sabbia, riducendo la visibilità a pochi metri. In alcuni tratti il manto stradale è completamente coperto. Chissà come sarà felice il filtro dell’aria di KaTerina! Attraversiamo alcune oasi coltivate, piccole tregue nella tempesta, ed arriviamo a Hotan abbastanza provati dopo 530 chilometri; una cena veloce e finalmente a letto.
Wong la guida, che assomiglia moltissimo ad Arnold, è un tipo simpatico e sveglio. Questa mattina decide per una “desert road” che non è nemmeno segnata sulle mappe. Molto sicuro di sé dice: “ E’ più lunga di 160 chilometri, ma in ottimo stato. L’altra invece è una “bad road”.
Man mano che passeranno i giorni impareremo il suo linguaggio e scopriremo che “bad road” è solo il primo gradino di difficoltà nella scala dei valori di Wong.
Finora abbiamo solo costeggiato il deserto, oggi, invece, seguendo le indicazioni di Wong, lo percorreremo. Lasciata Hotan dove la vegetazione è scarsa, in meno di dieci chilometri siamo in pieno deserto. Magnifiche dune, apparentemente invalicabili, di un bel colore giallo e alte anche cento metri, ci annunciano che il Taklimakan non a caso si chiama “chi entra non esce”. Alla prima occhiata, sembra di essere in Libia nell’erg di Awbari e, controllando sulla mappa, mi rendo conto che il suo bacino e’ di 1500 chilometri: enorme!
Mi viene subito in mente Marco Polo. Come diavolo avrà fatto a passare di qui a piedi senza strade, carte, gps.
“Quando i viaggiatori procedono di notte, se uno di loro rimane indietro, e poi cerca di ritrovare il gruppo, gli spiriti gli parlano e costui crede che siano i compagni, confondendolo al punto da non fargli più trovare gli altri. Molti così si son perduti”. Il Milione, cap. 56, pag.36
D’accordo che aveva molto tempo a disposizione per i viaggi e non aveva problemi con le dogane, ma penso che, davanti a una simile vista, anche a un viaggiatore come lui saranno tremate le gambe. Ci rendiamo subito conto che Wong aveva ragione, l’asfalto è magnifico. Peccato che la solita tempesta di sabbia copra a tratti con piccole dune il manto stradale, costringendoci a zigzagare. Fortunatamente i cinesi stanno realizzando su questa strada un lavoro colossale: vista l’impossibilità di tenere pulita la lingua d’asfalto dalla sabbia, stanno creando delle barriere protettive con delle piante. Niente di eccezionale se il lavoro fosse fatto sulla riviera romagnola, ma in un posto come questo dove di acqua non ce né, il lavoro vero è creare la rete d’irrigazione artificiale. Per duecentocinquanta chilometri stanno lavorando come pazzi da ambo i lati. Marco Polo, se ripasserà di qua fra trent’anni, troverà un bellissimo e ombroso viale alberato!
La pista che da Quiemo conduce verso Rouquiang sembra finalmente uscire dal deserto. Lunghi rettilinei puntano decisi verso le montagne, abbiamo l’illusione di arrivarci, ma ad un tratto una curva a novanta gradi ci riporta nel Taklimakan. Lo sterrato è buono, la nostra media elevata. KaTerina lascia dietro di se una nuvola di impalpabile polvere bianca. Entriamo in una zona sabbiosa che si rivelerà una vera e propria trappola. Profonde impronte lasciate da mezzi pesanti ci mettono in grave difficoltà, superiamo alcuni camion finche’ … finiamo nel nulla: una cava di pietre che serve un grosso cantiere per la costruzione della nuova strada. Ritorniamo indietro. Entriamo finalmente nell’oasi della città e poi in albergo.
Ripartiamo presto, ci attende una “very very bad road” informa Wong. Appena lasciata l’oasi, entriamo in una stretta gola tra pareti di fango e attraversiamo alcuni guadi. Una ripida salita ci porta a 3900 metri di altitudine: la veduta è mozzafiato. Aspre montagne color bronzo degradano verso valle, scavate da un travolgente torrente che, di tanto in tanto, forma delle pozze di acqua limpida. Fanno da cornice alcune vette innevate. Incomincia una facile discesa, che in poco più di cento chilometri ci porta nei pressi di una cittadina. Fermo ad una stazione di rifornimento riesco ad osservare meglio questo strano luogo. Una cava di fosfati trasforma la zona in un deserto bianco; l’aria è irrespirabile e tutte le persone portano una mascherina protettiva: un vero girone Dantesco.
E’ il tramonto e siamo a Huatugou, su un altipiano ricco di pozzi petroliferi. Migliaia di persone hanno lavorato per anni nei campi di estrazione, poi, finiti i giacimenti, hanno abbandonato la zona. L’aspetto della città è desolante: palazzi sventrati e vuoti, vie deserte e poco illuminate, case diroccate. La cena in hotel, poiche’ fuori i pochi ristoranti sono chiusi o sono vuoti, è scadente e quando, alla fine del pasto a base di verdure dai mille sapori, spaghetti scotti e insipidi, arriva la solita zuppona grigia e scialba, dai tavoli si leva un coro di proteste nei confronti del povero Wong, che per farsi perdonare offre a tutti “glappa cinese” e annuncia serafico: “tomorrow, very very very bad road”! Per scongiurare la malasorte, tocco gli “amuleti”.
Nella vita di tutti i giorni non sono superstizioso. E’ facile non esserlo con un buon bicchiere di vino rosso in mano, seduto comodamente in poltrona, davanti ad un caminetto acceso, ma durante un viaggio in moto, lontano da casa, le cose cambiano e cerco di esorcizzare con qualsiasi mezzo i segnali di sventura.
Con questi presupposti e, consapevole di avere davanti una pista difficile di 560 chilometri, inizia una giornata di sole, salute e felicità, “apparentemente” come le altre.
Fin dall’inizio lo sterrato è pesante: buche, polvere, pietre grosse come meloni e decine di cantieri, dove migliaia di operai ci costringono a veri e propri percorsi di guerra incolonnati dietro a mezzi pesanti carichi e molto lenti. Il gruppo delle moto si divide. Dopo cinque ore e duecentocinquanta chilometri di “fuga” con un gruppetto di quattro aspetto il resto della compagnia in una stazione di servizio. Seduto su un gradino, inganno il tempo giocherellando con il mio braccialetto di perline colorate comprato in Etiopia da un giovane Hamer. Voleva vendermi uno dei tanti bracciali per turisti, pacchiani, non belli, quelli con la scritta: Etiopia. Aveva insistito tanto ed io per chiudere la trattativa e non offenderlo gli avevo detto: “ok, lo compro però voglio quello che hai tu al braccio ”. Lui rispose: “no”! Io avevo insistito dicendo che volevo un potente talismano; alla fine, a malincuore, se l’era sfilato dal braccio e me lo aveva dato. Gli avevo chiesto: “pensi che mi porterà fortuna”? Lui aveva risposto senza esitazione: “se tu ci credi sicuramente”. Da allora, lo porto con fierezza, grande rispetto e ci tengo in modo particolare. E’ un oggetto rudimentale, rosso e blu, mi piace tantissimo e …maledizione si sta rompendo. Non posso aspettare che caschi da solo e rischiare di perderlo: allora d’istinto lo strappo via. Senza bracciale mi sento nudo, mi ha sempre portato fortuna. Rifaccio gli scongiuri.
Sono passate quattro ore e il gruppo non si vede. Arriva una moto: brutte notizie!
Le jeep ed il pick-up hanno forato varie volte, Paolo ha piegato il cerchio anteriore della sua BMW 1150 GS su una grossa pietra, Fabio ha problemi con la frizione della sua Panda 4×4 e, per finire, anche Bruno ha una gomma a terra. Carlo, il nostro meccanico / gommista, oggi ha fatto gli straordinari aggiustando tutto quello che c’era da aggiustare. Sono le 19,00 e mancano trecento chilometri. Ripartiamo. Sono in pieno rettilineo a più di 100 km/h e KaTerina mi pianta. All’improvviso perde colpi, come se la benzina non arrivasse al carburatore, poi ammutolisce e si ferma. In un attimo è tutto finito. Rimango solo con la mia disperazione. Lhasa addio.
Da quando ci frequentiamo, cioè da 50.000 chilometri, non era mai successo.
Provo a rimetterla in moto: niente da fare. Poi il miracolo, all’inizio il motore gira male, dopo pochi secondi, come per magia, è tutto a posto. Sono molto in apprensione ed il buio ci sorprende sulla pista. La tensione del gruppo è alta, non si vede nulla, attraversiamo continuamente nuovi cantieri, evitiamo cumuli di ghiaia, pietre, bidoni di lamiera abbandonati sulla strada. Arriviamo in cima al passo; miracolosamente ricomincia l’asfalto. Facciamo una sosta in una specie di bar, ci viene servito un the che ci scalda un po’. Arriva Paolo, la sua gomma anteriore è semi afflosciata. Sono le 22,00, mancano 120 chilometri. La strada è una lunga discesa; Andrea fa da apripista con la sua Ktm LC8, che ha fari molto potenti. E’ una notte senza luna, la volta stellata è uno spettacolo incredibile, mi sembra di volare. Folate di aria tiepida annunciano che stiamo scendendo di quota, sento il caldo abbraccio del deserto. Mancano venti chilometri quando Stefano rompe l’alternatore della sua BMW R 100 GS: Paolone gli cede la sua batteria. Arriviamo in albergo all’una di notte. Il bilancio è terrificante: 6 forature per una jeep, 2 per il pick-up, 2 per le moto, problemi alla frizione per la Panda, un cerchio piegato, un alternatore bruciato e KaTerina sotto esame. Domani corro a comprarmi un braccialetto!!!
Approfittiamo della giornata di sosta a Dunhuang per fare manutenzione alle moto. La tensione di ieri è scomparsa dopo una sana dormita, ma sono come svuotato, senza forze.
Visitiamo la “Grotta dei Mille Buddha” alla periferia della città, il complesso comprende oltre 700 grotte, più di 2000 le statue che raffigurano Buddha e più di 40.000 i metri quadrati affrescati. Per il resto la città non offre altro, esclusa una cena da ricordare: carne alla griglia in un ristorante all’aperto nella piazza principale del paese. Straordinario il cosciotto di capra.
Golmud dista 500 chilometri. Dopo tanta fatica e peripezie sullo sterrato, oggi per KaTerina solo asfalto. Finalmente usciamo dal deserto di Taklimakan e ci avviciniamo all’altopiano Tibetano. Il cielo è velato e la temperatura è bassa. Sui lunghi e noiosi rettilinei mi capita spesso di abbassare la mano come per ascoltare il cuore di KaTerina. Ogni tanto le parlo come si parla a una compagna, cerco di rincuorarla dopo il piccolo incidente dell’altro giorno. Lei, rinfrancata, sembra ringiovanire. Ritorno ottimista, Lhasa è vicina.
Lasciamo Golmud anonima e rumorosa sotto la pioggia e, dopo pochi chilometri, la strada sale di quota. Un autobus molto lento improvvisamente frena per un’inaspettata curva verso destra. Freno anch’io, ma KaTerina sull’asfalto bagnato non si ferma, costringendomi ad un “dritto” fuori programma. Per fortuna c’è uno spiazzo prima del burrone e mi fermo. Arrivano Mirko e Nicoletta in sella alla loro BMW R 100 GS Paris/Dakar e non sono così fortunati; scivolano sull’asfalto viscido e cadono malamente. Nessun danno fisico, ma la moto purtroppo riporta seri danni: il coperchio valvole rotto e problemi gravi al cardano ed al cambio. La moto viene caricata sul pick-up.
Finiscono a terra anche Gianni e la sua Yamaha per una macchia d’olio resa invisibile dalla pioggia, per fortuna senza conseguenze. Arriviamo in cima ad un passo di 5100 metri, il tempo peggiora, davvero provvidenziale la tuta antipioggia. KaTerina arranca e stranamente non riesco a dare gas con le marce basse, mentre in quarta ed in quinta raggiungo i 3500 giri a fatica. Non dovrebbe essere niente di grave, probabilmente un cocktail di problemi creati dall’altitudine, dall’umidità e dalla benzina sporca. La temperatura è di zero gradi, sul passo ci coglie un fitto nevischio, che per fortuna non attacca all’asfalto, ma che ci informa che siamo entrati in Tibet. Ci fermiamo per la notte in un villaggio che assomiglia più a un rifugio per camionisti che a un paese. L’hotel è spartano, non ha le docce, ma è riscaldato con rudimentali stufe a legna. Si tratta di una stalla ristrutturata: un lungo corridoio separa due file di camere a tre letti e tutto sommato, a parte la puzza delle coperte “molto vissute” e i materassi dove ci ha dormito tutto l’esercito cinese, non è male. Andrea, Carlo, Paolo e Stefano, una squadra di meccanici da far invidia a Valentino Rossi, si mette al lavoro. In poco tempo smontano completamente la moto di Mirko e a tarda notte finiscono il lavoro. E’ un vero miracolo; la moto funziona!
La notte trascorre lenta ed insonne per tutto il gruppo, in preda al mal di montagna: 4900 metri di altitudine sono tanti.
Stanchi sotto un cielo che non promette niente di buono, siamo di nuovo in sella. Appena usciti dal villaggio incomincia una lunga salita che ci porterà a 5200 metri. Oggi è il 20 agosto, facciamo pochi chilometri e … nevica come a Natale! La strada si imbianca in pochi minuti e siamo costretti ad una sosta forzata in una locanda. Il posto di ristoro, riscaldato da una favolosa stufa posta al centro della stanza, è gestito da una simpatica coppia, che ci offre the al burro di Yak. Verso mezzogiorno c’è una schiarita che ci consente di ripartire. La cima del passo sembra non arrivare mai, la strada è pulita dal passaggio di numerosi mezzi pesanti, mentre il paesaggio intorno è tipicamente “scandinavo”. Qualche raggio di sole finalmente riscalda le umide ossa, scendiamo a valle, anche se sull’altopiano Tibetano praticamente non si scende mai sotto i 4600 metri e veniamo accolti da una bella grandinata. Chicchi grossi come cozze rimbalzano sul cupolino di KaTerina e sul casco. Arriviamo a Nacqu dopo 430 chilometri veramente duri, ed alloggiamo in un moderno e comodo albergo con letti puliti e profumati, un elegantissimo bagno di ceramiche nere … dove la doccia ed il water sono stati rimossi.
Ripartiamo sotto una fitta pioggia; nessun problema, oggi, se tutto va bene, arriveremo a Lhasa. Decido di portarmi avanti, non perché non amo la compagnia degli altri motociclisti, tutt’altro, ma là davanti senza riferimenti “stacco un po’ la spina”. E’ una specie di stato di grazia che mi permette di vagare con i pensieri pur mantenendo una guida sicura.
Sono partito da un mese, ho percorso più di 11.000 chilometri, e mi sono completamente abituato ai ritmi dettati dal viaggio e dai continui cambiamenti climatici; sto così bene che potrei fare il giro del mondo in moto. A casa la mente è bombardata quotidianamente da pensieri che confondono i valori fondamentali della vita. E’ come stare in una libreria dove regna il disordine e quando cerchi di sistemare un libro, o non hai il tempo per farlo, oppure ne sistemi uno ed altri dieci vanno fuori posto. E’ una lotta impossibile. In viaggio il cervello si libera dai pensieri superflui e lascia spazio a tutto ciò che è importante. Come per magia ogni cosa ha la sua collocazione; se hai bisogno di qualcosa immediatamente, la trovi. Mentre sono in moto, immerso nel viaggio, mi rendo conto di essere più vicino alle persone che amo più che in ogni altro luogo. Passano le immagini della mia famiglia, di chi mi aspetta sempre in apprensione, come mia mamma, Caterina, la mia dolce compagna o di chi non c’è più, ma rimane un punto di riferimento nel mio cuore.
Mio nonno Enrico pesava 130 chili, ed ogni mattina, con un giaccone di pelle che stava in piedi da solo, una sciarpa di lana arrotolata al collo ed un paio di occhialoni da aviatore, partiva con la sua Moto Morini 125 cc a due tempi. Non andava lontano. A quei tempi, nei primi anni 60, la moto era più un mezzo di lavoro che di divertimento, ma ricordo bene la sua faccia quando saliva in moto. Aveva un volto soddisfatto, da viaggiatore. Chissà, forse ho preso proprio da lui la passione per la moto.
Centosettanta chilometri volati in un attimo; neanche mi sono accorto delle magnifiche montagne verdeggianti, degli animali al pascolo, del fine nevischio che rimbalzava sui miei occhiali, del tratto fangoso che ha cambiato per l’ennesima volta il colore della moto e degli indumenti e dell’enorme yak grigio che mi inseguiva perché probabilmente aveva scambiato KaTerina per un sua vecchia “fiamma”.
Meno di 130 chilometri mi separano da Lhasa; sembra passato un secondo dal giorno della partenza. Il benzinaio sotto casa mia, mentre mi faceva il pieno di carburante, mi aveva chiesto: “dove vai”?. Avevo risposto: “in Cina”. E lui: “cosa fai, mi prendi in giro”?
Sembrava davvero uno scherzo, allora per non dimenticarmi della meta avevo scritto sulla piastra del manubrio: “Goooooo… to Lhasa”, poi avevo sussurrato nelle prese d’aria di KaTerina: “te la senti di portarmi in Tibet”? Lei, come sempre, non aveva risposto, ma aveva capito.
Strapazzata dal caldo insopportabile dei deserti, umiliata dai carburanti “poveri”, privata di buona parte di energia dalle altitudini aeronautiche, portera’ pazienza ancora per un po’.
Inizia una lunga discesa, la velocità è elevata, il paesaggio circostante scorre veloce, quasi sfuocato. Che fine avrà fatto la mia “compagna” del sellino posteriore? Immagino sia indaffarata come sempre a “falciare” vite! Da queste parti viene continuamente beffata! Appena un’ anima lascia il suo corpo mortale, subito si reincarna in un’altro e lei non sa più che “pesci pigliare”. Poverina!
Usciamo da una stretta gola che immette su un viale alberato, pochi chilometri, un rettilineo, poi una grande scritta appare improvvisamente: “Welcome to Lhasa”!
Accosto a destra, ed attendo le jeep. Ho promesso a Roberto, il nostro motociclista di “riserva”, di aspettarlo. Ha sostituito in più di un’occasione i motociclisti “titolari” impossibilitati alla guida per febbroni, mal di pancia e acciacchi di ogni genere. Motociclista fino al midollo, mi sembrava giusto che entrasse a Lhasa in moto. Non me ne voglia KaTerina per il peso supplementare che dovrà sopportare per questi ultimi chilometri.
La città, cuore e anima del Tibet, è moderna, ma la visione del Potala mi crea una forte emozione. E’ enorme, bianco e ocra: sembra una fortezza. Durante la visita guidata mi rendo conto che il simbolo del potere Tibetano è un immenso museo. Interessante il suo interno con più di 2000 stanze collegate da stretti corridoi ed anguste e ripide scale. La mia sensazione, nonostante ritenga sia un posto straordinario, è che nel Potala manchi la “luce” e di conseguenza la vita. Sembra un luogo sprofondato in un lungo letargo, che aspetta il ritorno di un soffio vitale. Il Dalai Lama è in esilio in India da troppi anni.
Visitiamo anche il Jokhang, l’edificio sacro più venerato del paese, brulicante di fedeli, dove si respira un’aria magica. Chiudiamo questa giornata sul tetto del palazzo che ci regala l’ultima immagine del Potala e della città proibita. Ho visto alcune vecchie foto di questa città, scattate prima del 1950, anno dell’occupazione cinese, che si concluse con 1.200.000 morti da parte tibetana e la distruzione quasi totale delle costruzioni storiche del paese. Shol, il villaggio ai piedi del Potala, è scomparso per fare posto ad un enorme piazza moderna stile Tiananmen dove è stato innalzato un monumento alto 30 metri per celebrare il 50° anniversario della “liberazione”.
Lhasa propone ai visitatori il meglio ed il peggio del Tibet contemporaneo. Nonostante offra ancora testimonianze storiche di pregio, è qui che il dominio cinese mostra in maggior misura il livello di modernizzazione. Lascio questa città con molta malinconia, nella speranza che in futuro il Tibet abbia maggior autonomia.
Facciamo una rapida visita al monastero di Sera, a soli 5 chilometri da Lhasa, e proseguiamo per il monastero di Ganden, arroccato su un monte dove si può ammirare la stupenda valle Kyi-chu. Arriviamo giusto in tempo per ascoltare i monaci mentre intonano i loro canti/preghiera. L’intensa giornata finisce a Zhigung, uno sperduto villaggio di montagna, dove è possibile visitare l’omonimo monastero che ospita un “Dhurtro”, ossia un luogo dove i defunti, dopo essere stati fatti a pezzi, vengono lasciati agli uccelli. Pernottiamo in una Guest-house. L’alloggio, spartano, offre diverse camere a più letti. Le pareti sono completamente decorate ed il soffitto ha delle travi in legno, dipinte di blu intenso, che contrasta con l’arancio delle tende. Non ci sono docce, e i bagni al primo piano, raggiungibili da un ponticello di legno all’aperto, sono tipicamente Tibetani: locali spogli, con due spaccature di un metro per quaranta centimetri sul pavimento, e sotto … un tanfo incredibile.
Ripartiamo puntando nuovamente su Lhasa per proseguire verso Est, seguendo il corso del fiume Yarlung fino a Tsedang, terza città per grandezza in Tibet, che non ha molto da offrire, ma è un’ottima base di partenza per visitare il monastero di Samye. E’ il più antico monastero del Tibet, con 1200 anni di storia alle spalle. Situato in una valle sabbiosa, è raggiungibile attraversando il fiume con rudimentali barche. Il disegno architettonico si basa su quello del tempio di Odantapuri, a Bihar, in India, ed è una rappresentazione mandalica dell’universo. Il tempio centrale simboleggia il monte Meru, mentre i templi, disposti tutt’intorno in due cerchi concentrici, rappresentano gli oceani, i continenti e i subcontinenti, che circondano la montagna nella simbologia buddhista. Durante la nostra visita, alcuni giovani monaci sono intenti alla realizzazione di un mandala con le polveri colorate. In un angolo, noto un anziano monaco solitario, che prega ciondolando con il corpo. Mi avvicino e mi siedo accanto a lui, che mi sorride. D’istinto, allungo la mano e stringo la sua. La stretta sembra durare un’eternità. Il monaco mi trasmette grande serenità e benessere e mi rendo conto che potrei raccontare a quest’uomo tutta la mia vita; sembriamo amici da sempre. Esco da questo luogo magico e noto con piacere che mi sta seguendo con lo sguardo, senza smettere di pregare: il sorriso è dolcissimo.
Io e KaTerina non eravamo mai stati a 5450 metri di altitudine!
Ancora una volta il destino ci riserva grosse sorprese.
Da Tsedang a Gyangzè sono “solo” trecento chilometri di tragitto asfaltato. Wong ci informa che un enorme cantiere di 250 km ci sbarra la via. In Cina non hanno problemi di mano d’opera e fanno le cose in grande. Migliaia di persone lavorano di gran lena e molto ben organizzati: in pochi mesi asfalteranno centinaia di chilometri. L’alternativa sarebbe quella di seguire la pista per Nyemo, per un passaggio secondario, ma una frana chiude anche questa possibilità. L’unica soluzione che ci rimane è quella di ritornare a Lhasa, andare a Nord per ottanta chilometri e poi prendere la “mulattiera” che conduce a Xigazè. Uno scherzo da seicento chilometri e … “very very very bad road, but wonderful place” aggiunge il mitico Wong, che viene coperto di ingiurie.
Nei primi chilometri il tracciato è buono, poi un gigante di roccia ci sbarra la strada, le pendenze si fanno impressionanti e il paesaggio maestoso.
KaTerina arranca sulla ripida salita e l’ammortizzatore posteriore, già provato dal viaggio, scoppia definitivamente, lasciandomi un moto che, ad ogni dosso, salta come un canguro. Un paio di tornanti da brivido, le “bandierine / preghiera” colorate e la mancanza d’aria, che mi fa sentire come un giovanotto di novant’anni, annunciano che finalmente sono in cima al passo. La discesa è lunghissima, tra verdi vallate e fiumi tortuosi color fango. Ad una sosta su una diga, ci raggiunge una delle due jeep con notizie poco confortanti: l’altra ha problemi con la pompa della benzina.
Il gruppo dei motociclisti decide di proseguire per evitare il buio che incombe. Ricomincia l’asfalto, solo pochi attimi di tregua, poi la guida ci indica una “scorciatoia”. Il paesaggio è straordinario: sparuti villaggi, deboli corsi d’acqua, piste sabbiose e simpatiche popolazioni locali. Una vera prova speciale enduro di quaranta chilometri molto divertente.
Gli ultimi chilometri li percorriamo con il buio. Arriviamo alle 23,00 a Gyangzè, dopo aver evitato alcuni carretti sprovvisti di luce, grosse pietre abbandonate sul selciato e montagne di ghiaia. La città, completamente sottosopra per lavori, ci costringe ad un ultimo e faticoso percorso di guerra. Quindici ore di moto per oggi bastano!
Chi arriva in questa città ci viene per visitare il Kumbum. Situato nel complesso monastico che comprende il monastero di Pelkor Chode, ha una struttura di 35 metri, composta da quattro piani simmetrici e sormontata da una cupola d’oro, che s’innalza come una corona su quattro paia d’occhi che guardano serenamente verso i quattro punti cardinali. Abbiamo solo mezza giornata per visitare questo luogo, poi tutti in sella per Xigazè, che dista soltanto cento chilometri. Un breve trasferimento rilassante, se non fosse per la gomma posteriore di Bruno, scoppiata e finita letteralmente in pezzi, che ci fa perdere due ore. Arriviamo in città nel primo pomeriggio, giusto in tempo per visitare il monastero di Tashilhunpo, il più grande aggregato monacale del Tibet, separato dalla città da una cinta muraria. E’ l’unico ad avere superato la tempesta della Rivoluzione culturale e, tra le note dolenti, c’è, anche se non ci sono prove per avvalorare queste ipotesi, che alcuni monaci pare siano in combutta con le autorità cinesi.
Da Xigazè in poi, l’asfalto è utopia! Lo sterrato in compenso è buono, talvolta raggiungiamo velocità elevate, altre volte buche enormi ci rallentano molto. In tre ore percorriamo 150 chilometri e raggiungiamo Lhazè, dove inizia una salita che ci porta di nuovo a 5200 metri prima di arrivare a Tingri nel Qomolangma National Riserve, dove ci sono alcune delle cime Himalayane più importanti. Pernottiamo ad Old Tingri in una guest-house spartana, ma accogliente. Le camere non hanno bagni privati, ma un grosso contenitore sul tetto con la scritta: “shower” ci fa intendere che è possibile fare una doccia bollente, un vero toccasana dopo 300 chilometri di pista.
Oggi è un giorno importante! Ci aspetta una dura, ma esaltante prova: arrivare al campo base Everest! Partiamo alla spicciolata, Bruno ha già una gomma a terra. Ad un cartello blu dove una scritta recita: “Qomolangma Base Kamp 101 km” ossia Everest Campo Base, lasciamo una facile pista pianeggiante per una specie di mulattiera tanto stretta da permettere il passaggio ad una sola auto alla volta. KaTerina sobbalza paurosamente fra buche, pietre, fango, ma non molla. Di tanto in tanto incrocio alcune jeep; una guidata da un pazzo per poco non mi centra in pieno. E’ come una tappa di montagna del giro d’Italia in bici: Gianni è davanti a me di parecchi chilometri, da dietro ogni tanto sbucano Paolo o Stefano, ma sono solo, lanciato verso il gran premio della montagna, quando leggo in cima al passo 5200 metri. La veduta è sconvolgente! Seduto comodamente sulla moto, posso vedere davanti a me alcune delle vette più importanti del mondo: Cho-Oyu 8153 mt., Lhotse 8511 mt., Makalu 8481 mt., Changtse 7583 mt e l’Everest. Arrivo in un villaggio, l’accoglienza e’ calorosa; mancano solo 50 chilometri. L’ultimo tratto è veramente duro. Dopo una bella salita e una gola con le pareti a strapiombo su un dirompente fiume , imbocco un tornante che mi toglie la visuale; di nuovo un tratto molto ripido e poi una visione da togliere il fiato. Circondato da nuvole bianche, ma perfettamente visibile, enorme, spicca il monte Everest, la montagna più alta del pianeta. E’ con una forte emozione che “parcheggio” KaTerina in bella vista al campo base a 5300 metri per le foto di rito. Abbiamo percorso insieme 13.700 chilometri ed ora siamo qui a goderci questo spettacolo straordinario.
C’è solo il tempo di vedere alcuni yak carichi di una spedizione olandese avviarsi verso il campo base avanzato, mangiare un piatto di riso, poi il tempo peggiora e decidiamo insieme a Gianni, Stefano, Bruno, Paolo e Fernando di scendere a valle.
Dopo pochi chilometri, Paolo rimane con una gomma a terra ed è costretto ad aspettare la jeep, mentre il resto del gruppo arriva davanti all’indicazione: Old Tingri 50 km. La guida tibetana ci aveva sconsigliato questa pista, ma, considerando che ci farebbe risparmiare 50 km., ci eviterebbe il passo a 5200 metri, dove alcune nuvole nere minacciano pioggia, e soprattutto visto che i motociclisti sono un misto di incoscienza ed ardore, ci guardiamo tutti in faccia per qualche secondo, poi avanti per la via più breve. I primi chilometri zigzaghiamo dentro e fuori un torrente, attraversiamo alcuni villaggi ed evitiamo pietre grosse e taglienti, poi, dopo una lunga salita, la pista scompare nella pietraia. Seguiamo il nostro istinto, che ci porta dritti sull’orlo di un burrone; scendiamo a tentoni da una scarpata finche’ ritroviamo la pista. Tutti noi pensiamo di essere fuori dai guai, ma un’altura di granito ci sbarra il cammino; siamo costretti ad entrare nel letto di un torrente fra una gola da brividi. Quando Old Tingri è finalmente in vista la soddisfazione è alta.
Francamente siamo stati tutti bravi, ma Bruno e Fernando, con moto pesanti come una BMW R 1100 GS e una BMW R 80 GS e 133 anni in due, davvero straordinari.
Il gruppo si ricompatta dopo circa tre ore. Mirko, purtroppo, ha rotto la sua BMW; il supporto dell’ammortizzatore ha divelto la fusione del cardano e la moto inservibile è stata caricata su un camion.
E’ l’ultima sera in Cina; da domani niente zuppona!
Dopo duecento chilometri arriviamo a Nyalam, che è arroccata tra le montagne. La traduzione del nome della città è piuttosto sinistra: “la porta dell’inferno”! Infatti sembra proprio di scendere agli inferi, tra nuvole biancastre che sembrano vapori di zolfo. In pochi chilometri scendiamo dai 4000 metri della Cina dal clima secco e fresco, ai 1800 metri del Nepal dal clima monsonico. La strada, tutta di pietre, è scavata nella parete rocciosa della montagna, e la fitta pioggia ci costringe a passare sotto numerose cascate. Dopo avere attraversato il “ponte dell’amicizia”, arriviamo alla dogana Nepalese. Le notizie non sono buone: alcune frane bloccano la via per Katmandu. E’ tardi e ci fermiamo nell’unica guest-house di Kodari, la cui posizione è raccapricciante: una cascata da un lato, ed un torrente gonfio di acque limacciose dall’altro. La cucina nepalese è ottima, ma terribilmente piccante. Le camere, invece, “pestilenziali” e sporche, con i letti uno attaccato all’altro.
Partiamo presto la mattina, grazie anche al fuso orario di due ore favorevole. Carichiamo tutti i bagagli su un camion per la modica cifra di duecento dollari: ci porterà fino alla prima frana, che dista sei chilometri. Lo smottamento ha un fronte di circa trecento metri; dalla montagna sono precipitati numerosi macigni e detriti, poi l’acqua piovana ha scavato due piccoli torrenti. Una cosa è subito chiara: sarà dura passare in moto e impossibile transitare in auto. Infatti, le moto passano a fatica; ogni pilota ha almeno quattro assistenti che lo aiutano nell’impresa. Il mezzo di Mirko viene trasportato a braccia con l’ausilio di alcuni pali e per Fabio e la sua Panda 4×4 non c’è niente da fare. Ricarichiamo tutto su altri mezzi, poi risalgo per l’ennesima volta la frana. Fabio ed io ci salutiamo. Lui, ottimista come sempre, mi dice che ha visto un piazzale tranquillo dove passare la notte. Ci lasciamo con le lacrime agli occhi; questo posto è troppo piccolo e pericoloso anche per un grande viaggiatore come lui. Allontanandomi verso valle noto un certo fermento. Il villaggio si è accorto che il crollo ha bloccato Fabio. Ad occhio, almeno duecento persone stanno lavorando con pale, picconi e tanta buona volontà. Scendiamo a valle e dopo cinque chilometri una frana di fango blocca il camion che trasporta i bagagli, mentre le moto passano facilmente. Nuovo trasbordo di valigie su nuovi mezzi. Marco con la sua BMW R1150 GS scende a passo d’uomo, ma non può evitare un ragazzino carico di canne che gli attraversa improvvisamente la strada. L’urto è inevitabile, il bambino ha una contusione alla testa, scoppia un po’ di confusione, arriva il padre del piccolo, decidiamo di accompagnarlo in un ospedale che dista 70 chilometri. Improvvisamente, sbuca la Panda di Fabio, i duecento volontari sono riusciti a fare in poche ore quello che un buldozer avrebbe fatto in due giorni. Carichiamo il bambino sulla Panda e partiamo. Il gruppo dei motociclisti si divide come sempre, ed io mi ritrovo da solo su questa strada che alterna pietre e fango a tratti asfaltati. Scoppia un nubifragio e decido di fermarmi in una piccola rivendita appena oltrepassato un villaggio. Ho molta sete, il proprietario, gentile, mi fa sedere all’interno del negozio di due metri per due. Da un lato, una porta mi mostra il locale cucina. Due donne, una con un neonato in braccio, siedono su due delle tre sedie, differenti l’una dall’altra, e un uomo siede su una panchina in legno, intorno ad un tavolo e mangiano qualcosa. Sotto il tavolo, una gallina nera becca qua e la’ indisturbata, e sopra una mensola appesa ad un muro a due metri di altezza, una chioccia sta covando le uova dentro una scatola di cartone. In un baleno mi ritrovo con un piatto fumante in mano. Il cibo è molto piccante, si tratta sicuramente di pollo e verdura. Improvvisamente, un grosso topo nero e lucido attraversa il locale e si infila sotto le mie gambe facendomi sobbalzare. I miei gentili amici, niente affatto sorpresi, mi guardano e sorridono.
La potenza del monsone è impressionante; acqua a fiumi per un’ora, poi, di colpo, il sole, e l’asfalto si asciuga in pochi minuti. Riprendo il viaggio; alle mie spalle sbuca Bruno e percorriamo insieme un tratto di strada fra campi coltivati, villaggi, animali che “riposano” sul selciato, montagne e vegetazione lussureggiante. Mancano solo trenta chilometri a Katmandu, e decidiamo di aspettare il gruppo vicino all’ospedale dove Fabio ha accompagnato il nostro piccolo amico infortunato. Gli accertamenti e le lastre hanno dato esito negativo; solo alcune escoriazioni e un po’ di spavento. Arriva Paolo ed è molto agitato. Alcune moto sono rimaste intrappolate da una “colata” di fango scesa in seguito all’acquazzone. Niente di grave, ma un’altra faticata per “guadare” la frana con la melma fino alla cintola.
Ripartiamo verso la capitale del Nepal e scoppia un nuovo temporale. Arriviamo in città all’ora di punta, il traffico è intenso, ma la gente sembra abituata a simili acquazzoni. Per me e per KaTerina, dopo 14.000 chilometri, è una doccia purificatrice. Arriviamo in albergo nel centro della città che è quasi buio grazie ad un taxi che ci indica la via. Ottimo l’hotel per dieci dollari a testa.
Usciamo in perlustrazione nella tarda mattinata, ma ci aspetta una brutta sorpresa. Alcuni ostaggi nepalesi sono stati barbaramente uccisi in Iraq e, di conseguenza, alcuni manifestanti si sono scagliati contro la minoranza musulmana, incendiando negozi ed altro. La situazione è pesantissima. Alle 14,00 il governo impone il coprifuoco. L’aspetto di una città con cinque milioni di abitanti sotto coprifuoco è spettrale: negozi chiusi, posti di blocco militari ovunque, niente auto, ne persone. Un vero deserto! Non abbiamo scelta: dobbiamo stare chiusi in albergo! Passa un giorno ed il coprifuoco viene riconfermato ad oltranza. Decidiamo di lasciare Katmandu e trasferirci a Baktapur, a venti chilometri di distanza. Lasciamo l’albergo durante il coprifuoco: la città in alcune zone è stata saccheggiata e bruciata. I resti di alcune barricate di gomme incendiate rimangono a testimoniare la lotta che si è svolta ieri. Usciamo in fretta dalla città sotto il controllo dell’esercito che ci guarda più con curiosità che con preoccupazione.
Baktapur è una stupenda cittadina, dove le case sono completamente in mattoni, ricca di templi e di gente rilassata. Finalmente un po’ di pace.
E’ l’ultima tappa quella che da Baktapur ci porta nell’area cargo di Katmandu, dove consegneremo le moto per la spedizione aerea in Italia.
Rientro ancora una volta in questa città sotto coprifuoco, che il destino beffardo mi ha negato ed interpreto la cosa come un invito a ritornarci in una prossima avventura.
Un lungo rettilineo, poi intravedo la costruzione di mattoni rossi dell’aeroporto, una curva e … quasi dimenticavo, che fine avrà fatto la mia amica seduta dietro?
Guardo nello specchietto e rivivo in un attimo tutte le emozioni provate.
E tu “amica” mia, dove sei? Rimani pure lì se vuoi, seduta, comoda, non mi dai fastidio, anzi mi fai apprezzare di più la vita, continua pure a muovere le pedine sulla scacchiera della vita, io cercherò di inventarne sempre di nuove per resistere. Sappiamo bene tutti e due che alla fine tu vincerai, ma non adesso, ho ancora voglia di curiosare in giro per il mondo, di ubriacarmi di emozioni, di arricchire il mio spirito. Aspetta paziente, ti prometto che un giorno o l’altro …forse… mi avrai e non mi chiedere perché non sono ancora pronto, ti potrei dare mille risposte, inventarmi mille scuse, non dimenticarti che, oltre alla passione per i viaggi in moto, sono un abile “venditore”, perciò potrei raccontarti mille bugie, ma per ora accontentati di una sola grande verità: Amo follemente KaTerina!!!