Patagonia

Dal mio libro: Le Moto Raccontano

Argentina e Cile – Dicembre 2010

Viaggiare trainata su un carrello da Milano a Livorno non è il massimo della vita per una moto del mio rango. Prendi un sacco di aria senza muovere la ruota di un centimetro. Sono sempre io, la vecchia KTM LC4, anche se tutti ormai mi chiamano KaTherina. La Lombardia a novembre, poi, è una triste tavola grigia senza speranza. Per vedere il sole devo superare l’Appennino e arrivare al mare dove la temperatura supera ancora i venti gradi centigradi. A Livorno incontriamo forse l’ultimo sprazzo estivo. Fa impressione vedere la gente in manica corta. Tawil e Gianni devono ritirare le rispettive moto che hanno usato in Asia questa estate. Il “Mio Cavaliere” mi ha tradito con una bianca nuova BMW F800 GS. Insieme hanno cavalcato le steppe asiatiche per quasi quattordicimila chilometri. Lei prenderà il mio posto sul carrello e rientrerà nel concessionario BMW, mentre io finirò nel solito container. Mi terranno compagnia altre cinque due ruote. Destinazione? Il Cile, l’Argentina, la Patagonia e… la Fine del Mondo.
Rivedo il “Mio Cavaliere” e la luce solo per pochi secondi. Pare che il momento tanto atteso sia arrivato… invece niente. Una giovane meticcia con la divisa da poliziotta del ministero dell’agricoltura, corporatura esile, bassa statura e sguardo inquietante entra e, dopo una rapida occhiata, richiude senza indugi il container perché sul pavimento è presente un po’ di terriccio e in Cile non sono ammessi container “contaminati”. Sento dalla voce di Tawil che la situazione si è fatta disperata. Un’azienda specializzata dovrà prendersi il container, collocarlo in un area sicura, e ripulirlo dalla “pericolosa” contaminazione. L’operazione potrebbe sembrare semplice, ma si dà il caso che domani sia la vigilia di Natale e le aziende siano chiuse. Passano due ore. Il pesante portellone di ferro del container si riapre inondandoci di luce. Riappaiono le stesse facce di prima con una sola differenza: lo sguardo della responsabile del “Ministerio Agriculo” ora è più rilassato. “Potrete scaricare solo quando il pavimento verrà isolato da uno strato di carta. Carta protettiva e successivo lavaggio del container vi costeranno duecentotrenta dollari americani”. Tawil e soci non hanno scelta: pagano! Finalmente, ad uno ad uno, si sciolgono tutti i legamenti che mi tengono inchiodata nella stessa posizione da due mesi. I cavi alla batteria ricollegati. Ricomincio a vivere, ma solo per un attimo. Il “Mio Cavaliere”, nella fretta, si è dimenticato di attaccare il cavo negativo che fa da massa tra la batteria e il telaio. Appena la corrente arriva al motorino di avviamento i miei poveri circuiti elettrici vengono, anche se per un solo istante, invasi da una corrente troppo alta per la loro sezione minuscola. Il risultato è decisamente sinistro: faro allo xeno fuori uso e blocchetto chiavi seriamente danneggiato. Il “Mio Cavaliere” comprende di aver fatto un clamoroso errore che poteva costargli caro, ma è ben cosciente di essere anche un uomo fortunato e di non dover rinunciare al viaggio. Risolto l’inghippo elettrico, il motore parte al primo colpo. In questo viaggio dovremo sicuramente fare a meno del tecnologico faro allo xeno e subiremo anche i capricci del blocchetto chiavi, ma adesso è inutile pensarci perché è tempo di partire. Bastano pochi metri, un po’ d’aria fresca che entra di prepotenza nei miei convogliatori e sbatte sul grugno del “Mio Cavaliere” per dimenticare tutto.
Concepcion non è una città caotica e riusciamo ad infilare al primo tentativo la statale che che ci conduce verso Angol. I Nostri Cavalieri hanno deciso di incominciare subito con un percorso impegnativo: il Parco Nazionale del Conguillo. Appena superiamo Curacautin l’asfalto finisce e ben presto ci troviamo immersi nella fitta vegetazione di questo straordinario paese sudamericano. Lo sterrato lambisce il vulcano Llaima, in pratica stiamo viaggiando sulla colata lavica solidificata di due anni fa. Di tanto in tanto ci sono brevi tratti sabbiosi che mettono in difficoltà chi guida moto pesanti come le ammiraglie BMW R 1200 GS Adventure. Finire a terra e rotolare nella polvere non è una bella cosa, ma neanche un disonore. E’ come quando arriva il conto da pagare dopo una cena strepitosa. Si paga volentieri. L’unica differenza è che questo viaggio batte cassa ancora prima dell’antipasto. Per superare il parco, sempre immerso nella fitta foresta, ed arrivare a Cunco, ci vuole tutto il pomeriggio. Nel villaggio non ci sono alberghi, tuttavia grazie ad un giovanotto di bella presenza incontrato per caso, riusciamo a trovare ospitalità in un’abitazione privata. La piccola casa, a ridosso del bosco, è abitata da una famiglia composta da una coppia con due figli, un maschio di sei anni e una femmina di sedici e l’anziana nonna. Colpisce immediatamente la disponibilità di questa gente nei confronti degli stranieri. La casa, completamente in legno, è stata costruita dal proprietario pezzo dopo pezzo e si vede, soprattutto nell’interno, la mano dell’uomo nel realizzare gli arredi semplici ma funzionali. Questo è il luogo ideale per trascorrere la vigilia di Natale. La cena, a base di carne arrostita, pomodori, insalata dell’orto e ottimo vino rosso, si protrae fino a tardi. Natale arriva lieto, accompagnato dalle canzoni e dalle chitarre della coppia cilena. Riprendiamo la strada che attraversa il Parco Nazionale di Huerguehue dominato dal cono imbiancato del vulcano Villarica che si riflette nelle acque cristalline del lago. A Pucon ritroviamo l’ottimo asfalto della Carretera n. 5 che ci accompagnerà fino a Puerto Montt. La città, fondata dai coloni tedeschi verso la metà dell’ottocento, conserva ancora qualcosa dell’aspetto mitteleuropeo, ma oggi è soprattutto un importante punto di accesso per raggiungere la Patagonia Cilena e l’isola del Chiloé. Raggiungiamo Pargua, poco distante da Puerto Montt sotto una fitta e gelida pioggia e ci imbarchiamo su uno dei traghetti che fanno spola dal continente all’isola. L’isola del Chiloé, lunga poco meno di duecento chilometri, è un’isola ricca d’acqua e con alture ricoperte di fitta vegetazione. Sbarcati a Chacao ci dirigiamo verso Ancud, poi proseguiamo verso il mare aperto con l’intenzione di visitare la colonia di pinguini della Baia Cocotue. I pinguini vivono su una minuscola isola a poche centinaia di metri dalla costa raggiungibile solo con una barca, ma viste le pessime condizioni meteorologiche nessuno ha intenzione di andarci. E’ l’ora di pranzo. Da un locale affacciato sulla baia battuta dal gelido vento dell’Oceano Pacifico arriva un irresistibile profumo di pesce alla griglia che contagia il gruppo dei centauri. Sulla strada del rientro, Marco e la sua fiammante Yamaha Tenerè vengono “tamponati” da una mucca imbizzarrita, per fortuna senza conseguenze né per il centauro né per il gigantesco mammifero. La pioggia ci accompagna per quasi tutto il tragitto. Castro invece, ci accoglie sotto i raggi del sole. Il capoluogo della provincia del Chiloé è famoso per la tipica architettura delle palafitte che sorgono sul lungomare e per le loro assi di legno dai colori vivaci assemblate con perizia. Interessante anche la Chiesa di San Francisco da Castro completamente costruita in legno. Rientriamo a Puerto Montt dove ci aspetta il traghetto della Naviera Austral che ci condurrà fino a Chaiten. Il villaggio si sta lentamente riprendendo dopo la terribile eruzione di due anni fa. Dei cinquemila abitanti, che avevano abbandonato la cittadina, ne sono ritornati cinquecento. La fitta foschia che all’alba inghiottiva le calme acque dell’oceano sta velocemente evaporando regalandoci la vista delle vette imbiancate dei vulcani Michinmahuida e Corcovado. Siamo in uno dei posti più belli del pianeta. Superato Puerto Cardenas l’asfalto lascia il posto ad uno sterrato di ghiaia molto insidioso. Vittorio, romano di Latina, è il primo a forare. La sua Yamaha TDM, munita di gomme stradali già abbastanza consumate, non è adatta ad un percorso così impegnativo, ma il motociclista, sposato e padre di due figli, che realizza il sogno di una vita con questo viaggio, è molto motivato e niente e nessuno lo potrà fermare. La gomma posteriore tubeless, vale a dire senza camera d’aria, viene riparata a tempo di record. Dopo una manciata di chilometri però il “Centurione” romano è ancora con la gomma a terra. Ripartiamo e restiamo uniti per i centocinquanta chilometri di sterrato che ci separano da Puerto Aisen. Stiamo percorrendo la Ruta 7, la celeberrima Carretera Longitudinal Austral Presidente Pinochet, meglio nota come “Camino Austral”. La strada, che inizia a Puerto Montt, attraversa da Nord a Sud questa parte del Cile bordeggiando il confine Argentino fino a Villa O’Higgins. Osservando il “Camino Austral” su una mappa si potrebbe pensare che il tracciato sia totalmente terrestre mentre chi lo vuole percorrere per intero deve ricorrere spesso ai traghetti. Il paesaggio, sempre straordinario, ricorda molto la costa Norvegese e l’Inside Passage dell’Alaska. Per secoli questa zona è stata abitata solo dagli indios Chonos e Alacaluf che pescavano nei numerosi e tortuosi canali e dai Tehuelche che cacciavano il guanaco e altri tipi di selvaggina. L’aspro aspetto geografico ha sempre scoraggiato gli europei dai tentativi di insediamento. Solo agli inizi del 900 il Cile incominciò a promuovere la colonizzazione della regione concedendo contratti per l’allevamento del bestiame e per lo sfruttamento del legname. Uno dei risultati di questa politica fu la distruzione di gran parte delle originarie foreste di faggi australi. Incoraggiati da una legge cilena che premiava con titoli di proprietà il disboscamento i coloni bruciarono tre milioni di ettari di foreste. Dalla riforma agraria del 1960 l’influenza dei grossi proprietari terrieri è molto diminuita e il miglioramento delle comunicazioni via mare e della rete stradale ha incoraggiato l’immigrazione nella zona che tuttavia è ancora scarsamente popolata. Negli ultimi anni, l’allevamento del salmone, una delle attività più importanti del paese, sta danneggiando l’ambiente nelle aree costiere.
Facciamo sosta per la notte nella città Coihaique, poi ci spingiamo verso Sud. A poche centinaia di metri dalla dogana, la strada piega verso destra, attraversa una gola spettacolare e ci conduce fino a Villa Cerro Castillo, un piccolo villaggio, circondato da cime rocciose da brivido. Lo sterrato immerso nella fitta vegetazione all’inizio presenta insidiosi tratti di “tole ondulé”, ma dopo una decina di chilometri si trasforma in una pista compatta e levigata. Al microscopico villaggio di Bahia Murta ci appare per la prima volta il lago General Carrera. Ci fermiamo a Puerto Tranquillo, anche se è ancora molto presto, affascinati dall’azzurro intenso delle acque del lago e dalle confortevoli cabanas sulla spiaggia che saranno il rifugio per la notte dei Nostri Cavalieri. Dire che la notte scorra tranquilla a Puerto Tranquillo non corrisponderebbe a verità visto che “i soliti ignoti” prelevano quasi tutta la benzina dal serbatoio della macchina di Maurizio, che gentilmente ci alleggerisce del pesante fardello dei bagagli. La strada che costeggia il lago General Carrera è fantastica. Superiamo un ponte, l’unico, prima del villaggio di El Maiten e del bivio che conduce, seguendo la sponda opposta del lago, verso l’Argentina. La zona oltre che spettacolare è franosa e costringe Tawil a viaggiare con apprensione e lo sguardo verso l’alto per parecchi chilometri. L’ultimo villaggio cileno che incontriamo prima della frontiera argentina è Chile Chico. Il gruppo dei centauri decide di fermarsi per il pranzo nel primo ristorante incontrato a Los Antiguos. Il proprietario, che ha due giovani figlie che simpatizzano molto con i Nostri Cavalieri, è molto gentile e consente il parcheggio di noi motociclette all’ombra. Da Los Antiguos una bella strada asfaltata costeggia il lago General Carrera, che in Argentina si chiama lago Buenos Aires, fino all’incrocio con la famosa Ruta 40 ed al centro abitato di Perito Moreno. L’asfalto continua per un centinaio di chilometri fino ad essere inghiottito trenta chilometri prima di Bajo Caracoles da una zona desertica di pietre e sabbia. Bajo Caracoles situato nella provincia di Santa Cruz, è un villaggio abitato da meno di trenta anime. C’è una sola stazione di servizio gestita da un ragazzino che per un pelo non mi riempie il serbatoio di gasolio e due minuscoli alberghi in competizione tra loro per accaparrarsi i pochi viaggiatori che si fermano da queste parti. Tawil sceglie il più spartano che ha solo due camere con quattro letti a castello ciascuna. Sembra di stare in un film di Tarantino: tutto potrebbe accadere in qualsiasi momento. Dall’Italia arriva la buona novella. E’ nata Asia, la figlia tanto attesa di Maddalena e Paolo amici del “Mio Cavaliere”.
Nata d’inverno.
Come un tenero ed inaspettato
bocciolo di rosa
che spunta da una coltre nevosa.
Non avere paura,
schiudi i tuoi petali colorati.
Ci sarà sempre qualcuno
che ti proteggerà con affetto e calore.
Benvenuta sulla Terra Asia
Partiamo prestissimo per affrontare questa lunga ed insidiosa tappa. In fondo al paese c’e una selva di cartelli stradali che danno la giusta direzione, ma quale direzione? Le strade si perdono tutte nel nulla della pampa deserta e sconfinata. La pista è buona. Nei primi cinquanta chilometri una nuova strada asfaltata in costruzione affianca la via e crea molta confusione. Spesso la tentazione di infilarla è forte, ma il più delle volte il manto stradale finisce davanti a una montagna di detriti, altre davanti a un ponte che non è ancora stato costruito. Dopo cento chilometri ritroviamo un ottimo asfalto che ci accompagna per una cinquantina di chilometri. In questo tratto, siamo spinte da un forte vento teso che permette velocità elevate. In fondo al lungo rettilineo, una scura lingua di bitume, improvvisamente finisce l’asfalto. Lo sterrato cambia la nostra direzione di marcia di novanta gradi. Il vento adesso ci colpisce lateralmente. Le raffiche del famosissimo vento della Patagonia sono violentissime. Fermarsi è impossibile. Chi si ferma viene inesorabilmente travolto e trascinato a terra. Cade la mastodontica BMW 1200 Adventure di Angelo mentre la Yamaha di Vittorio finisce fuori pista. E’ panico! Io ed il “Mio Cavaliere” siamo costretti ad una guida di precisione nel canale scavato sulla pista dai mezzi pesanti. Non possiamo distrarci neanche un secondo. Andiamo avanti piegati paurosamente, ma continuiamo. Il segreto sta nel tenere una velocità di almeno quaranta chilometri orari. Ad andatura più bassa c’è il rischio di venire sbattuti verso sinistra e da quella parte ci sono tonnellate di ghiaia di altezze variabili dai venti ai trenta centimetri che ci farebbero cadere di sicuro. Chi si fa prendere dal panico e devia verso sinistra corre il rischio di finire a terra oppure di uscire di pista e finire a terra. Andiamo avanti in queste condizioni per almeno cinquanta chilometri, poi il vento cala. Tres Lagos segna la fine della pista e l’inizio della strada asfaltata. Sono sei ore che i Nostri Cavalieri guidano senza sosta. Siamo quasi tutte senza carburante. Cerchiamo inutilmente una stazione di servizio a Tres Lagos che dista tre chilometri dalla strada. Il benzinaio invece è sulla strada principale cinquecento metri più avanti. Riprendiamo il cammino. Adesso il vento ci investe frontalmente. In quinta marcia con Tawil che dà tutto gas non passiamo mai i sessanta chilometri orari. Anche lungo il tratto che fiancheggia il lago Viedma la situazione non cambia. Tanta fatica viene ampiamente ripagata dalla vista del complesso montano del Fitz Roy e del Cerro Torre che ci appaiono all’orizzonte in tutta la loro bellezza.
El Chaltèn é un piccolo villaggio montano nella provincia di Santa Cruz. È posizionato sulla sponda del fiume Río de las Vueltas, all’interno del Parco Nazionale Los Glaciares. “Chaltén” è una parola tehuelche che significa montagna fumante. Gli Indios credevano fosse un vulcano per la sua cima, la maggior parte del tempo, coperta da nuvole. Una delle più belle escursioni che si possono fare da queste parti e quella di seguire il sentiero che conduce alla laguna del Cerro Torre. L’arrampicata impegnativa nella prima ora diventa una passeggiata immersa in un panorama straordinario che conduce fino al Mirador Maestri. La vista sul ghiacciaio che precipita nella laguna color caffè latte circondata del famosissimo “urlo di pietra” è mozzafiato. Oggi é anche l’ultimo giorno dell’anno. Il gruppo ormai é affiatato. Accade raramente. É come se ad un certo punto del viaggio una benedizione divina fosse scesa sul gruppo dandogli una forza interiore notevole ed inaspettata. Ognuno dei componenti di questa avventura si porta dietro esperienze di vita diverse, picchi di felicità e tristezze profonde che il viaggio con il trascorrere dei giorni ha livellato e plasmato in ogni componente del gruppo. C’é chi viaggia per dimenticare, chi per dimostrare qualcosa a qualcuno o a se stesso, ma per tutti é la passione per la moto che motiva e unisce. Interessante vedere anche il rapporto tra ogni singola moto ed il rispettivo Cavaliere. Per spostarsi in brevi cavalcate di un giorno o per un week end non é necessario avere modelli particolari. Si sceglie la moto in base alle proprie esigenze, ma alla fine ci si accontenta di una normale due ruote. In giro per il mondo quando il contatto tra Cavallo e Cavaliere é quotidiano e continuato avere una Compagna Fedele a fianco é fondamentale. Prendete me. Tawil mi ha incontrata per caso lungo una pista in Tunisia. Un colpo di fulmine. Una scelta di fede. Ha sempre creduto in me. Certo il modello base é stato modificato a sua immagine e somiglianza: sella a un metro e dieci centimetri dal suolo, manubrio più alto di dieci centimetri, scarico Akrapovic, faro allo xeno e GPS. Avrei anche gradito un cupolino più protettivo, ma il “Mio Cavaliere” é uno che vuole sentire l’aria scivolargli addosso, quasi volesse essere trapassato dall’aria stessa per filtrarne gli odori, gustarne i sapori, soffocare per il caldo torrido e rabbrividire per il freddo pungente. Lui non sta sopra di me, ne io mi sento sottomessa, siamo un’unione perfetta tra umano e macchina, un’entità terrena illuminata dal divino. Lui non guida, io non obbedisco ai comandi, stiamo semplicemente seguendo lo stesso percorso.
La strada che conduce a El Calafate è tutta asfaltata. La giornata, sotto una fitta e gelida pioggia, è decisamente brutta. Raggiungiamo la cittadina in poco più di due ore. El Calafate è situata sulla riva meridionale del Lago Argentino, a circa trecento chilometri dal capoluogo Río Gallegos. Il suo nome deriva da un piccolo arbusto dai fiori gialli con bacche di colore blu scuro molto comune in Patagonia. El Calafate è molto vivace ed è la base di partenza ideale per visitare il ghiacciaio più famoso del mondo.
La formazione di ghiaccio, che si estende per duecentocinquanta chilometri di lunghezza e per trenta chilometri in larghezza, è uno dei tanti ghiacciai alimentati dal Campo de Hielo Sur, del sistema andino, condiviso con il Cile. E’ la terza riserva al mondo d’acqua dolce. Il ghiacciaio, situato a settantotto chilometri dal centro abitato, prende il proprio nome dall’esploratore Francisco Moreno, un pioniere che studiò la regione nel XIX secolo e giocò un ruolo di primo piano nella difesa del territorio argentino nel conflitto sorto intorno alla disputa sul confine internazionale con il Cile. La particolarità del Perito Moreno consiste nel fatto che è un ghiacciaio in movimento. Il fronte del Perito Moreno è formato da una lingua anteriore lunga cinque chilometri che si staglia per oltre sessanta metri sul lago Argentino. Il movimento è dovuto all’esistenza alla base del ghiacciaio di una sorta di cuscino d’acqua che lo tiene staccato dalla roccia. A causa di tale movimento si registra un avanzamento del ghiaccio di circa due metri all’anno. Quando poi il fronte del ghiacciaio raggiunge l’altra sponda del lago Argentino forma una diga naturale che separa le due metà del lago. A causa di questo sbarramento il livello d’acqua della parte del lago chiamata Brazo Rico risale di oltre trenta metri rispetto al consueto livello del lago. L’enorme forza prodotta da questa massa d’acqua finisce per fare pressione ed erodere il fronte del ghiacciaio. Il muro di ghiaccio si scioglie nei suoi frammenti più deboli attraverso i quali filtra l’acqua, fino a far crollare enormi blocchi con dei boati impressionanti nelle acque del lago color latte e menta. L’altra caratteristica del Perito Moreno è il “ponte di ghiaccio”. L’erosione sulla diga di ghiaccio da parte dell’acqua del lago Argentino crea un ponte di ghiaccio tra il fronte del ghiacciaio in avanzamento e la sponda del lago stesso. Attualmente in un intervallo tra i due e i quattro anni si assiste alla rottura del ponte causata della pressione dei ghiacci in avanzamento. Il fronte del Perito Moreno avanza ad una velocità di circa 700 metri all’anno, sebbene perda massa ad un ritmo praticamente analogo, il che significa che, se si escludono piccole variazioni, il fronte non è avanzato né indietreggiato negli ultimi 90 anni. E’ il primo centro gremito di turisti che incontriamo. I Nostri Centauri alloggiano in un albergo gestito da due giovani ragazze di Buenos Aires molto gentili. Salutiamo El Calafate e l’Argentina per spingerci verso il confine Cileno. Ci lasciamo alle spalle Esperanza e la bella e panoramica strada asfaltata che finisce a Cancha Carrera. Raggiungiamo la frontiera composta da una piccola caserma, seguendo uno sterrato fantastico. Entriamo in Cile e facciamo una sosta a Cerro Castillo. Dopo il pranzo ci dirigiamo verso Puerto Natales. La deviazione di quaranta chilometri per noi, moto con un’autonomia inferiore ai trecento chilometri, è obbligatoria per chi è diretto nel Parco Nazionale delle Torri del Paine sprovvisto di stazioni di rifornimento. Entriamo nel Parco dall’ingresso Sud di Cueva del Milodon. Il sito reso famoso da Chatwin è situato lungo i fianchi delle montagne del Cerro Benitez. E’ formato da numerose caverne e una formazione rocciosa denominata Silla del Diablo (Sella del Diavolo). Le caverne si sono formate in seguito all’erosione dovuta alle ondate di fango che hanno invaso il bacino di Puerto Natales, per il progressivo scioglimento dell’enorme strato di ghiaccio che lo riempiva durante l’ultima espansione dei ghiacciai del quaternario. Il monumento è famoso per la scoperta, nel 1896, dei resti di un bradipo terrestre gigante denominato Mylodon, un erbivoro di grandi dimensioni che si estinse probabilmente alla fine del Pleistocene. All’entrata del monumento è stata sistemata una replica a grandezza naturale di un Milódon preistorico. Le ricerche hanno permesso di datare i resti del Milodon a circa 5.000 anni fa e confermare l’esistenza di altri animali preistorici, ora estinti. Riprendiamo lo sterrato. L’ambiente, dal punto di vista naturalistico, è perfetto. La pista fiancheggia diversi piccoli laghi dagli incredibili colori: verde, turchese ed azzurro. La sosta per la notte è in un accogliente albergo immerso nel verde sulla riva di un fiume dalle acque cristalline. Terribile il ristorante gestito da un arrogante cameriere che offre un misero menù composto da un brodo vegetale, un pasticcio di patate e un microscopico dolce a ventotto dollari americani extra esclusi. Spropositato anche il prezzo di una bottiglia di acqua minerale da un litro e mezzo che il maleducato gestore ha tentato di vendere al “Mio Cavaliere” per la somma di dieci euro. Entrare nel parco costa trenta dollari. Il Parco Nazionale Torres del Paine, che occupa un’area più grande di duecentoquarantamila ettari è una delle aree protette nella regione delle Magellane e dell’Antartide Cilena. Il parco fu creato il 13 maggio del 1959. L’Unesco lo dichiarò riserva della biosfera il 28 aprile 1978. Il parco presenta una grande varietà di ambienti naturali: montagne, tra le quali si staglia il complesso del Cerro Paine, la cui cima principale tocca i 3.050 metri, le Torri del Paine e i Corni del Paine; vallate, fiumi, laghi come il Grey, il Pehoé, il Nordenskjold e il Sarmiento; ghiacciai come il Grey, il Pingo, il Tyndall e il Geikie appartenenti al Campo de Hielo Patagonico Sur. La veduta delle torri lascia esterrefatti. I blocchi di pietra, che svettano tra le nuvole, hanno particolarità di avere le cime di colore scuro, in netto contrasto con le pareti chiare. Aggiriamo le torri seguendo la pista sterrata che si snoda tra lagune, campi, cavalli e guanachi al pascolo. Lasciamo questa meraviglia per ritornare a Puerto Natales. La città affacciata su un grande golfo è l’immagine del relax. Solo il vento soffia forte e il vento del Sud da queste parti porta un gran freddo. Partiamo presto la mattina per Punta Arenas. La strada, un lungo rettilineo, attraversa pascoli sconfinati battuti dal vento. Solo gli animali sembrano non accorgersi del freddo pungente. I Nostri Cavalieri fanno una sosta per un meritato caffè bollente. Un tedesco in bicicletta, divide con loro la colazione. In un mese ha percorso più o meno lo stesso nostro tragitto con una media di cento chilometri al giorno. Punta Arenas, che dista duecentocinquanta chilometri, viene raggiunta in poco più di tre ore. Prima di entrare in città il gruppo si ferma, appena in tempo per la Yamaha di Vittorio che manifesta tutto il suo disappunto nei confronti del proprio Cavaliere, mostrando le bianche tele che affiorano sinistre dalla nera copertura posteriore. La pessima situazione è risolta brillantemente da un meccanico che procura a Vittorio una gomma usata, ma in ottimo stato. La proprietaria di un confortevole hotel, una bella ed elegante donna di quarant’anni, ci accoglie con cordialità. Anche il ristorante è di alto livello: cibo raffinato e vini pregiati. Punta Arenas fondata nel 1848 con i suoi centotrentamila abitanti è la maggiore e più importante città della Patagonia meridionale. Posta sulla penisola di Brunswick è il secondo centro urbano di una certa grandezza più a Sud di tutto il mondo dopo Ushuaia. Prima dell’apertura del Canale di Panama, nel 1914, era il principale punto di transito per i collegamenti tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico. Oltre che un importante centro è famosa per la celebrazione del Carnevale dell’Inverno, manifestazione basata sulla presentazione di spettacoli e carri allegorici, che attira spettatori da gran parte del Cile e da molte regioni dell’Argentina Meridionale. Dobbiamo lasciare in fretta Punta Arenas per non correre il rischio di rimanere intrappolati dal blocco totale del traffico su gomma per uno sciopero indetto contro il rincaro spropositato del prezzo del gas. Cercheremo di raggiungere Ushuaia in giornata. Non è tanto la distanza di seicentocinquanta chilometri che preoccupa i Nostri Cavalieri quanto le condizioni della strada e la dogana, l’ultima che incontreremo, tra il Cile e l’Argentina. Per i primi centocinquanta chilometri la strada è completamente asfaltata. Superato il traghetto che ci porta da Primera Angostura alla Terra del Fuoco inizia il solito “ripio” vale a dire lo sterrato di ghiaia. La pista polverosa ci accompagna fino alla frontiera, che viene superata senza nessuna difficoltà. In Argentina la strada costeggia un calmo ed azzurro Oceano Atlantico. Superata Rio Grande lasciamo la costa per le dolci colline ed i pascoli. A questo punto, visto l’avvicinarsi della “Fine del Mondo” ci si aspetterebbe che la terra si appiattisca e che scompaia nelle gelide acque antartiche, quando improvvisamente una catena di montagne si materializza davanti ai nostri occhi in tutta la sua bellezza e imponenza. Superiamo lo splendido lago Yehuin e giriamo intorno al lago Fagnano fino quasi a sfiorare le cime coperte di neve del passo Garibaldi, poi una lunga discesa immersa in una foresta fittissima di alberi dal tronco bianco come pietra.
L’andatura del “Mio Cavaliere” è molto elevata e, con la complicità del carburante argentino a basso numero di ottani, ho consumato come una Ferrari Testarossa. Tawil sprofonda nello sconforto quando il mio motore incomincia a perdere i colpi e si spegne. Ripartiamo con la riserva, ma alla meta mancano ancora più di quaranta chilometri. Appare la città, l’ultima di questo continente, mentre nel mio serbatoio rimangono solo poche gocce di carburante. La fine è vicina, ma la fortuna è dalla parte del “Mio Cavaliere” che entra entusiasta ad Ushuaia, la città più australe del mondo. La città fu originariamente chiamata così dai primi coloni inglesi, dopo il nome nativo Yamana attribuito dagli indigeni. Per gran parte della prima metà del XX secolo, la città fu centro di una prigione per criminali pericolosi. Il governo argentino allestì la prigione seguendo l’esempio degli inglesi in Australia: essendo un’isola remota, scappare da una prigione nella Terra del Fuoco sarebbe stato impossibile. I prigionieri divennero così forzati coloni e trascorrevano molto del loro tempo a tagliare legna nell’isola intorno alla prigione e a costruire la città. I primi quattordici reclusi arrivarono nel 1896 a bordo del battello “I de Mayo”. Nel 1902 la prigione militare che funzionò sull’Isola degli Stati prima in San Juan Salvamento e poi a Porto Cook, fu trasferita per motivi umanitari a Ushuaia e nel 1911 si fuse con il carcere penale per reati comuni. Nel 1920 il carcere aveva trecentottanta celle singole ma ospitava più di seicento condannati. Man mano che il tempo passava in questo carcere venivano inviati malviventi autori di grandi delitti molti di essi condannati a pene perpetue. Fuori dal carcere i detenuti venivano utilizzati per la costruzione di strade, ponti, edifici e per lo sfruttamento dei boschi. Chiuse definitivamente nel 1947 quando il territorio nazionale si trasformò in un protettorato marittimo.
Caro Tawil, adorato “Mio Cavaliere”, quanta strada abbiamo percorso insieme. Asia, Africa, Nord America ed ora il punto più a Sud del continente americano, la fine del mondo, il luogo in cui tutto finisce. La sensazione è proprio questa. A due passi da un irraggiungibile Polo Sud al di là dell’entusiasmo per avere raggiunto ancora una volta la meta prefissata si prova smarrimento, confusione e anche un po’ di angoscia. Indietro non si torna, ma non si va neanche avanti. Ci si sente intrappolati nella luce senza tempo dell’estate australe dove i giorni sono eterni e le notti brevissime mai completamente buie. L’equilibrio umano già di per sé fragile viene pesantemente intaccato. Viene spontaneo fare un bilancio sulla propria esistenza. Hai viaggiato molto spinto dalla sete della conoscenza. Ti sei arricchito interiormente. Hai ammirato la diversità del mondo. Adesso sei ad una svolta. Vorresti cambiare, ma non sai da che parte incominciare. Il problema é che hai troppe cose dentro. Sei un contenitore ormai colmo e non hai il coraggio di incominciare a svuotarlo. Certo é rischioso. Potresti buttare anche tutto quello che di buono é dentro di te, ma non hai scelta, se vuoi crescere, se non vuoi essere travolto dai tuoi stessi pensieri, devi fare un passo indietro. La forza di reagire, di cambiare, esiste, ogni essere vivente ce l’ha, trasmessa nel DNA dai propri antenati. Sono loro che ti hanno regalato la vita. Questo pianeta meraviglioso che vi unisce per l’eternità ne é la prova tangibile. Devi ritrovare l’equilibrio. Il tuo equilibrio e quello con la natura. Ti devi sentire parte di essa. Apri il tuo cuore all’amore, la vera forza che fa girare il mondo. Comprendo ora più che mai con chi avresti voluto condividere questo viaggio. Lei ti manca. Di notte ti ritrovi spesso nel suo giardino, scendi lungo la stretta scala di pietra, entri nella sua cucina e, dopo esserti tolto le scarpe la attraversi, pochi passi fino alla sua camera e te ne stai lì indeciso se ascoltare il suo respiro nel silenzio oppure accarezzarle i capelli, poi ti svegli. Soffri e la sofferenza si misura proprio con ciò che si è perduto. Sono cosciente che avresti rinunciato alla sublime visione del Cerro Torre per un suo sorriso, al Perito Moreno per un suo abbraccio, alle Torri del Paine per ascoltare il suo respiro e a cinque anni di vita per starle vicino un giorno intero, ma sai che l’hai perduta e perdere un amore é un po’ come morire. Il mondo che hai conosciuto non ti basterà per riconquistarla. Devi seguire il tuo istinto. L’animale che sta dentro di te non si é ancora manifestato. Cercalo. Non lasciarlo rintanato per sempre. So che tu, “Mio Amabile Cavaliere”, vorresti avere l’eleganza del cavallo, l’agilità del delfino e la forza di un orso, ma io, per ora, non vedo in te un vero e proprio animale. Forse non lo vedo perché l’ animale che c’é in te é più immaginario che reale. Potresti essere un giovane drago. I draghi hanno una lunga vita. Un drago che quando spalanca le fauci non sputa fiamme, ma vuole comunicare, un drago che agita la coda felice di esistere, un drago alato che sta spiegando le ali per volare via. Sei arrivato in fondo. Sei arrivato alla fine del mondo, ma da qualche parte un nuovo inizio ci deve pur essere.
Dormo ogni notte accanto a te.
mi scaldo con il calore del tuo corpo,
ascoltando il tuo respiro lieve
e mi sveglio al dolce suono della tua voce.
Mai ti ho sentita così vicina
Eppure ti ho perduta,
perduta per sempre.
Forse non mi hai mai amato veramente,
ma non importa.
Chi ama accetta ogni cosa.
Perché l’amore, quello vero, qualcosa lascia,
mentre tu mi hai rimosso totalmente.
E’ giusto così.
Il tempo passa e le cose cambiano
ma l’amore e’ un incendio indomabile.
Ho percorso la mia strada fino in fondo,
indietro non si torna,
ma davanti il nulla attende.
Non ti vedrò invecchiare
Ne accompagnerò tua figlia all’altare
Rimarranno solo i ricordi,
il tuo sorriso,
e la tua mano che stringe forte la mia.
Ed ora addio amore mio,
lascia che il vento gelido mi consoli,
la volta stellata mi abbracci
e il mare raccolga le mie lacrime,
sono arrivato in fondo,
sono arrivato alla fine del mondo.