Articolo pubblicato da Mototurismo N.168 – marzo 2009
Tortuguero Moto Raid (Costa Rica, Nicaragua, Honduras e Guatemala)
Sotto il segno del Grande Giaguaro.
Acqua, Aria, Terra e Fuoco nelle foreste pluviali del Centro America in compagnia di scimmie urlatrici, pappagalli, caimani, serpenti corallo, bradipi e tartarughe giganti.
Bastava uno sguardo di “Pike” per convincere “Il Mucchio Selvaggio” ad intraprendere una nuova avventura. Anche per noi è stato sufficiente un incontro, una cena tra amici davanti a una buona bottiglia di vino e la voglia di stare insieme. E’ nata così, quasi per caso, l’idea di questo viaggio. Costa Rica, Nicaragua, Honduras e Guatemala, paesi che nessuno di noi ha mai visitato, e che sappiamo avere molto da offrire. San José ci accoglie con il suo cielo carico di pioggia, la temperatura fresca e un alto tasso d’umidità. Le pratiche per lo sdoganamento dei mezzi sono lunghe. Gli addetti doganali si ostinano a non usare il “carnet de passage en douane”, un importante documento riconosciuto da quasi tutte le frontiere del mondo, e di conseguenza devono riempire tutti i moduli a mano, ma, grazie ad Alejandra, una volonterosa e gentile ragazza dell’agenzia dalle “curve” mozzafiato, siamo “fuori” in due giorni. Lasciamo l’Hotel Casa Oshun gestito magnificamente dal gentilissimo proprietario Manuel e puntiamo direttamente verso il Vulcano Arenal. L’hotel, a due passi dalla statale Panamericana, è in posizione strategica per uscire indenni dal caos di San José. Percorsi cinquanta chilometri è già l’ora di testare le tute antipioggia sotto un vero e proprio nubifragio. Il gruppo dei motociclisti procede compatto lasciandosi presto alle spalle la piccola Suzuki Vitara e il carrello carico di bagagli di Claudio e Giuseppina, che ha qualche difficoltà a superare i numerosi mezzi pesanti che battono la trafficata statale Centro Americana. Il paesaggio fra le verdissime colline punteggiate di mucche al pascolo è tipicamente “svizzero”. La rossa Honda XR 650 di Mirco si spegne in continuazione. La “fantastica” Honda preparata per questa nuova avventura, se avesse il magico bottone per l’avviamento elettrico, potrebbe anche essere l’ideale compagna di viaggio, ma, viste le grandi fatiche per farla ripartire con la pedivella, mi sa tanto che c’è già aria di divorzio. Mirco, a causa del suo stile di vita garbato e aristocratico, per gli amici è “Il Principe”, mentre per me é “Nuvola Rossa”, dopo tutta la polvere rossa che mi ha fatto mangiare l’anno scorso sulle piste boliviane. Avvolto dalle nuvole, da qualche parte, dovrebbe esserci il fumante Vulcano Poas, ma dei suoi duemilasettecento metri di altezza e del suo cratere colmo d’acqua turchese lattiginosa, da cui emanano gas sulfurei non c’è traccia. Arrivati a La Fortuna invece, non abbiamo 2 fortuna. Il Vulcano Arenal, da sempre in attività e famoso per le sue improvvise esplosioni ed eruzioni, l’ultima nel 2000, dista solo sei chilometri, ma non é assolutamente visibile. Cerchiamo riparo da questo uragano dei poveri declassato a tempesta tropicale all’albergo La Pradera, bello e confortevole. Durante la notte smette di piovere. La tregua finisce appena ci rimettiamo in sella. Lungo la via, di tanto in tanto la splendida laguna Arenal fa capolino dalla nebbia. Il tempo migliora solo quando arriviamo in pianura, anche se il cielo che continua ad essere color piombo non promette niente di buono. Raggiungiamo la dogana con il Nicaragua, dopo aver superato un’interminabile colonna di camion. E’ l’ora di pranzo! Da queste parti per fortuna la pausa pranzo non esiste, ma le file in dogana sono terribili. Impieghiamo quattro ore per raggiungere il piazzale fangoso che ci separa dall’ultimo controllo. Le scritte “Viva Nicaragua!” e “Viva Sandino!” ci danno il benvenuto lungo la bella strada asfaltata che conduce a Granada, mentre il sole tramonta inghiottito dalla fitta vegetazione sui piccoli stagni, sui cavalli e sulla gente sorridente. Entriamo a Granada usando un taxi come guida. L’albergo prenotato nel centro storico, grazie alla cortesia di u n addetto della dogana, è molto carino, ma senza parcheggio. La popolazione locale accorsa a darci il benvenuto ci sconsiglia di lasciare le moto incustodite per due giorni. Per fortuna la caserma dei “bomberos”, cioè dei pompieri, è a pochi minuti dall’albergo e il parcheggio per una notte costa solo un dollaro. Granada, una bella città coloniale, colorata e pulita è stata costruita nel 1524 dagli spagnoli. Il Parque Central, rinfrescato dall’ombra di manghi e malinche con la Cattedrale, costituisce il centro della città. Tra i numerosi alloggi spicca il Colonial, un bell’albergo di lusso ricavato da una stupenda casa coloniale che si affaccia sulla piazza. L’enoteca del locale è fornita di vini di livello internazionale dove non mancano etichette francesi, cilene, californiane e italiane. Proseguendo per Calle La Calzada, ricca di bar e ristoranti, si arriva fino al “Cocibolca” che significa mare dolce, cioè il Lago Nicaragua. La calura e l’elevato tasso di umidità sono insopportabili e non possiamo che approfittare dei “Licuados” succulenti, fresche spremute di frutta a base di ananas, mango, papaia e banana. Durante una sosta rinfrescante chiediamo alla proprietaria del locale di indicarci un ristorante per una tipica cena nicaraguense. “Gorda, gorda, gorda,” urla la donna lungo la via. La gorda, una “grossa” sudata e simpatica donna di colore non tarda ad arrivare a prendere la prenotazione. La cena, a base di carne di manzo, maiale, pollo, pesce di lago, platano fritto e “gallo pinto” , cioè riso e fagioli, viene preparata su una griglia lungo la strada. I tavoli e le sedie spaiate sono arraffate qua e là, ma la cuciniera si rivela all’altezza della sua fama e il pasto, per soli tre dollari a testa, è ottimo. Lasciamo Granada e le pianure del lago Nicaragua per i meravigliosi altopiani ricoperti di vegetazione. Le strade, ricche di curve, sono degne di essere percorse in motocicletta. La grande goduria motociclistica è interrotta solamente dai fastidiosi e microscopici “mosquitos” che si infilano nelle maniche della giacca e mordono a ripetizione. Anche alla dogana con l’Honduras perdiamo cinque ore per le solite pratiche lunghe, noiose e costose, ma Danli, a pochi chilometri, è raggiunta prima del tramonto. Nella cittadina di 3 montagna, ordinata e pulita, si respira un’aria fresca e tranquilla, ma… “Attenti ai Bandidos” avverte un benzinaio protetto da una guardia armata di fucile. Anche in albergo, guardato a vista da due “pistoleri,” si respira aria di rapina, ma tutto sommato mi sembra un posto tranquillo. I sonni beati sono infranti dalla sveglia sadicamente puntata alle quattro, per essere pronti a partire prima dell’alba, ossia un’ora e mezzo più tardi. Questo é il tempo necessario per avviare il gruppo. E’ ancora notte fonda, fa freddo e c’è un nebbione da fare invidia alla pianura padana a novembre. Per fortuna la nebbia ha i minuti contati e cede di schianto sotto i raggi del sole che illuminano la fitta foresta di abeti e la bella strada tutta in discesa che conduce a Tegucigalpa. Superata la capitale dell’Honduras decidiamo di seguire la “Ruta Lenca” sterrata, panoramica e imprevedibile, invece della comoda strada asfaltata che conduce direttamente a Santa Rosa de Copan. Arrivati a Marcala, un villaggio striminzito, incontriamo due poliziotti su un pick-up che ci informano degli ultimi accadimenti. “La bella strada asfaltata finisce tra dieci chilometri, girate a destra al cartello stradale giallo, la deviazione vi condurrà sulla vecchia carretera sterrata e… non vi preoccupate dei banditi, ne abbiamo appena eliminati tre, ora è tutto tranquillo”. Ringraziamo di cuore i simpatici gendarmi per averci spianato la via e ci infiliamo di gran carriera lungo la pista bianca e polverosa. Per un gruppo di incalliti motociclisti come questo lo sterrato è impegnativo quanto mangiare pane e nutella a merenda. Dopo pochi chilometri, “Il Mucchio Selvaggio” si allunga e si disperde lungo la pista, mentre, io, fanalino di coda, mi concedo qualche scatto fotografico. La nuova strada, ancora in costruzione, spesso incrocia la vecchia creando molta confusione. Durante una sosta in un tranquillo villaggio, un “campesino” mi informa che la strada buona è quella di sinistra, mentre quella a destra, ormai abbandonata, è terribile. L’informazione è corretta, ma tremendamente in ritardo. Il gruppo dei centauri ormai è lontano e non ci sono tracce nemmeno della jeep che potrebbe incontrare grosse difficoltà con il carrello carico di bagagli al traino. Il paesaggio fantastico ci accompagna fino a Gracias, dove il gruppo si ricongiunge. Qualcuno ha evitato lo sterrato brutto, qualcun’ altro lo ha fatto di proposito e si è divertito come una iena, ma, purtroppo , non ci sono notizie della jeep di Claudio e Giuseppina. Nell’attesa, approfittiamo dell’ospitalità di un modesto locale di montagna, per una fumante zuppa di pesce e qualche scheletrico pollo arrostito in padella. Dopo un paio d’ore dal polverone della pista “cattiva” sbuca la piccola Vitara. I due occupanti sono un po’ provati, ma a giudicare dai loro sguardi, molto soddisfatti. Superata Gracias, la pista sterrata continua per altri dieci chilometri, poi un nuovo e levigato manto d’asfalto ci accompagna fino a Santa Rosa de Copan. Il giorno seguente il gruppo si concede il bis: sveglia alle quattro! Percorsi appena venti chilometri, si spezza la catena della Honda di “Nuvola Rossa”. Stefano, che nella vita di tutti i giorni fa l’odontotecnico, non ha 4 nessuna difficoltà ad armeggiare con martelli, lime, false maglie, grasso e guanti da chirurgo in lattice. In poco tempo siamo di nuovo in sella, lanciati lungo una ripida discesa che conduce direttamente in Guatemala. Alla dogana ci aspetta Antonio, la guida locale, che con il suo pick-up ci accompagnerà per tutto il paese. Una scelta dettata più dalla scaramanzia che dal bisogno, visto che la piccola Suzuki sta trainando il carrello senza nessuna difficoltà. Le indicazioni per Ciudad de Guatemala le prendiamo direttamente dal GPS che naturalmente ci spinge lungo la strada più breve. Breve, ma molto trafficata. Non auguro neanche al mio peggior nemico di arrivare nella capitale guatemalteca all’ora di punta. Noi invece ci siamo. Antonio guida il gruppo lungo le trafficatissime strade mentre tre milioni di abitanti, tutti, sono al volante. Rimanere in coda ad Antonio che arranca dietro a fumosi autobus decrepiti con moto raffreddate ad acqua come Ktm, Honda e Kawasaki è impossibile. Il manuale “uso e manutenzione della motocicletta” recita: “quando gli sfiati dei radiatori incominciano a sbuffare vapore rovente è segno inequivocabile che i motori stanno arrostendo, perciò spegnere il motore e rivolgersi al concessionario più vicino”. Improvvisamente esplode il tubo di raffreddamento della “sempreverde Kawasaki” del 1995 di Cristina e Michele, lasciando la coppia appiedata in un lago di acqua bollente. Il piccolo guasto viene riparato in fretta. Si riparte tutti insieme, anzi, quasi tutti. La piccola Vitara è scomparsa inghiottita dal traffico. Impieghiamo più di un’ora per attraversare la città, con il pensiero a Claudio e Giuseppina dispersi chissà dove, ma ci sono persone che nascono con la camicia di seta o semplicemente con il karma positivo. Ad uno svincolo di una specie di tangenziale fra migliaia di vetture incolonnate e strombazzanti ritroviamo i nostri amici in jeep come se tutto fosse già stato scritto e niente e nessuno avesse potuto cambiare gli eventi. Usciamo finalmente dalla città mentre un temporale si prepara a scatenare sulle nostre cavalcature tutto ciò di cui è stato dotato da madre natura. Lampi, tuoni e vento annunciano una tragica “Tempesta” che si trasforma però in “Molto rumore per nulla” perchè Antigua, delimitata dai suoi tre vulcani Agua, Fuego e Acatenango ci accoglie tra le sue case con i tetti di terracotta e le sue strade interamente pavimentate di ciottoli, senza che venga versata neanche una goccia di pioggia. Antigua, ai tempi d’oro, era una grande città dell’impero spagnolo, come Lima e Città del Messico, e fungeva da capitale amministrativa del Centro America. Arrivò al suo apice verso il 1750 con una popolazione di cinquantamila abitanti. Lo splendore fu interrotto dal terribile terremoto del 1773 che la rase al suolo, tanto che fu abbandonata a favore di Ciudad de Guatemala. Ricostruita, dal 1969 è stata inserita 5 nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’Unesco. Lasciamo Antigua avvolta da dense nuvole basse in una fredda e livida mattina. A pochi chilometri dalla città c’è il vulcano Pacaya, uno dei crateri perennemente in attività. Superato il breve sterrato fangoso che conduce fino al villaggio di San Francisco, parcheggiamo davanti all’attacco della mulattiera che conduce al cratere. La camminata in compagnia di una guida dura circa due ore. Fortunatamente ha smesso di piovere. Il sentiero, molto ripido e impegnativo all’inizio, diventa più facile e dolce quando attraversiamo la zona boschiva, nonostante la cenere bagnata renda il sentiero viscido. La vegetazione finisce su una lama di roccia dorsale che conduce direttamente alla colata solidificata della grande eruzione del 2005, su cui domina il nero triangolo del cono vulcanico. Fa una certa impressione camminare sulle scure rocce laviche fra la calura della lava incandescente che scorre pochi centimetri sotto le nostre scarpe. L’immagine inquietante di un vulcano in eruzione mi ricorda il cuore pulsante liquido e incandescente del pianeta e di quanto sia fragile la vita sul sottile strato della crosta terrestre. Ritorniamo a valle. Una sosta per riparare le sponde dissaldate del nostro carrello nell’officina di un volonteroso fabbro, ci conferma ancora una volta la grande generosità della gente. Ripartiamo sotto il diluvio. La pioggia, abbondante e fredda, ci accompagna fino alle alte quote del lago Atitlan. Panajachel è un’ottima base per passare la notte e noleggiare un’imbarcazione per una gita sul lago. L’unica speranza per cambiare le condizioni atmosferiche avverse è lo xocomil “il vento che porta via il peccato”, che solitamente soffia sulla costa e spazza via le nuvole, ma purtroppo non ce n’é traccia. Una “bella” strada con pendenze da panico, semibloccata dalle frane, ci conduce fino al mercato più famoso del Guatemala, Chichicastenango. La piazza del mercato, fra le scalinate in pietra delle due immacolate chiesine, brulica di gente coloratissima. Mentre lasciamo il mercato arrivano Claudio e Giuseppina, che erano stati bloccati con la loro Vitara per più di tre ore da una frana. Con una decisione che, in seguito, ci farà pentire, lasciamo che i due si godano il mercato, mentre con le moto ci dirigiamo a Nord. Percorsi cinquanta chilometri, ci lasciamo alle spalle anche Antonio che aspetterà ad una stazione di servizio con il suo pick-up la piccola Suzuki Vitara. Ci avviciniamo al massiccio dell’Alta Verapaz. La strada sterrata, di recente costruzione, è completamente scavata tra due muri di argilla, che la pioggia battente sta trasformando in due colate di fango. Il fondo stradale è instabile e sommerso da pozzanghere enormi che fanno affondare le moto fino al mozzo. In alcuni punti, le pareti di fango a strapiombo sembrano sul punto di precipitare a valle, cioè su di noi, ma pregando Dio, Allah, Buddha, Manitou, Shiva, Vishnu, Confucio, Kukulkan il serpente piumato e Xbalanque il dio giaguaro Maya, superiamo indenni la parte più pericolosa e arriviamo al villaggio di San Cristobal Verapaz stanchi, bagnati e infangati, ma bellissimi! Arriva anche “Nonno Costa” provato, ma sorridente. Giancarlo, o “Nonno Costa”, viaggia con l’inseparabile T-shirt con foto e dedica dei suoi cinque nipoti. Quando siamo partiti da 6 San José mi ha chiesto se poteva accodarsi alla mia Ktm. Prima lo vedevo riflesso nel mio specchietto retrovisore, poi, da quando lo s p e c c h i e t t o s i è spezzato ed è volato via, non lo vedo più, ma sento la sua presenza. E’ la mia ombra, il mio angelo custode e per me la sua compagnia è un g r a n d e p r i v i l e g i o . Coban, un’anonima e m o d e r n a c i t t à , c i accoglie all’imbrunire. Lanquin, invece, la nostra meta di oggi, dista ancora cinquantotto chilometri. Il potente faro allo xeno della mia motocicletta illumina a giorno la strada liscia, levigata e luccicante da sembrare asfaltata da cinque minuti. Cinquanta, quaranta, trenta, venti! Al cartello “dodici chilometri” la strada finisce! L’unica possibilità è seguire una pista bianca che scende verso destra e precipita nella foresta. L’abbraccio “materno” della selva è caldo e umido, mentre il cielo stellato fa venire i brividi. Poi, tanto per cambiare, a giudicare dai bagliori in lontananza, sta per arrivare un bel temporale tropicale. Ad un tratto, un bivio e due cartelli stradali: “Gruta Lanquin” da una parte e “Semuc Champey” dall’altra. Massimiliano, detto “Bibo”, esperto motociclista, famoso per la sua statura “non all’altezza”, cioè che non gli permette di toccare la madre terra quando è seduto sulla sua Ktm Adventure, parte alla bersagliera, cioè in piedi sulla pedana di sinistra e dopo pochi minuti è di ritorno ed esclama serafico: “si va di là, di qua non c’è niente!” Infatti, percorso meno di un chilometro, dalla “selva oscura”, si materializza El Recreo, l’albergo prenotato. Sono le otto: notte fonda! Il ricovero immerso nella foresta è formato da un grande edificio in legno che funge da ristorante e da alcune capanne sparpagliate nel bosco adibite ad abitazioni. Non abbiamo più avuto notizie della jeep di Claudio e Giuseppina da questa mattina. Ci mettiamo in contatto telefonico con Antonio, fermo in un albergo di San Cristobal Verapaz, che ci informa di aver aspettato la jeep per ore senza però averli mai visti. Dal telefono dell’albergo non è possibile chiamare cellulari con numerazione internazionale. Solo con un colpo di fortuna, da un tecnologico cellulare italiano, riusciamo a metterci in contatto con la coppia che ha perso quattro ore per una frana ed ora arranca su qualche montagna nel cuore della notte. Il buon 7 senso consiglierebbe alla coppia, per non rischiare, di fermarsi per la notte nel primo alloggio disponibile, ma… Ci ritiriamo nella tranquillità delle nostre capanne. La pace dura poco perché Giove pluvio ha deciso di scaraventare tonnellate di pioggia sul tetto in lamiera delle capanne. Il rumore è assordante. Smette alle sei! Alle sette due eventi straordinari allietano la fantastica giornata che ci attende: il sole abbagliante e la Suzuki Vitara parcheggiatala in bella vista davanti all’albergo. Claudio, che non si taglia la barba da due settimane e assomiglia sempre più a Che Guevara, commenta con il suo meraviglioso accento romagnolo: “Movè piano, piano, movè, siamo arrivati fin qua, alle due di notte”. La pista ghiaiosa che conduce a Semuc Champey è una specie di viottolo che si arrampica avanti e indietro, uscendo da una valle per entrare in un’altra, che si disperde nella fitta boscaglia tropicale fra banane, caffè e cardamomo. Ho la netta sensazione che non porti da nessuna parte, invece ad un certo punto un ponte di legno sospeso ci permette di attraversare il fiume e risalire una collina fino al parcheggio della biglietteria del parco. Le “piscine” sono raggiungibili seguendo un sentiero scivoloso che costeggia il Rio Cahabon. Le vasche di acque turchesi sospese su un ponte calcareo naturale sono paradisiache ed inviterebbero a fare il bagno, ma, anche oggi ci aspetta una lunga tappa. John Wayne commenterebbe: “stiamo perdendo ore di luce preziose”, quindi lasciamo in fretta Semuc Champey e Lanquin sotto l’ennesimo acquazzone. Solo pochi minuti di pioggia, ma sufficienti per trasformare la magnifica strada asfaltata che conduce a Coban in un percorso insaponato stile giochi senza frontiere. Superata Coban, invece, ritorna il sole. La strada, immersa fra colline lussureggianti, e tortuosi saliscendi, scivola bruscamente sulla pianura calcarea della foresta del Peten. Arriviamo al traghetto frazionati in piccoli gruppi. Passa tanto tempo prima che il gruppo si ricompatti sul piazzale del ferry, troppo. Nicoletta e Mirco, purtroppo sono caduti. E’ successo sugli interminabili rettilinei del Peten, dove si raggiungono velocità elevate. Una banale foratura alla gomma anteriore, che si è afflosciata in pochi secondi, ha scaraventato a terra la loro Bmw. Mirco sta bene, ma Nicoletta ha riportato parecchie contusioni. Per fortuna nel gruppo c’è un medico, Roberta. Fino ad ora aveva curato c o n g r a n d e p r o f e s s i o n a l i t à febbriciattole, febbroni, mal di pancia, raffreddori, mal di gola, nausea, vomito e tutti i malanni che un viaggio con continui cambiamenti climatici come questo comporta. Viaggia sul sellino posteriore della mastodontica Aprilia Caponord Rally di Fabio, suo compagno, e si distingue per il suo inconfondibile casco rosa e per un enorme zaino parcheggiato nel bagagliaio della jeep pieno di pastiglie, unguenti, fiale, creme, pomate, siringhe e tutto quanto possa servire per un rapido 8 intervento di soccorso. Arriviamo a Flores alle dieci, stanchi e affamati. La città è deserta. Per fortuna ci sono le griglie fumanti degli improvvisati ristoranti di strada del terminal degli autobus che servono carne alla griglia e l’immancabile “gallo pinto”. Il viaggiatore che si spinge tanto a Nord non viene sicuramente solo per godersi la bellezza del Lago Itzà o per rilassarsi nell’atmosfera di altri tempi di Flores, ma per visitare uno dei più grandiosi siti maya del pianeta: Tikal! Torreggiante sopra la foresta pluviale a sessantotto chilometri di distanza da Flores, cinque templi enormi di pietra calcarea si innalzano per sessanta metri. Visitiamo il sito accompagnati da una guida locale che se la cava egregiamente anche con l’italiano. La storia di Tikal è molto complessa. I primi insediamenti risalgono al 900 A.C., ma solo quattrocento anni dopo furono costruiti i primi gradini di un modesto tempio astronomico che servirono come fondamenta per la grande piramide del “Mundo Perdido”. Alla nascita di Gesù Cristo la “Grande Plaza” incominciò a prendere forma e il luogo divenne un importante centro di riferimento per la numerosa popolazione residente. La prima dinastia regnante fu quella di “Squalo Primo Passo” e più tardi, nel 378 D.C., ultimo anno del regno di “Grande Zampa di Giaguaro”, Tikal sconfisse la città di Uaxactun dominando per diversi anni il Peten. In seguito si scontrò con la formidabile superpotenza maya rivale Caracul ed il suo ambizioso leader “Signore Acqua” appoggiato dal “Regno del Serpente” Calakmul. Tikal fu annientata, ma miracolosamente risorse dopo più di un secolo sotto il regno di “Divino Alfiere” e sconfisse il nuovo re di Calakmul “Terra Spaccata”. Infine il nuovo re “Signore del Tramonto Divino” diede vita ad una nuova e potente dinastia. Tikal decadde completamente alla fine del X secolo. La sua caduta è ancora oggi un mistero. La nostra visita al sito maya di Tikal termina in cima al Tempio V, raggiungibile dopo la breve ma intensa scalata dei cinquecento scalini di una ripida scala in legno. La vista delle piramidi che sbucano dall’intricata foresta pluviale è stupefacente e conferma che sopra “il Grande Giaguaro” c’è solo il sole. Il sole e Dio! Dopo Tikal, il viaggio, fin’ora tutto in salita, è arrivato al suo giro di boa. La pioggia e il freddo, che non ci hanno quasi mai abbandonato, hanno un po’ fiaccato il morale del gruppo. La fatica logora. Resiste chi è spinto a viaggiare da motivazioni forti. Il viaggio è passione, emozione e soprattutto curiosità di vedere posti mai visti prima. Unico e irripetibile, ogni viaggio impone i suoi ritmi. Sei tu che ti devi adattare, come un sasso raccolto sul greto del fiume e buttato in mezzo alla corrente. All’inizio la violenza dell’acqua logora la pietra, le fa male. Poi, la forza dell’acqua trasforma la pietra, gli spigoli vengano smussati. Solo quando la pietra sarà perfettamente levigata e leggera, sarà 9 pronta per partire trasportata dal fiume. La foresta del Poptun fiancheggia la bella e veloce strada che conduce a Rio Dulce. L’albergo è vicino all’imbarcadero, dove una lancia ci condurrà fino a Livingston. Il Rio in alcuni tratti è molto largo e si trasforma in vero e proprio lago, in altri invece scorre tra stretti e ripidi canyon ricoperti di vegetazione rigogliosa, punteggiati da graziose casette in legno che lambiscono le acque color smeraldo. Dopo un’ora di navigazione arriviamo al villaggio di Livingston, raggiungibile solo in barca. Affacciato sul Mar dei Caraibi, è abitato da un’etnia nera “garifuna”, uno strano ibrido fra africani e caribi. Sbarchiamo all’ora di pranzo, in tempo per gustare i prelibati gamberoni alla plancha e lo squisito pesce alla griglia in un ristorante spartano, ma pieno di colore e di allegria. Lasciamo Rio Dulce e il Guatemala per rientrare in Honduras in una magnifica giornata di sole. Ad una sosta per il rifornimento, Ruggero smarrisce lo zaino con tutti i documenti personali. “Rugge” , esperto motociclista di adozione bolzanina, ma calabrese al cento per cento, guida con la foga di un ventenne una Honda Transalp con lo scarico aperto preparata per l’occasione. Segni particolari: tatuaggi sul petto, braccia e gambe; occhi azzurri, capello ribelle e abbronzatura africana. Un tipo che, se dovesse passare una ragazza, potete stare certi che guarderebbe solo lui. Da quando c’è il sole e fa caldo, dalla cintola in su viaggia solo con la maglietta e… il fantomatico zaino sulle spalle: lo zainetto scomparso. Siamo ormai rassegnati ad andare al consolato italiano di Città del Guatemala per chiedere un nuovo passaporto quando succede il miracolo. Arriva un pick-up. Si ferma e abbassa un finestrino. A bordo ci sono due facce da galera. Uno mi dice: “Avete perso uno zaino? Uno zaino pieno di documenti?” “Sì! Sì! Sì!” rispondo con la bava alla bocca. “Per caso è come questo? Lo abbiamo trovato lungo la strada” “E’ proprio lui” rispondo io. I due mi consegnano lo zaino e stanno per andarsene. “Un attimo” dico io e gli allungo una banconota da 50 dollari. “Muchas gracias amigo” e vanno via. Alla faccia dei “ladrones” tanto famosi di questo paese, se questa non è onestà io sono u n a s c i m m i a u r l a t r i c e . Salutiamo Antonio, il suo pick-up e il Guatemala per le scimmie, i coloratissimi pappagalli giganti e le rovine di Copan dell’Honduras. Alle t r e d e l p o m e r i g g i o l o s p e t t a c o l a r e s i t o è fortunatamente deserto. Il tour inizia dalla piazza principale. La prima cosa che si nota sono le stele alte tre 10 metri scolpite con motivi ornamentali. Rappresentano le insegne di figure d’alto rango. La maggior parte raccontano le imprese di Coniglio 18. Una curiosità incisa sulla scalinata è la data del 10 febbraio 822, l’anno in cui Copàn fu abbandonata. Interessante e molto grande anche il campo della pelota e la piramide con la bella scalinata che collega il campo all’acropoli. Anche la cittadina con le strade in ciottoli e le case color pastello è molto carina. Da Copan Ruinas a Tegucigalpa la strada attraversa paesaggi di montagna ricoperti da boschi di pini secolari. Superata la capitale Honduraghena, la strada scende verso il mare, l’aria fresca incontra quella umida e calda e si scatena un temporale impressionante. Tuoni, fulmini da paura e una violenta pioggia trasformano la strada in una sorta di torrente limaccioso. Arriviamo a Kholuteca nel tardo pomeriggio, inzuppati come i savoiardi nella zuppa inglese. La dogana con il Nicaragua ci accoglie a braccia aperte con le sue pratiche lunghe e noiose. Durante la sosta, la moto di Giancarlo fa i capricci. L’alternatore è bruciato. Per fortuna Ferdinando ha la moto identica alla sua e un alternatore di scorta. In pochi minuti la moto è riparata. Ho conosciuto Ferdinando, “Ferdy” per gli amici, nel 2004 in Cina. “Il ragazzo”, classe 1932, è un motociclista staordinario. Fisico asciutto, scattante come una gazzella, è la nostra bandiera e la speranza per tutti noi di essere come lui: motociclisti fino a cent’anni! Approfittiamo dell’odierna breve tappa per visitare Leon. L’idea era di fermarci per una breve sosta, ma arrivati nella raffinata città, decidiamo di dedicarle un’intera giornata. La sua architettura coloniale è caratterizzata da edifici massicci, straordinarie chiese e fiorenti università. Originariamente era situata sulle pendici boscose dell’allora inattivo vulcano Momotombo, vicino al Lago de Managua. Momotombo significava “la montagna ribollente”. Infatti, nel 1580, la montagna si risvegliò e nel 1610 ridusse la città in cenere, che fu quindi ricostruita pezzo a pezzo e spostata dove si trova ora. Sostiamo per il pranzo a El Sesteo, un piacevolissimo locale affacciato sul Parque Central, dove, oltre a gustare la squisita cucina nicaraguense, abbiamo anche l’opportunità di entrare in contatto con la gente di questa città, fiera e liberale. Sul lato Nord del Parque Central c’è un commovente murales che illustra la storia del Nicaragua, dalla conquista spagnola alla più recente rivoluzione, con tanto di vulcani fumanti e l’immancabile “Sandino”, chiamato anche “il generale degli uomini liberi”. Fu il leader della resistenza nicaraguese contro l’esercito d’occupazione degli Stati Uniti tra il 1927 e il 1933. Dopo la ritirata delle forze armate statunitensi, fu ucciso dalla Guardia Nacional del dittatore Generale Somoza, suo ferreo oppositore, il 21 febbraio del 1934. Prima del tramonto, sulla città si abbatte un incredibile temporale. Le strade si allagano completamente in pochi minuti ed è impossibile andare in giro anche a piedi. Non ci rimane che la fuga in albergo. La “carretera” per Managua è levigata come una lastra di marmo di Carrara. Grazie alle informazioni ricevute da Roberta e Fabio, che ci hanno preceduti ieri a San Juan del Sur, evitiamo la “via diretta” più breve, ma piena di buche. Manca all’appello anche la premiata ditta “Bibo & Rugge”, che ha preferito la pista molto impegnativa che 11 attraversa la riserva del vulcano Pilas – El Hojo, che volutamente abbiamo evitato al nostro “carreton” trainato dalla piccola Suzuki. I due centauri sono partiti con tutto il necessario per riparare eventuali forature e ci raggiungeranno nel pomeriggio sulle belle spiagge pacifiche. Evitiamo volutamente anche l’infernale centro di Managua per seguire la più affidabile Panamericana. San Juan del Sur è un luogo incantevole, dove “affrontare” le calde e magnifiche onde del Pacifico. L’albergo che ci ospita, l’unico sulla spiaggia, sembra esistere solo per il completo relax e anche la Signora Ana, la simpatica proprietaria, ci rassicura tra un bicchiere di vino rosso e una fresca spremuta di frutta che questo è il posto giusto per godersi una pausa dagli stress della motocicletta. Il sole tramonta in un incendio di colori mentre siamo immersi fino al collo nella brodaglia dell’oceano. Rosso, giallo, arancio, fucsia, viola e oro si alternano come le strofe di una poesia d’amore che il sole recita quotidianamente alla terra. Arrivano anche “Bibo & Rugge”. Ruggero ha forato due volte la gomma posteriore, un privilegio riservato a pochi e predestinati motociclisti, costringendo il compagno di merende ad accollarsi, cioè ad infilarsi la gomma intorno al collo, e ad andare alla disperata ricerca di un gommista in sella alla sua Ktm. Il povero “Rugge”, abbandonato momentaneamente lungo la pista, si è trovato faccia a faccia con l’unico colombiano ubriaco e ostile nei confronti degli italiani del continente americano. Tra i due “latini” è scoppiato un parapiglia. Gli insulti e le spinte sono stati interrotti solo grazie all’intervento provvidenziale di alcuni “campesinos”. Mentre quattro contadini cercavano di tranquillizzare il Sudamericano, un altro sussurrava all’orecchio di Ruggero: “Stai attento amico che il colombiano oltre che ubriaco fradicio è armato e impiega un minuto ad ammazzarti”. Solo dopo un’ora e mezza di passione, sudore, sangue e fatica per rimontare la gomma riparata, i nostri due bikers riuscivano a svignarsela. Salvi, grazie ancora una volta alla gente della strada. Gli interessi del gruppo si dividono: una parte sceglie mare, pinne, maschere, sdraio e creme abbronzanti, mentre l’altra decide di visitare l’isola Ometepe. Sono fermamente convinto, non solo per l’episodio capitato a Bibo & Rugge, che la gente di queste parti e non solo, se può aiutarti si fa in quattro, tuttavia ci sono delle situazioni in cui il volerti aiutare a tutti i costi ti mette in gravi difficoltà. Il responsabile della biglietteria del traghetto per l’isola Ometepe mi aveva assicurato che il battello sarebbe partito alle nove e che non ci sarebbero stati problemi di posti sia all’andata che al ritorno. Sul fatto che le informazioni fossero in buona fede, non ho mai avuto dubbi, ma, appena arrivato all’imbarco di San Jorge, ho scoperto che: il ferry sarebbe partito alle dieci e mezza, cioè un’ora e mezza dopo e giunto dopo quasi due ore sull’isola, che per l’intera giornata di posti per le moto non ce ne sarebbero stati. Se mi avessero detto che “forse” i posti 12 per le moto erano finiti, l’isola Ometepe l’avremmo vista. Qualche volta capita di non riuscire a vedere un posto che hai desiderato per mesi per un colpo di sfortuna, oppure per il destino avverso. Lasciamo la magnifica spiaggia di San Juan del Sur e salutiamo anche il Nicaragua per rientrare in Costa Rica. La provincia di Guanacaste colpisce per gli ampi spazi che si estendono dalle alture dei vulcani fino all’oceano e per l’incredibile gamma di colori con sfumature di verde, giallo, azzurro e malva. Playa Hermosa, all’estremità meridionale di Bahia Culebra, è una tranquilla spiaggia di sabbia vulcanica riparata da minuscoli isolotti. Anche Playa Tamarindo, una delle più popolari, affollatissima in alta stagione, ci appare immacolata e deserta. Scendendo verso la penisola di Nicoya, arriviamo a Naranjo. L’asfalto finisce e lascia il posto a una pista sassosa ricca di profonde buche colme di acqua color fango. Trascorriamo la notte in un gruppo di cabinas, immerse nella foresta pluviale a pochi metri dall’oceano Pacifico, e aperte per l’occasione da un cordiale guardiano ben disposto ad accettare un gruppo di stranieri fuori stagione. La cena, preparata solo per noi, viene servita nell’edificio centrale, una sorta di grande capanna di bambù, mentre impazza il solito violento temporale. Un comodo e moderno traghetto ci trasporta fino a Punta Arenas. San José dista solo un centinaio di chilometri, ma c’è ancora il tempo per un brivido. Mentre io e la mia ombra, Giancarlo, stiamo superando un’ingombrante e lenta monovolume, un camion davanti a noi si blocca improvvisamente. Dalla parte opposta sbuca un camion ad alta velocità. Frena, frena, poi sterza a destra verso il bordo della strada per evitare di investirci con il rimorchio, e finisce fuori strada. Dietro a lui arrivano a l t r i m e z z i pesanti che non possono e v i t a r e i l tamponamento a catena. Un i n f e r n o ! Siamo vivi per miracolo, vivi g r a z i e a l sangue freddo d i u n camionista che n e a n c h e conosciamo. A San José ritroviamo l’ospitalità di Manuel e la professionalità di Alejandra, che ci ha messo a disposizione un container di quaranta piedi per la spedizione dei mezzi in Italia. Ci rimangono due giorni per visitare il parco del Tortuguero sulla costa Caraibica. Quattro ore di autobus per 13 raggiungere Moin, poi, tre ore in barca, attraverso i canali in compagnia di scimmie urlatrici, bradipi, caimani e tantissime specie di uccelli. Di notte invece, accompagnati dalle guide del parco, assistiamo al miracolo delle tartarughe giganti che vengono a depositare le uova sulla bianca spiaggia del Tortuguero. Arriva dritto al cuore l’immane fatica che si legge sul volto dell’animale arrivato da lontano, che si trascina per un centinaio di metri, scava in profondità nella rena, deposita le uova, ricopre la buca e ritorna nel profondo dell’oceano attraversato dai bagliori del “solito” temporale tropicale. Finisce così questo viaggio, faticoso e pieno di imprevisti, ma ricco di immagini di luoghi mai visti prima. C’è solo il tempo per un’ultima emozione. Mentre rientriamo al villaggio, lungo il sentiero immerso nella foresta, Ernesto, il ranger del parco che ci accompagna, urla: “Attenzione, fate molta attenzione! Da queste parti vive il Grande Giaguaro!” Testo e Foto di Walter Ramperti Dedicato a Giorgio Bettinelli. “Viaggiare non è solo andare, viaggiare è soprattutto cercare di capire quello che c’è in mezzo tra una partenza e un arrivo” – La Cina in Vespa –