Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 165 – Novembre 2007
Un respiro profondo!
Un percorso immerso nel più grande polmone verde del mondo dalla costa caraibica del Venezuela, al Brasile, fino alle cime andine della Bolivia.
Che cos’è un respiro? Un gesto naturale? Aria nei polmoni che scatena il miracolo della vita? La foresta amazzonica è la più grande riserva naturale del pianeta. Grande quanto l’Europa Occidentale rappresenta un terzo della superficie boschiva del globo terrestre e un quinto delle riserve di acqua dolce. Il giorno in cui l’aria che oggi respiriamo gratuitamente si pagherà, il proprietario della foresta amazzonica potrà vendere un respiro su tre all’umanità.
L’obbiettivo di questo viaggio è quello di attraversare questo prezioso tesoro: un itinerario dalla capitale Venezuelana Caracas fino a La Paz in Bolivia. Un percorso impegnativo, ma non impossibile, con una grande incognita che mi toglie il sonno da mesi: la famosa BR 319, la strada costruita negli anni settanta per collegare Manaus a Porto Velho. Sarà aperta? Le informazioni prese segnalano che la strada è abbandonata da quasi vent’anni, impraticabile nella stagione delle piogge e molto malmessa nella stagione secca, anche se qualcuno ogni tanto riesce a passare. In alternativa, ci sono dei battelli che risalgono il Rio Madeira, ma non ci sono notizie certe neanche su questi. Il mistero si risolverà soltanto quando arriveremo laggiù. Avanti… oppure rinunciare al viaggio. Partecipano a questa nuova avventura un gruppo di motociclisti esperti e motivati, ma ben coscienti di intraprendere un viaggio mai realizzato prima e rischiare di rimanere “impantanati” nel cuore dell’Amazzonia.
Sbarchiamo all’aeroporto di Caracas in piena notte e facciamo conoscenza con Orlando Alder Oliveira, per gli amici “El Gato” che ci accompagna a Macuto, una località sulla costa a trenta chilometri dalla capitale e in posizione strategica rispetto al porto marittimo di La Guaira dove ritireremo le moto. Le pratiche per lo sdoganamento sono molto complicate e la nave è in grave ritardo, cosicchè il gruppo decide di concedersi una pausa di spiaggia, sole e mare a Porto Colombia. Le spiagge più belle si raggiungono in barca. La spiaggia di Choau ci accoglie con la sua aria fricchettona e rilassata offrendoci ottimo pesce alla griglia, birra gelata, cioccolato, surf e bellezze indigene mozzafiato.
Manca l’aria nell’afa pomeridiana del porto di La Guaira e del container delle moto non ci sono tracce. Sono giorni che esibiamo senza successo quintali di fotocopie ai tre diversi corpi di Polizia. Dopo “problemi e depistaggi” è sempre “troppo tardi” e dalle sedici e trenta in poi nessuno sposta un chiodo nel porto. Oggi però Carlos, il general manager della società che si occupa delle pratiche, gioca il Jolly. La “trovata” consiste nel travestire il sottoscritto, con tanto di elmetto e cinturone fosforescente di sicurezza, da addetto portuale in modo da raggiungere il container prima della chiusura. Lo stratagemma funziona e il container viene aperto. A questo punto non è più un problema di orario: possiamo ritirare le nostre amate motociclette.
Ci lasciamo alle spalle la caotica Caracas in poco tempo. L’autostrada alle sei di mattina è trafficata, ma scorrevole. Dopo trecento chilometri la moto di Franco si ferma. Lo sfortunato motociclista si deve arrendere davanti al motore bloccato della sua Suzuki: la sua avventura finisce qui. Incredibile! Siamo fermi in autostrada con la moto rotta. Passa un camion. Alzo le braccia in cerca d’aiuto. Il mezzo immediatamente si ferma. Chiedo: “Possiamo caricare la moto?” “Come no” dice il camionista. “Quanto vuoi?” “Niente! Arrivati a destinazione mi farete un regalo”. Paese fantastico il Venezuela! Anche la moto di Mirco e Nicoletta ha dei problemi al motorino d’avviamento, ma basta una spinta per ripartire. “El Gato” non è solo una guida ma un vero amico: ha fatto trasportare la moto da un parente a Ciudad Bolivar, domani manderà suo figlio che la trasporterà fino al confine Brasiliano. “El Gato” ha ereditato il suo soprannome dal padre, testimone di una incredibile storia. L’uomo viveva la sua gioventù in un piccolo villaggio dove la “consuetudine” delle numerose feste paesane era quella di rubare una gallina al vicino di casa e poi di invitarlo a consumare il pasto in allegria. Non sempre la cosa veniva accolta con benevolenza. Le denunce erano numerose e conducevano chi veniva colto in flagranza di reato (con la gallina nel sacco) in una cella di rigore per ventiquattro ore. Al padre di Orlando era capitato più volte di finire in gattabuia. Una volta, impegnato nel pollaio di una signora, aveva trovato, oltre al solito pollo, anche una nidiata di gattini e ne aveva infilati alcuni nel sacco. Il poliziotto di quartiere, che lo conosceva bene, lo aveva fermato e gli aveva chiesto cosa avesse nel sacco. L’uomo senza scomporsi aveva dato una strizzatina al sacco e il conseguente miagolio lo aveva salvato dal carcere. Da quella notte il padre di Orlando divenne “El Gato”.
Il paesaggio cambia continuamente come del resto il tempo: mattinate assolate con bellissimi cieli azzurri si alternano a pomeriggi con nuvole cariche di pioggia e temporali. Pianure e dolci colline lasciano il posto all’altopiano della Gran Sabana con i suoi Tepuis dalla cima tronca e alle numerosissime cascate. Il Salto Angel si raggiunge solo con piccoli aerei che decollano quotidianamente da Santa Helena de Uairen. I velivoli dotati di GPS e radar trasportano, oltre al pilota, cinque persone. Nonostante la strumentazione sia di primo ordine praticamente si vola a vista. “Manicomio” così viene chiamato il nostro pilota dalla comunità di Santa Helena per i suoi numerosissimi tic nervosi è in terza posizione. Nei primi minuti di volo l’ottima visibilità offre uno spettacolo straordinario, poi le nuvole scure aumentano e di conseguenza aumentano anche i tic del pilota. L’avvicinamento al Salto Angel non è facile: prima si devono superare alcune montagne, poi entrare in stretti canyon. Ad un certo punto “Manicomio” non se la sente di entrare in una nuvola grigia e densa e perde il contatto con i due aerei che ci precedono. Dopo vani tentativi di superare l’ostacolo il pilota decide di atterrare su un campo di patate e aspettare migliori condizioni atmosferiche. Dopo venti minuti, una schiarita, e il segno della croce si riparte. Le fatiche di “Manicomio” e la nostra pazienza vengono ripagate quando il Salto Angel ci appare in tutta la sua bellezza.
Dopo aver abbandonato la moto di Franco al confine tra il Venezuela e il Brasile, salutiamo “El Gato” con un caloroso e commovente abbraccio. Con un dollaro in Venezuela si acquistano ben trentatre litri di benzina. In Brasile invece il prezzo al litro corrisponde a un euro. La trattativa con i due contrabbandieri di benzina per i mezzi in appoggio è lunga, ma alla fine ripartiamo carichi di bagagli, gomme e tante speranze, per Manaus. La foresta si infittisce quasi soffocando le rare e piccole capanne. Boa Vista, una città molto tranquilla, viene raggiunta dopo duecentosessanta chilometri di strada asfaltata costellata di grosse buche profonde e, visto che non ci sono stazioni di carburante, con un pieno di benzina fatto con bottiglie di plastica in una capanna. Superata Boa Vista, la foresta si dirada a favore dei pascoli delle numerose “fazende”. La causa primaria della deforestazione sono proprio i pascoli e la storia è sempre la stessa. Si tagliano gli alberi ricavando enormi profitti, ciò che rimane viene dato alle fiamme e sull’area vengono coltivate piante erbacee che impediscono la crescita di nuovi alberi. Ogni anno ventitremila chilometri quadrati di foresta amazzonica scompaiono per lasciare spazio agli animali ed alla soia destinata al loro nutrimento. Solo quando attraversiamo la riserva indigena Waimiri la foresta ritorna padrona della scena. Alberi di alto fusto svettano sopra un muro verde impenetrabile e l’aria diventa densa, umida, calda e selvatica. Per anni i Waimiri si sono ribellati al governo che ha voluto la costruzione di questa strada, che vista dall’alto, è come una ferita profonda. Non sempre il progresso porta benefici. Sembrerà un paradosso, ma le nuove zone di “estrazione del legname” hanno bisogno di strade per penetrare in profondità. Incontriamo un posto di blocco della polizia. I militari tesi come corde di un violino ci tengono sotto il tiro delle loro armi. Non ci rimane che fermarci e tenere le mani bene in vista. Ci togliamo anche il casco. La tensione cala un pochino alla vista dei nostri visi pallidi. Da qualche parte un gruppo di banditi ha assaltato il “Banco do Brasil” portandosi via un bel gruzzolo e lasciando qualche morto sul terreno. Un ufficiale ci spiega l’accaduto quasi scusandosi per l’accoglienza non proprio benevola. Ripartiamo puntando direttamente verso un inquietante temporale. In un attimo l’orizzonte si è fatto nero ed abbiamo solo il tempo di infilarci le tute antipioggia prima che l’oscurità e la pioggia torrenziale ci inghiotta. L’acquazzone dura poco meno di un’ora, poi il sole ritorna a splendere trasformando gli ultimi duecento chilometri di saliscendi in un incendio di colori. Il sole sta tramontando velocemente. Abbiamo solo il tempo di vedere un serpente corallo schiacciato sull’asfalto, poi il buio. Sono quindici ore che non ci separiamo dai nostri amati “cavalli” e domani, finalmente, sapremo cosa ci riserverà il destino.
Grazie a “El Gato” ed al suo magnifico portoghese avevamo una bella prenotazione con la nave “Ciudade Manicorè”. Manuel, il Comandante, ci aveva assicurato: “in cinque giorni porterò voi e le vostre moto fino a Porto Velho”. Al porto di Manaus, invece, la notizia funesta. Dopo due settimane di inspiegabile siccità il livello del Rio Madeira si è abbassato di due metri e la nostra barca è bloccata a Nord di Porto Velho, cioè a cinque giorni di navigazione da Manaus. La disperazione si trasforma in gioia quando, per un colpo di fortuna, conosciamo Antonio e la sua bella nave che ci trasporterà fino a Porto Velho. Nel frattempo Flavio e Mirco, due motociclisti molto esperti, stanno valutando la possibilità di percorrere la famosa BR 319. La polizia conferma che la strada è aperta, anche se personalmente nutro qualche dubbio che la polizia di Manaus conosca lo stato di una strada lunga più di mille chilometri. La BR 319 collega Manaus a Porto Velho. I primi e gli ultimi duecento chilometri sono sempre percorribili, nel mezzo, invece, nessuno azzarda ipotesi, anche se l’istinto mi dice che questa è l’occasione giusta. Posso solo condividere la voglia dei due centauri di infilarsi in una strada che forse non esiste più, ma percorrerla con un gruppo così numeroso è impensabile. Ai due non rimane che trovare una jeep per il trasporto benzina, viveri e bagagli. L’impresa non è semplice. Le agenzie interpellate danno risposte poco rassicuranti: “Nessuno è così pazzo da accompagnarvi laggiù!” A malincuore Flavio e Mirco devono rinunciare: partiremo tutti con il “Barco”.
Il Rio delle Amazzoni è impressionante: seimilaottocentosessantotto chilometri di lunghezza, profondità massima di centoventi metri, maggior riserva d’acqua del pianeta e una larghezza tale da sembrare un mare. Trasportiamo le moto di peso giù per una ripida scalinata in ferro che collega la strada alla banchina del porto, poi attraverso due traballanti passerelle in legno raggiungiamo il pontile da cui si accede alla nave. Caliamo le moto con una semplice fune infilata in un anello di ferro attraverso uno stretto boccaporto dentro la stiva calda e buia dove il pavimento sembra avere una vita propria. Nessun problema! Sono solo uno sciame di luccicanti e velocissime “chucaracie” che vagano nell’oscurità disturbate dalla nostra presenza. In pochi minuti le motociclette sono caricate e legate. La nave, completamente in legno, è composta da tre ponti: il primo da cui si accede alla stiva per il carico e lo scarico, il secondo adibito a dormitorio e il terzo scoperto, con un bar e una rumorosa televisione a tutto volume. Il tempo sulla barca è scandito dall’amaca. Puoi dormire oppure stare sveglio e dormire più tardi, ma sempre stare avvolto come “un pisello nel baccello”. Alla partenza avevamo sistemato le amache in modo che il gruppo rimanesse comodo, compatto e isolato, ma ora, sopra, sotto e di fianco, intere famiglie viaggiano con i loro fardelli. Si litiga per lo spazio vitale dell’amaca, ma poi, seduti intorno all’unico tavolo per la cena, si diventa subito amici. Il pranzo e la cena consistono in un’unica portata, ma il cibo a base di carne di manzo, pollo, fagioli, patate e riso oltre che squisito è abbondante. Le notti arrivano presto all’equatore e sono interminabili, dopo le diciotto è buio pesto e ci si rintana nell’amaca ondeggiando tutti insieme appassionatamente. Nessuno dorme profondamente e mi capita spesso di gironzolare per la nave in cerca di compagnia. Mi piace stare sul ponte di comando, vicino al timoniere del “Barco” che naviga a “vista” nelle impenetrabili notti senza luna oppure sul ponte superiore illuminato da miliardi di stelle dove la barca sembra volare sopra un’infinita scia di fango. Non mancano gli abbordaggi dei veloci barchini che affiancano la nave per prendere o depositare altra gente, altre merci e di tanto in tanto un potente fanale viene acceso per alcuni secondi regalando immagini surreali della riva e delle acque vorticose color caffelatte. Di giorno invece, si ha la sensazione di sprofondare nel ventre del fiume mentre sfila lassù, in cima all’argine, la foresta. L’enorme massa d’acqua ha scavato nei secoli un solco profondo una ventina di metri che delimita i livelli di piena e siccità. Non è facile navigare in queste acque fangose e spesso si evita l’insabbiamento solo grazie ad una piccola imbarcazione che precedendoci scandaglia il fiume con un rudimentale peso attaccato ad una corda. Si avanza lentamente verso un orizzonte monotono e apparentemente privo di interesse, poi, però, come per magia, sfilano le immagini di capanne, sparuti villlaggi, imbarcazioni, indigeni ed enormi tronchi di alberi trascinati dalla corrente. Mi colpisce un gigantesco albero con le radici ben piantate a pochi metri dall’argine ormai eroso dall’impeto del fiume. Nonostante abbia un aspetto sano e vitale, non potrà sottrasi alla prossima piena del fiume. Immagino che, se potesse muoversi, scapperebbe con tutte le radici, invece di starsene lì immobile con i suoi rami maestosi che abbracciano la foresta in profondità. Forse conosce il proprio destino e sta spargendo tanti piccoli semi nella selva per assicurarsi un futuro.
Chi intraprende questo viaggio non bada al tempo che passa. Famiglie, venditori ambulanti, uomini d’affari, negozianti, tutti vanno da qualche parte, ma nessuno conosce esattamente in quanto tempo arriverà a destinazione. Domani o tra due o tre giorni non è importante. I fiumi sono le autostrade dell’amazzonia. La BR 319 non ha ragione di esistere in un paese dove per buona parte all’anno piove e i lavori per riparare ponti e strade prendono la restante parte dell’anno. Una cosa è certa: la gente si sposta sul fiume perché questa è la strada giusta.
Dopo tre giorni di navigazione siamo al capolinea. La barca di Antonio è grande e il livello del Rio Madeira troppo basso. Sbarchiamo tutti a Manicorè! Una rampa di cemento conduce al villaggio. Incontriamo padre Giacinto, un missionario italiano. L’accoglienza è calorosa, ma piena di stupore: “Le belle strade asfaltate del villaggio non portano da nessuna parte. In trent’anni non ho mai visto motociclisti. L’unica strada è il fiume.” Per nostra fortuna, arriva in serata una barca più piccola. Geraldo il comandante, dopo aver dialogato a lungo con Antonio, ci assicura la sua disponibilità a trasportarci fino a Humaità. Da Humaità ci basterà seguire per duecento chilometri la famigerata BR 319 per arrivare a Porto Velho. Le operazioni di carico e scarico, visto che la barca è stracolma di banane, prendono più di mezza giornata, ma, dopo una bella sudata, le moto sono sepolte nella stiva sotto migliaia di banane. Sono due giorni che a Manicorè impazza una festa brasiliana a suon di musica, danze e fiumi di birra ed ora tutti stanno ritornando verso casa… sulla nostra barca naturalmente. Salpiamo in tarda serata registrando “ tutto esaurito”. Facciamo conoscenza con un tizio sulla cinquantina, occhi azzurri, cappello di mucca in testa e accompagnato da una giovane splendida ragazza che ci chiede cortesemente di sistemare le sue due amache in mezzo alle nostre. “Niente da fare, amico, c’è posto solo per una” rispondiamo in coro. “OK nessun problema!” esclama l’uomo con un sorriso, prima di sistemarsi in un’unica amaca abbracciato alla sua “dolce metà”. Che invidia! Trascorrono altri due giorni di navigazione fra delfini rosa, coccodrilli, pappagalli e cercatori d’oro che cercano fortuna nelle sempre più basse acque del Rio Madeira poi…, all’una di notte, approdiamo ad Humaità. La barca accosta lungo la riva fangosa e… ci vorrebbe un ascensore per portare le moto lassù in paese, invece della scala di legno dalla pendenza impossibile che si è appena materializzata davanti ai nostri occhi. “Nessun problema” dice Geraldo sicuro di sé. “Adesso dormiamo. Domani mattina vedremo il da farsi”. Il simpatico Geraldo, che somiglia sempre di più a un vecchio pesce gatto, alle cinque salpa e ci deposita armi, bagagli e moto su un comodo approdo ad un paio di chilometri di distanza dal centro abitato. Mezz’ora più tardi, il tizio con il cappello di mucca, dopo essere andato a casa, aver messo a letto “la chica”, preso “il coche”, è ritornato e sta trasportando tutti i bagagli fino alla stazione dei taxi. Straordinario! Raggiunto il centro del villaggio, servirebbe un mezzo di trasporto adeguato ai nostri voluminosi bagagli. Una “camioneta” cioè un piccolo camion, farebbe al caso nostro, ma è domenica mattina ed in giro, a parte un ubriaco che ha smarrito la strada dalla sera precedente, non c’è nessuno. L’uomo alterna parole incomprensibili a nauseanti zaffate alcooliche, ma è simpatico ed è grazie a lui che entriamo in contatto con un inquietante individuo che conosce un “amico” con “una camioneta”. Il “losco” mi accompagna davanti ad una casetta di legno, verniciata di fresco, dove è parcheggiata una bella “camioneta roja” carica di pesanti casse. Il viaggio continua! Guajara Mirim dista solo seicento chilometri! La mitica BR 319 è molto accidentata e parzialmente sterrata, ma in questo tratto percorribile. Dopo pochi chilometri il telaietto posteriore della Honda Dominator di Mirco si spezza e non c’è altro da fare che caricarla sulla provvidenziale “camioneta”. Superato Porto Velho incontriamo solo pascoli e quello che rimane della foresta data alle fiamme, cioè tronchi anneriti e sterpaglie. Terribile! Incrociamo un motociclista solitario. C’è solo un attimo per salutarci con un lampeggio, ma a giudicare dalle gomme di scorta e dalle taniche di benzina supplementari mi sembra proprio diretto nel vespaio della BR 319. Auguri!!! Un bravo meccanico saldatore impiega più di due ore per sistemare la moto di Mirco, mentre alcuni di noi approfittano della pausa per sostituire i pneumatici. Una “balsa” cioè un ponte galleggiante spinto da un rimorchiatore permette ai mezzi di attraversare il fiume che divide il Brasile dalla Bolivia. La “balsa” non ha orari, parte solo a pieno carico e, visto che è ferma dalla parte boliviana completamente scarica, per non perdere tempo, approfittiamo di due piccole imbarcazioni di fortuna per caricare bagagli e moto. La traversata è molto avventurosa e faticosa, ma in meno di un’ora siamo a Guajaramirim, l’omonima cittadina boliviana. Non ci sono mezzi che possano accompagnarci fino a La Paz, quindi con il solito metodo “porta a porta” e tanta fortuna scoviamo un minibus per Riberalta, una città a solo cento chilometri di distanza. L’autista, un po’ anziano, ci preleva solo nel tardo pomeriggio, in compagnia della moglie, una donna simpatica, voluminosa e con due lunghe trecce. Il minibus è stracarico di bagagli e i passeggeri sono pigiati come sardine, ma la donna salendo sul mezzo commenta serafica: “vengo anch’io… non posso lasciare solo mio marito”. Appena ci lasciamo alle spalle il centro abitato finisce anche l’asfalto e il gruppo si sgrana lungo la bella pista sterrata. Ad una sosta per il rifornimento mancano due moto. Dopo un’ora, dal polverone sbuca la vecchia Honda Dominator di Claudio, spinta dal volonteroso Flavio. Non c’è niente da fare: il motore è grippato! Riberalta è una grande città, ma non c’è verso di trovare una macchina per caricare la moto di Claudio e… fra tre giorni il nostro aereo prende il volo per l’Italia! Grazie all’aiuto di Rafael, un’amico, riusciamo a scovare una jeep con due autisti che da Rurrenabache, alternandosi alla guida per cinquecento chilometri, raggiungeranno Riberalta in dodici ore. Sistemati i passeggeri rimane il problema della moto. Alle cinque di mattina arriva la jeep con i due autisti sconvolti dalla fatica, alle sei carichiamo i bagagli, alle sette proviamo a caricare la moto sul grande bus della “Flota” che in sole quaranta ore potrebbe raggiungere La Paz, ma non c’è spazio; alle otto tentiamo con l’aereo, che però è pieno fino alla fine della settimana; alle dieci, tardissimo, riesco a trovare una vecchissima “camioneta” rossa. I proprietari sembrano avvoltoi intorno alla carcassa di un moribondo. Dopo due ore di conferme, smentite, autisti che vanno a mangiare e non tornano e milletrecento dollari americani, finalmente a mezzogiorno il gruppo parte. La fatica è ampiamente ripagata dallo spettacolo di questi luoghi: pascoli, laghi, foreste, cavalli, aironi e centinaia di specie di uccelli fanno da sfondo ad una straordinaria pista rosso fuoco. Arriviamo con le moto a Santa Rosa un’ora dopo il tramonto, mentre le macchine arriveranno a notte fonda. La magnifica pista che ci aveva consentito di raggiungere Santa Rosa con medie elevate si trasforma in una dura e pietrosa via. Attraversiamo la zona delle Yungas fra montagne che sembrano rincorrersi fino a scomparire nella fitta vegetazione. Superato Caranavi iniziano anche ripide e pericolose salite. La cosa più strana è che su alcuni passi, dove gli strapiombi sono degni di Willy il Coyote, si giuda contromano. La spiegazione è molto semplice: chi guida a sinistra, cioè sul lato “gran burrone”, con il volante a sinistra, può vedere dove mettere le ruote ed evitare manovre errate. Chi sbaglia e vola di sotto per un migliaio di metri ha solo il tempo di pregare prima di finire spappolato in fondo al canyon e gli amici dall’alto possono solo vedere la nuvoletta di polvere che si alza dopo l’impatto. Scherzi a parte, non si può sbagliare e guidare in moto contromano è raccapricciante. In linea d’aria Coroico dista solo venticinque chilometri, ma per arrivarci ci vorranno più di tre ore. Un gruppo di cinque moto raggiunge Coroico poco dopo il tramonto, mentre gli altri saggiamente si fermano a Caranavi sorpresi dal buio. Il gruppo si ricompatta di buon mattino in una magnifica cornice di cime imbiancate. Evitando la celeberrima “Ruta de la muerte”, la strada sterrata più pericolosa del mondo, trasformata in percorso turistico per mountain bike, puntiamo direttamente su La Paz, attraverso una moderna e panoramica strada asfaltata che in meno di cento chilometri porta verso la capitale boliviana. Superiamo il passo a quota quattromilaseicento metri, poi, una lunga discesa conduce in uno strano canyon dove, circondata da brulle montagne sovrastate dal cielo azzurro intenso, è adagiata questa strana, ma bella città di nome La Paz. Il clima secco e la mancanza di ossigeno esaltano ancora di più la nostra dipendenza dall’aria prodotta dalla foresta che dista meno di cento chilometri in linea d’aria. Nel cuore della foresta il gigantesco albero sul greto eroso del Rio Madeira soccombe impotente alla furia del fiume, ben consapevole di appartenere al ciclo naturale del pianeta. Gli esseri umani, disboscando selvaggiamente, invece, ne sconvolgono gli equilibri dimenticando che l’Amazzonia è il nostro futuro. Questo pianeta potrà sopravvivere solo grazie alla natura. La natura e la nostra coscienza.Ringraziamenti
Questo viaggio è stato portato a termine grazie ad un gruppo affiatato, motivato, tenace e reattivo, ben consapevole di avere intrapreso un viaggio pieno di incognite e mai effettuato prima. A tutti loro: Giuseppina, Rossella, Barbara, Nicoletta, Franco, Z. Claudio, A. Claudio, Angelo, Alberto, Flavio, G. Mirco, P. Mirco, Gianni, va il mio ringraziamento e, un Grazie di cuore anche a Vittorio di Viaggi nel Mondo che ha reso possibile questa nuova Avventura
L’obbiettivo di questo viaggio è quello di attraversare questo prezioso tesoro: un itinerario dalla capitale Venezuelana Caracas fino a La Paz in Bolivia. Un percorso impegnativo, ma non impossibile, con una grande incognita che mi toglie il sonno da mesi: la famosa BR 319, la strada costruita negli anni settanta per collegare Manaus a Porto Velho. Sarà aperta? Le informazioni prese segnalano che la strada è abbandonata da quasi vent’anni, impraticabile nella stagione delle piogge e molto malmessa nella stagione secca, anche se qualcuno ogni tanto riesce a passare. In alternativa, ci sono dei battelli che risalgono il Rio Madeira, ma non ci sono notizie certe neanche su questi. Il mistero si risolverà soltanto quando arriveremo laggiù. Avanti… oppure rinunciare al viaggio. Partecipano a questa nuova avventura un gruppo di motociclisti esperti e motivati, ma ben coscienti di intraprendere un viaggio mai realizzato prima e rischiare di rimanere “impantanati” nel cuore dell’Amazzonia.
Sbarchiamo all’aeroporto di Caracas in piena notte e facciamo conoscenza con Orlando Alder Oliveira, per gli amici “El Gato” che ci accompagna a Macuto, una località sulla costa a trenta chilometri dalla capitale e in posizione strategica rispetto al porto marittimo di La Guaira dove ritireremo le moto. Le pratiche per lo sdoganamento sono molto complicate e la nave è in grave ritardo, cosicchè il gruppo decide di concedersi una pausa di spiaggia, sole e mare a Porto Colombia. Le spiagge più belle si raggiungono in barca. La spiaggia di Choau ci accoglie con la sua aria fricchettona e rilassata offrendoci ottimo pesce alla griglia, birra gelata, cioccolato, surf e bellezze indigene mozzafiato.
Manca l’aria nell’afa pomeridiana del porto di La Guaira e del container delle moto non ci sono tracce. Sono giorni che esibiamo senza successo quintali di fotocopie ai tre diversi corpi di Polizia. Dopo “problemi e depistaggi” è sempre “troppo tardi” e dalle sedici e trenta in poi nessuno sposta un chiodo nel porto. Oggi però Carlos, il general manager della società che si occupa delle pratiche, gioca il Jolly. La “trovata” consiste nel travestire il sottoscritto, con tanto di elmetto e cinturone fosforescente di sicurezza, da addetto portuale in modo da raggiungere il container prima della chiusura. Lo stratagemma funziona e il container viene aperto. A questo punto non è più un problema di orario: possiamo ritirare le nostre amate motociclette.
Ci lasciamo alle spalle la caotica Caracas in poco tempo. L’autostrada alle sei di mattina è trafficata, ma scorrevole. Dopo trecento chilometri la moto di Franco si ferma. Lo sfortunato motociclista si deve arrendere davanti al motore bloccato della sua Suzuki: la sua avventura finisce qui. Incredibile! Siamo fermi in autostrada con la moto rotta. Passa un camion. Alzo le braccia in cerca d’aiuto. Il mezzo immediatamente si ferma. Chiedo: “Possiamo caricare la moto?” “Come no” dice il camionista. “Quanto vuoi?” “Niente! Arrivati a destinazione mi farete un regalo”. Paese fantastico il Venezuela! Anche la moto di Mirco e Nicoletta ha dei problemi al motorino d’avviamento, ma basta una spinta per ripartire. “El Gato” non è solo una guida ma un vero amico: ha fatto trasportare la moto da un parente a Ciudad Bolivar, domani manderà suo figlio che la trasporterà fino al confine Brasiliano. “El Gato” ha ereditato il suo soprannome dal padre, testimone di una incredibile storia. L’uomo viveva la sua gioventù in un piccolo villaggio dove la “consuetudine” delle numerose feste paesane era quella di rubare una gallina al vicino di casa e poi di invitarlo a consumare il pasto in allegria. Non sempre la cosa veniva accolta con benevolenza. Le denunce erano numerose e conducevano chi veniva colto in flagranza di reato (con la gallina nel sacco) in una cella di rigore per ventiquattro ore. Al padre di Orlando era capitato più volte di finire in gattabuia. Una volta, impegnato nel pollaio di una signora, aveva trovato, oltre al solito pollo, anche una nidiata di gattini e ne aveva infilati alcuni nel sacco. Il poliziotto di quartiere, che lo conosceva bene, lo aveva fermato e gli aveva chiesto cosa avesse nel sacco. L’uomo senza scomporsi aveva dato una strizzatina al sacco e il conseguente miagolio lo aveva salvato dal carcere. Da quella notte il padre di Orlando divenne “El Gato”.
Il paesaggio cambia continuamente come del resto il tempo: mattinate assolate con bellissimi cieli azzurri si alternano a pomeriggi con nuvole cariche di pioggia e temporali. Pianure e dolci colline lasciano il posto all’altopiano della Gran Sabana con i suoi Tepuis dalla cima tronca e alle numerosissime cascate. Il Salto Angel si raggiunge solo con piccoli aerei che decollano quotidianamente da Santa Helena de Uairen. I velivoli dotati di GPS e radar trasportano, oltre al pilota, cinque persone. Nonostante la strumentazione sia di primo ordine praticamente si vola a vista. “Manicomio” così viene chiamato il nostro pilota dalla comunità di Santa Helena per i suoi numerosissimi tic nervosi è in terza posizione. Nei primi minuti di volo l’ottima visibilità offre uno spettacolo straordinario, poi le nuvole scure aumentano e di conseguenza aumentano anche i tic del pilota. L’avvicinamento al Salto Angel non è facile: prima si devono superare alcune montagne, poi entrare in stretti canyon. Ad un certo punto “Manicomio” non se la sente di entrare in una nuvola grigia e densa e perde il contatto con i due aerei che ci precedono. Dopo vani tentativi di superare l’ostacolo il pilota decide di atterrare su un campo di patate e aspettare migliori condizioni atmosferiche. Dopo venti minuti, una schiarita, e il segno della croce si riparte. Le fatiche di “Manicomio” e la nostra pazienza vengono ripagate quando il Salto Angel ci appare in tutta la sua bellezza.
Dopo aver abbandonato la moto di Franco al confine tra il Venezuela e il Brasile, salutiamo “El Gato” con un caloroso e commovente abbraccio. Con un dollaro in Venezuela si acquistano ben trentatre litri di benzina. In Brasile invece il prezzo al litro corrisponde a un euro. La trattativa con i due contrabbandieri di benzina per i mezzi in appoggio è lunga, ma alla fine ripartiamo carichi di bagagli, gomme e tante speranze, per Manaus. La foresta si infittisce quasi soffocando le rare e piccole capanne. Boa Vista, una città molto tranquilla, viene raggiunta dopo duecentosessanta chilometri di strada asfaltata costellata di grosse buche profonde e, visto che non ci sono stazioni di carburante, con un pieno di benzina fatto con bottiglie di plastica in una capanna. Superata Boa Vista, la foresta si dirada a favore dei pascoli delle numerose “fazende”. La causa primaria della deforestazione sono proprio i pascoli e la storia è sempre la stessa. Si tagliano gli alberi ricavando enormi profitti, ciò che rimane viene dato alle fiamme e sull’area vengono coltivate piante erbacee che impediscono la crescita di nuovi alberi. Ogni anno ventitremila chilometri quadrati di foresta amazzonica scompaiono per lasciare spazio agli animali ed alla soia destinata al loro nutrimento. Solo quando attraversiamo la riserva indigena Waimiri la foresta ritorna padrona della scena. Alberi di alto fusto svettano sopra un muro verde impenetrabile e l’aria diventa densa, umida, calda e selvatica. Per anni i Waimiri si sono ribellati al governo che ha voluto la costruzione di questa strada, che vista dall’alto, è come una ferita profonda. Non sempre il progresso porta benefici. Sembrerà un paradosso, ma le nuove zone di “estrazione del legname” hanno bisogno di strade per penetrare in profondità. Incontriamo un posto di blocco della polizia. I militari tesi come corde di un violino ci tengono sotto il tiro delle loro armi. Non ci rimane che fermarci e tenere le mani bene in vista. Ci togliamo anche il casco. La tensione cala un pochino alla vista dei nostri visi pallidi. Da qualche parte un gruppo di banditi ha assaltato il “Banco do Brasil” portandosi via un bel gruzzolo e lasciando qualche morto sul terreno. Un ufficiale ci spiega l’accaduto quasi scusandosi per l’accoglienza non proprio benevola. Ripartiamo puntando direttamente verso un inquietante temporale. In un attimo l’orizzonte si è fatto nero ed abbiamo solo il tempo di infilarci le tute antipioggia prima che l’oscurità e la pioggia torrenziale ci inghiotta. L’acquazzone dura poco meno di un’ora, poi il sole ritorna a splendere trasformando gli ultimi duecento chilometri di saliscendi in un incendio di colori. Il sole sta tramontando velocemente. Abbiamo solo il tempo di vedere un serpente corallo schiacciato sull’asfalto, poi il buio. Sono quindici ore che non ci separiamo dai nostri amati “cavalli” e domani, finalmente, sapremo cosa ci riserverà il destino.
Grazie a “El Gato” ed al suo magnifico portoghese avevamo una bella prenotazione con la nave “Ciudade Manicorè”. Manuel, il Comandante, ci aveva assicurato: “in cinque giorni porterò voi e le vostre moto fino a Porto Velho”. Al porto di Manaus, invece, la notizia funesta. Dopo due settimane di inspiegabile siccità il livello del Rio Madeira si è abbassato di due metri e la nostra barca è bloccata a Nord di Porto Velho, cioè a cinque giorni di navigazione da Manaus. La disperazione si trasforma in gioia quando, per un colpo di fortuna, conosciamo Antonio e la sua bella nave che ci trasporterà fino a Porto Velho. Nel frattempo Flavio e Mirco, due motociclisti molto esperti, stanno valutando la possibilità di percorrere la famosa BR 319. La polizia conferma che la strada è aperta, anche se personalmente nutro qualche dubbio che la polizia di Manaus conosca lo stato di una strada lunga più di mille chilometri. La BR 319 collega Manaus a Porto Velho. I primi e gli ultimi duecento chilometri sono sempre percorribili, nel mezzo, invece, nessuno azzarda ipotesi, anche se l’istinto mi dice che questa è l’occasione giusta. Posso solo condividere la voglia dei due centauri di infilarsi in una strada che forse non esiste più, ma percorrerla con un gruppo così numeroso è impensabile. Ai due non rimane che trovare una jeep per il trasporto benzina, viveri e bagagli. L’impresa non è semplice. Le agenzie interpellate danno risposte poco rassicuranti: “Nessuno è così pazzo da accompagnarvi laggiù!” A malincuore Flavio e Mirco devono rinunciare: partiremo tutti con il “Barco”.
Il Rio delle Amazzoni è impressionante: seimilaottocentosessantotto chilometri di lunghezza, profondità massima di centoventi metri, maggior riserva d’acqua del pianeta e una larghezza tale da sembrare un mare. Trasportiamo le moto di peso giù per una ripida scalinata in ferro che collega la strada alla banchina del porto, poi attraverso due traballanti passerelle in legno raggiungiamo il pontile da cui si accede alla nave. Caliamo le moto con una semplice fune infilata in un anello di ferro attraverso uno stretto boccaporto dentro la stiva calda e buia dove il pavimento sembra avere una vita propria. Nessun problema! Sono solo uno sciame di luccicanti e velocissime “chucaracie” che vagano nell’oscurità disturbate dalla nostra presenza. In pochi minuti le motociclette sono caricate e legate. La nave, completamente in legno, è composta da tre ponti: il primo da cui si accede alla stiva per il carico e lo scarico, il secondo adibito a dormitorio e il terzo scoperto, con un bar e una rumorosa televisione a tutto volume. Il tempo sulla barca è scandito dall’amaca. Puoi dormire oppure stare sveglio e dormire più tardi, ma sempre stare avvolto come “un pisello nel baccello”. Alla partenza avevamo sistemato le amache in modo che il gruppo rimanesse comodo, compatto e isolato, ma ora, sopra, sotto e di fianco, intere famiglie viaggiano con i loro fardelli. Si litiga per lo spazio vitale dell’amaca, ma poi, seduti intorno all’unico tavolo per la cena, si diventa subito amici. Il pranzo e la cena consistono in un’unica portata, ma il cibo a base di carne di manzo, pollo, fagioli, patate e riso oltre che squisito è abbondante. Le notti arrivano presto all’equatore e sono interminabili, dopo le diciotto è buio pesto e ci si rintana nell’amaca ondeggiando tutti insieme appassionatamente. Nessuno dorme profondamente e mi capita spesso di gironzolare per la nave in cerca di compagnia. Mi piace stare sul ponte di comando, vicino al timoniere del “Barco” che naviga a “vista” nelle impenetrabili notti senza luna oppure sul ponte superiore illuminato da miliardi di stelle dove la barca sembra volare sopra un’infinita scia di fango. Non mancano gli abbordaggi dei veloci barchini che affiancano la nave per prendere o depositare altra gente, altre merci e di tanto in tanto un potente fanale viene acceso per alcuni secondi regalando immagini surreali della riva e delle acque vorticose color caffelatte. Di giorno invece, si ha la sensazione di sprofondare nel ventre del fiume mentre sfila lassù, in cima all’argine, la foresta. L’enorme massa d’acqua ha scavato nei secoli un solco profondo una ventina di metri che delimita i livelli di piena e siccità. Non è facile navigare in queste acque fangose e spesso si evita l’insabbiamento solo grazie ad una piccola imbarcazione che precedendoci scandaglia il fiume con un rudimentale peso attaccato ad una corda. Si avanza lentamente verso un orizzonte monotono e apparentemente privo di interesse, poi, però, come per magia, sfilano le immagini di capanne, sparuti villlaggi, imbarcazioni, indigeni ed enormi tronchi di alberi trascinati dalla corrente. Mi colpisce un gigantesco albero con le radici ben piantate a pochi metri dall’argine ormai eroso dall’impeto del fiume. Nonostante abbia un aspetto sano e vitale, non potrà sottrasi alla prossima piena del fiume. Immagino che, se potesse muoversi, scapperebbe con tutte le radici, invece di starsene lì immobile con i suoi rami maestosi che abbracciano la foresta in profondità. Forse conosce il proprio destino e sta spargendo tanti piccoli semi nella selva per assicurarsi un futuro.
Chi intraprende questo viaggio non bada al tempo che passa. Famiglie, venditori ambulanti, uomini d’affari, negozianti, tutti vanno da qualche parte, ma nessuno conosce esattamente in quanto tempo arriverà a destinazione. Domani o tra due o tre giorni non è importante. I fiumi sono le autostrade dell’amazzonia. La BR 319 non ha ragione di esistere in un paese dove per buona parte all’anno piove e i lavori per riparare ponti e strade prendono la restante parte dell’anno. Una cosa è certa: la gente si sposta sul fiume perché questa è la strada giusta.
Dopo tre giorni di navigazione siamo al capolinea. La barca di Antonio è grande e il livello del Rio Madeira troppo basso. Sbarchiamo tutti a Manicorè! Una rampa di cemento conduce al villaggio. Incontriamo padre Giacinto, un missionario italiano. L’accoglienza è calorosa, ma piena di stupore: “Le belle strade asfaltate del villaggio non portano da nessuna parte. In trent’anni non ho mai visto motociclisti. L’unica strada è il fiume.” Per nostra fortuna, arriva in serata una barca più piccola. Geraldo il comandante, dopo aver dialogato a lungo con Antonio, ci assicura la sua disponibilità a trasportarci fino a Humaità. Da Humaità ci basterà seguire per duecento chilometri la famigerata BR 319 per arrivare a Porto Velho. Le operazioni di carico e scarico, visto che la barca è stracolma di banane, prendono più di mezza giornata, ma, dopo una bella sudata, le moto sono sepolte nella stiva sotto migliaia di banane. Sono due giorni che a Manicorè impazza una festa brasiliana a suon di musica, danze e fiumi di birra ed ora tutti stanno ritornando verso casa… sulla nostra barca naturalmente. Salpiamo in tarda serata registrando “ tutto esaurito”. Facciamo conoscenza con un tizio sulla cinquantina, occhi azzurri, cappello di mucca in testa e accompagnato da una giovane splendida ragazza che ci chiede cortesemente di sistemare le sue due amache in mezzo alle nostre. “Niente da fare, amico, c’è posto solo per una” rispondiamo in coro. “OK nessun problema!” esclama l’uomo con un sorriso, prima di sistemarsi in un’unica amaca abbracciato alla sua “dolce metà”. Che invidia! Trascorrono altri due giorni di navigazione fra delfini rosa, coccodrilli, pappagalli e cercatori d’oro che cercano fortuna nelle sempre più basse acque del Rio Madeira poi…, all’una di notte, approdiamo ad Humaità. La barca accosta lungo la riva fangosa e… ci vorrebbe un ascensore per portare le moto lassù in paese, invece della scala di legno dalla pendenza impossibile che si è appena materializzata davanti ai nostri occhi. “Nessun problema” dice Geraldo sicuro di sé. “Adesso dormiamo. Domani mattina vedremo il da farsi”. Il simpatico Geraldo, che somiglia sempre di più a un vecchio pesce gatto, alle cinque salpa e ci deposita armi, bagagli e moto su un comodo approdo ad un paio di chilometri di distanza dal centro abitato. Mezz’ora più tardi, il tizio con il cappello di mucca, dopo essere andato a casa, aver messo a letto “la chica”, preso “il coche”, è ritornato e sta trasportando tutti i bagagli fino alla stazione dei taxi. Straordinario! Raggiunto il centro del villaggio, servirebbe un mezzo di trasporto adeguato ai nostri voluminosi bagagli. Una “camioneta” cioè un piccolo camion, farebbe al caso nostro, ma è domenica mattina ed in giro, a parte un ubriaco che ha smarrito la strada dalla sera precedente, non c’è nessuno. L’uomo alterna parole incomprensibili a nauseanti zaffate alcooliche, ma è simpatico ed è grazie a lui che entriamo in contatto con un inquietante individuo che conosce un “amico” con “una camioneta”. Il “losco” mi accompagna davanti ad una casetta di legno, verniciata di fresco, dove è parcheggiata una bella “camioneta roja” carica di pesanti casse. Il viaggio continua! Guajara Mirim dista solo seicento chilometri! La mitica BR 319 è molto accidentata e parzialmente sterrata, ma in questo tratto percorribile. Dopo pochi chilometri il telaietto posteriore della Honda Dominator di Mirco si spezza e non c’è altro da fare che caricarla sulla provvidenziale “camioneta”. Superato Porto Velho incontriamo solo pascoli e quello che rimane della foresta data alle fiamme, cioè tronchi anneriti e sterpaglie. Terribile! Incrociamo un motociclista solitario. C’è solo un attimo per salutarci con un lampeggio, ma a giudicare dalle gomme di scorta e dalle taniche di benzina supplementari mi sembra proprio diretto nel vespaio della BR 319. Auguri!!! Un bravo meccanico saldatore impiega più di due ore per sistemare la moto di Mirco, mentre alcuni di noi approfittano della pausa per sostituire i pneumatici. Una “balsa” cioè un ponte galleggiante spinto da un rimorchiatore permette ai mezzi di attraversare il fiume che divide il Brasile dalla Bolivia. La “balsa” non ha orari, parte solo a pieno carico e, visto che è ferma dalla parte boliviana completamente scarica, per non perdere tempo, approfittiamo di due piccole imbarcazioni di fortuna per caricare bagagli e moto. La traversata è molto avventurosa e faticosa, ma in meno di un’ora siamo a Guajaramirim, l’omonima cittadina boliviana. Non ci sono mezzi che possano accompagnarci fino a La Paz, quindi con il solito metodo “porta a porta” e tanta fortuna scoviamo un minibus per Riberalta, una città a solo cento chilometri di distanza. L’autista, un po’ anziano, ci preleva solo nel tardo pomeriggio, in compagnia della moglie, una donna simpatica, voluminosa e con due lunghe trecce. Il minibus è stracarico di bagagli e i passeggeri sono pigiati come sardine, ma la donna salendo sul mezzo commenta serafica: “vengo anch’io… non posso lasciare solo mio marito”. Appena ci lasciamo alle spalle il centro abitato finisce anche l’asfalto e il gruppo si sgrana lungo la bella pista sterrata. Ad una sosta per il rifornimento mancano due moto. Dopo un’ora, dal polverone sbuca la vecchia Honda Dominator di Claudio, spinta dal volonteroso Flavio. Non c’è niente da fare: il motore è grippato! Riberalta è una grande città, ma non c’è verso di trovare una macchina per caricare la moto di Claudio e… fra tre giorni il nostro aereo prende il volo per l’Italia! Grazie all’aiuto di Rafael, un’amico, riusciamo a scovare una jeep con due autisti che da Rurrenabache, alternandosi alla guida per cinquecento chilometri, raggiungeranno Riberalta in dodici ore. Sistemati i passeggeri rimane il problema della moto. Alle cinque di mattina arriva la jeep con i due autisti sconvolti dalla fatica, alle sei carichiamo i bagagli, alle sette proviamo a caricare la moto sul grande bus della “Flota” che in sole quaranta ore potrebbe raggiungere La Paz, ma non c’è spazio; alle otto tentiamo con l’aereo, che però è pieno fino alla fine della settimana; alle dieci, tardissimo, riesco a trovare una vecchissima “camioneta” rossa. I proprietari sembrano avvoltoi intorno alla carcassa di un moribondo. Dopo due ore di conferme, smentite, autisti che vanno a mangiare e non tornano e milletrecento dollari americani, finalmente a mezzogiorno il gruppo parte. La fatica è ampiamente ripagata dallo spettacolo di questi luoghi: pascoli, laghi, foreste, cavalli, aironi e centinaia di specie di uccelli fanno da sfondo ad una straordinaria pista rosso fuoco. Arriviamo con le moto a Santa Rosa un’ora dopo il tramonto, mentre le macchine arriveranno a notte fonda. La magnifica pista che ci aveva consentito di raggiungere Santa Rosa con medie elevate si trasforma in una dura e pietrosa via. Attraversiamo la zona delle Yungas fra montagne che sembrano rincorrersi fino a scomparire nella fitta vegetazione. Superato Caranavi iniziano anche ripide e pericolose salite. La cosa più strana è che su alcuni passi, dove gli strapiombi sono degni di Willy il Coyote, si giuda contromano. La spiegazione è molto semplice: chi guida a sinistra, cioè sul lato “gran burrone”, con il volante a sinistra, può vedere dove mettere le ruote ed evitare manovre errate. Chi sbaglia e vola di sotto per un migliaio di metri ha solo il tempo di pregare prima di finire spappolato in fondo al canyon e gli amici dall’alto possono solo vedere la nuvoletta di polvere che si alza dopo l’impatto. Scherzi a parte, non si può sbagliare e guidare in moto contromano è raccapricciante. In linea d’aria Coroico dista solo venticinque chilometri, ma per arrivarci ci vorranno più di tre ore. Un gruppo di cinque moto raggiunge Coroico poco dopo il tramonto, mentre gli altri saggiamente si fermano a Caranavi sorpresi dal buio. Il gruppo si ricompatta di buon mattino in una magnifica cornice di cime imbiancate. Evitando la celeberrima “Ruta de la muerte”, la strada sterrata più pericolosa del mondo, trasformata in percorso turistico per mountain bike, puntiamo direttamente su La Paz, attraverso una moderna e panoramica strada asfaltata che in meno di cento chilometri porta verso la capitale boliviana. Superiamo il passo a quota quattromilaseicento metri, poi, una lunga discesa conduce in uno strano canyon dove, circondata da brulle montagne sovrastate dal cielo azzurro intenso, è adagiata questa strana, ma bella città di nome La Paz. Il clima secco e la mancanza di ossigeno esaltano ancora di più la nostra dipendenza dall’aria prodotta dalla foresta che dista meno di cento chilometri in linea d’aria. Nel cuore della foresta il gigantesco albero sul greto eroso del Rio Madeira soccombe impotente alla furia del fiume, ben consapevole di appartenere al ciclo naturale del pianeta. Gli esseri umani, disboscando selvaggiamente, invece, ne sconvolgono gli equilibri dimenticando che l’Amazzonia è il nostro futuro. Questo pianeta potrà sopravvivere solo grazie alla natura. La natura e la nostra coscienza.Ringraziamenti
Questo viaggio è stato portato a termine grazie ad un gruppo affiatato, motivato, tenace e reattivo, ben consapevole di avere intrapreso un viaggio pieno di incognite e mai effettuato prima. A tutti loro: Giuseppina, Rossella, Barbara, Nicoletta, Franco, Z. Claudio, A. Claudio, Angelo, Alberto, Flavio, G. Mirco, P. Mirco, Gianni, va il mio ringraziamento e, un Grazie di cuore anche a Vittorio di Viaggi nel Mondo che ha reso possibile questa nuova Avventura