Articolo pubblicato da Mototurismo – N. 137 – Febbraio 2006
“The long ride”
Attraversare il Golden Gate è emozionante. Gli enormi piloni di sostegno sembrano non avere fine, inghiottiti dalle nuvole basse che avvolgono il ponte e lo fanno apparire come un enorme braccio proteso verso un luogo sconosciuto. Non appena la nebbia si dissolve, appare in tutta la sua bellezza la baia di S. Francisco.
L’Alaska, “l’ultima frontiera”, è lassù a Nord Ovest che mi aspetta a 5000 chilometri di distanza. Un luogo di ghiacci, montagne, fiumi e parchi sconfinati che da sempre mi affascina. Attraverserò l’Oregon, lo stato di Washington, la British Columbia, lo Yukon e mi aspetto paesaggi straordinari, caribù, orsi, alci, foreste, laghi incantati. Un lungo percorso in cui dovrò confrontarmi per la prima volta con l’America.
Noi italiani abbiamo sempre avuto un complesso di inferiorità nei confronti degli Stati Uniti, ma nello stesso tempo l’America è sempre stata un sogno. L’America degli splendidi scenari cinematografici di John Ford, di Howard Howks, di John Wayne, che tanto aveva colpito la mia fantasia di adolescente, l’America in guerra con il Vietnam, dei Kennedy, di Martin Lhuter King, delle contraddizioni, la terra dell’abbondanza, fino al recente attacco terroristico alle Torri Gemelli ed alla guerra di G.W. Bush all’Afghanistan ed all’Iraq.
Non provo una grande simpatia per Bush e nemmeno ne condivido le scelte politiche, però mi piacerebbe incontrarlo, per fare due chiacchiere, magari in moto. La motocicletta talvolta crea delle amicizie impossibili, e chissà che tra una gomma racing, una taratura delle forcelle e un consiglio su un buon itinerario non riesca a fargli anche una bella domanda: “Ehi George, quando ti riporti a casa i tuoi ragazzi dall’Iraq?” Ma Bush la faccia da motociclista non ce l’ha. Bill Clinton invece sì, e me lo immagino sorridente e sornione a cavallo di una luccicante Harley-Davidson mentre si fuma un enorme e “odoroso” sigaro.
I presidenti sono sicuramente il punto di riferimento di un paese, ma quello che conta per una nazione è il popolo.
Arrivando in aereo dall’Europa, una lunga sosta di dodici ore all’aeroporto di Philadelphia mi ha dato la possibilità di visitare la prima città Americana, il luogo da cui è partito l’impulso che ha portato all’Indipendenza.
Mi ha particolarmente colpito la “premessa” della Costituzione Americana scritta a caratteri cubitali sul muro dell’Indipendence Center:“We, the people of the United States, in order to form a more perfect Union, establish justice, insure domestic tranquility, provide for the common defense, promote the general welfare, and secure the blessings of liberty to ourselves and our posterity, do ordain and establish this Constitution for the United States of America”
“Noi, il Popolo Americano con il fine di costituire una perfetta unione, far valere la giustizia, assicurare la tranquillità interna, provvedere alla difesa, promuovere il generale benessere ed assicurare la libertà a ciascuno di Noi e la nostra prosperità, ordiniamo e redigiamo questa costituzione degli Stati Uniti d’America”Poche parole, ma chiare e significative e poi quel: “assicurare la libertà ad ognuno di noi” mi fa venire la pelle d’oca. La libertà! Tutta l’umanità ruota intorno a questa parola. Per quelli fortunati, come me, nati in Italia durante il boom economico del dopoguerra, in piena democrazia, dire: “Libertà” quasi non ha senso. Abbiamo avuto tutto: benessere, opportunità, tecnologia e forse ci siamo dimenticati del valore della libertà.
Penso al mio ultimo viaggio in Myanmar: Aung San Suu Kyi, la leader birmana premio nobel per la pace, da dodici anni è agli arresti domiciliari. Che importanza avrà per Lei la “Libertà”? E quante altre persone vivono su questo pianeta private del bene più prezioso? Attenzione dunque quando pronunciamo questa parola, sentiamone il peso, assaporiamone il gusto, percepiamone la forza. Chi ha scritto la Costituzione, e prima ancora la Dichiarazione d’Indipendenza, indubbiamente amava la libertà ed ha lungamente combattuto per ottenerla anche a costo della vita. Il 4 luglio 1779 a Philadelphia, Thomas Jefferson chiedeva al congresso continentale che le “colonie” si proclamassero stati liberi ed indipendenti. John Hanckok, Benjamin Franklin, Josiah Bartlett, Ruggero Sherman sono solo i primi nomi del lungo elenco di uomini che firmarono in fondo alla famosa pergamena. Duecentoventinove anni fa avevano le idee chiare sul significato di Libertà. Questo paese appartiene al Suo popolo ed io voglio incontrare proprio loro: il Popolo degli Stati Uniti!
Sarà un lungo viaggio solitario. Solo per scelta. Non c’è dubbio che in compagnia mi sarei divertito di più, ma ci sono viaggi che vanno assolutamente affrontati da soli. E’ un desiderio che nasce dentro, dove il “perché” supera di gran lunga il “dove”, e poi, vorrei capire per quale motivo il popolo della nazione più potente del mondo sogna di visitare almeno una volta nella vita proprio l’Alaska.
Guidare da solo cambia le prospettive e le sensazioni.
Davanti: la strada! Dietro (una sbirciatina negli specchietti retrovisori): niente!
In mezzo: la moto, ed i miei pensieri. L’ignoto mi affascina, ed il fatto di essere in sella ad una rossa, luccicante, italianissima Ducati Multistrada 1000S DS, la moto che tutti gli americani sognano, mi fa sentire come un centurione romano prima della battaglia decisiva: magro e famelico… di emozioni.
Dire che sono in uno stato di grazia è riduttivo. Nella vita di tutti i giorni usiamo il nostro corpo al minimo delle proprie possibilità e il cervello è perennemente in confusione. Adesso, posso sentire il sangue scorrere nelle vene, l’aria entrare nei polmoni, il cuore battere e la mente, ordinati per importanza tutti “i file” e cestinati quelli che non servono, aprirsi alla purezza del pensiero “on the road”.
La strada mi ha insegnato molto: ho imparato ad assaporare la mia mutazione continua, aspettando che il mondo si rivelasse, chilometro dopo chilometro, senza avere la pretesa di capire tutto quello che mi circonda, ma osservando con attenzione, con interesse, con gli occhi di un bambino che ogni giorno vuole imparare una cosa nuova, senza avere paura. E la strada, oltre ad immagini straordinarie, mi ha regalato equilibrio e pace interiore. Ad ogni viaggio alcune “porte” si sono aperte rivelando spazi e situazioni di cui neanche immaginavo l’esistenza.
Ho sempre pianificato i miei viaggi a tavolino, davanti a mappe e guide, ma l’eccitazione di percorrere una strada mai vista prima spesso mi spinge a continue modifiche. Un viaggio da S. Francisco all’Alaska, andata e ritorno in un mese, è “una lunga cavalcata” che consiglierebbe una partenza a razzo sulla veloce Interstate N 5, ma la tentazione di risalire più lentamente lungo la costa Pacifica, che altrimenti mi perderei è forte. In meno di un secondo e dopo poco più di 30 miglia ecco la prima variante.
La Highway N. 1 è spettacolare. La strada tutta curve è perfetta per le moto, alterna zone boscose a scogliere di granito scuro consumate dalla forza del mare e la cornice di questo affresco dai toni sfumati è un bel nebbione da fare invidia alla pianura Padana. Di tanto in tanto alcuni giovani daini fanno capolino dalla macchia dominata da piante altissime e secolari. Il traffico è scarso, ma l’unico mezzo usato dagli americani sembra essere il Pick-up. Dietro c’è di tutto: tavole da surf, moto, quad, roulotte e l’immancabile cane. I limiti di velocità variano dalle 25 alle 55 miglia orarie e vengono rispettati da tutti e la doppia riga gialla al centro della carreggiata è insormontabile, e i “drivers” sono estremamente gentili: appena ti inquadrano negli specchietti retrovisori si spostano a destra agevolandoti il sorpasso.
Il clima è ingannevole. All’alba il cielo grigio e l’aria umida consiglierebbero di starsene a letto, ma, osservando meglio, noto che i locali indossano T-shirt, e decido di partire con un abbigliamento leggero: fatti pochi chilometri mi trasformo in un blocco di ghiaccio, e quindi mi copro come al polo Nord. Abbandono la costa e mi ritrovo sudato come in Marocco.
Dopo seicento miglia di passione lungo la costa, decido di puntare decisamente a Nord verso la Interstate N 5. Ad un semaforo c’è una lunga coda; mi porto a sinistra e supero tutti da buon italiano. Imboccata la strada dopo neppure un miglio, una lussuosa auto blu con la scritta: “Police Oregon State” mi blocca. Il poliziotto, un omone di due metri di altezza, mi rimprovera per la manovra scorretta: capisce che sono straniero e mi lascia andare. Ci lasciamo con una energica stretta di mano, un sorriso e la mia promessa di guidare con giudizio.
Imboccata la Interstate N 5, una moderna autostrada a tre corsie, tutto diventa più facile. In poche ore supero Portland e raggiungo Port Angels, dove mi imbarco per il Canada.
Victoria, la città principale dell’isola di Vancouver e capitale della British Columbia, è molto graziosa. L’isola, lunga più di quattrocento miglia, è un’immensa foresta percorsa da un’ottima strada che conduce fino a Port Hardy, un pittoresco villaggio immerso nel verde.
La Queen of the North, il traghetto per Prince Rupert, salpa all’alba. Nell’enorme stiva parcheggio vicino ad un gruppo di Harley Davidson. Gli addetti, molto gentili, mi consegnano alcune cime con dei grossi ganci in ferro e dei cunei di legno per bloccare la moto e se ne vanno, lasciando intendere: “la moto è tua, sistemala come vuoi e qualsiasi cosa succeda sono fatti tuoi”. L’Inside Passage è un lungo canale navigabile circondato da migliaia di isolotti. Non c’è un metro quadrato di terreno che non sia occupato da un abete o un larice. L’impatto visivo è incredibile: un muro verde che riflette nelle tranquille acque del mare.
Piove e fa freddo sulla strada che conduce da Prince Rupert verso l’Alaska Highway, 500 miglia attraverso la foresta, dove finalmente entro in contatto con due aspetti caratteristici di questa regione: il famoso “gravel”, cioè la ghiaia, presente a lunghi tratti, un buon terreno per sondare le caratteristiche “off road” del mio Ducati Multistrada e l’orso, un bell’orsacchiotto bruno di medie dimensioni che è sbucato all’improvviso con il suo nasone dal sottobosco e, incurante del sottoscritto, ha attraversato di gran carriera la carreggiata, scomparendo nella fitta vegetazione.
Incomincio ad abituarmi ai ritmi del viaggio. La mattina non litigo più con i bagagli come nei primi giorni e le dieci ore in moto al giorno non mi stancano più di tanto, poi ho abbracciato “la dieta” americana, che consiste in un’abbondante colazione a base di dolci, qualche frutto e l’immancabile caffè ad alta trasparenza e poco sapore; a metà mattina, uno spuntino di barrette energetiche, che non mancano mai nelle “gas stations” ( i benzinai); alle 15,00 un pasto a base di carne o di pesce e la sera … digiuno e a letto con le galline. In compenso dormo da re.
Descrivere il paesaggio del Nord America è molto semplice. Immaginate una distesa infinita di foreste, laghi, ruscelli e montagne con tutte le tonalità di verde, qualche macchia color terra, aggiungete lievi sfumature di giallo e un bel cielo grigio spruzzato di nuvole chiare, rarissime aperture azzurre ed il gioco è fatto.
Indubbiamente è un luogo di rara bellezza, ma dopo duemila chilometri, diventa monotono. E’ come chiudersi in camera da letto con Naomi Campbell: magnifico! Ma dopo un mese, è una noia mortale. Rimane una cosa da fare: guardare con attenzione i dettagli.
Chi osserva il nostro pianeta dallo spazio vede solo una sfera colorata, chi guarda dal finestrino di un aereo distingue unicamente terra e mare, da una moto in corsa posso vedere piante, ruscelli, laghi, montagne, ma osservando con più attenzione posso notare il bene più prezioso che la natura racchiude: la vita. Non c’è un angolo che non sia un’esplosione di vita, un equilibrio perfetto creato dalla natura, con i suoi ritmi, le sue regole: il salmone deve risalire la corrente per depositare le uova, il lupo vivere in branco, l’orso difendere il proprio territorio, l’alce e il caribù devono nutrirsi di erba. Ho chiesto ad un anziano motociclista se l’orso fosse pericoloso. La sua risposta, molto divertente: “don’t smooth the hair” Non lisciargli il pelo! Da sempre l’orso è visto come un simpaticone, una specie di quadrupede domestico da accarezzare e coccolare, invece è un animale selvatico; la sua reazione ad un inopportuno approccio potrebbe essere letale, ma lasciato nel suo brodo, non penso sia aggressivo. Potrebbe uccidermi solo se avesse fame, non certo per divertimento, ma sono sicuro che alle mie vecchie e stanche ossa preferisca i saporiti e freschi salmoni. L’unico animale che uccide per divertimento è l’uomo.
L’Alaska Highway è un manto di ruvido asfalto lungo 2400 chilometri assolutamente perfetto. Il limite massimo di velocità è fissato a 100 chilometri orari e assodato che la polizia è latitante, tutti procedono ad un’andatura più elevata. Finalmente posso inserire per la prima volta la sesta marcia e lanciare il mio Ducati Multistrada alla folle velocità di 80 miglia orarie, 128 chilometri l’ora! Ad un rifornimento, uno strano individuo mi avvicina e mi chiede: “Where are you going?” “To Alaska!” Rispondo io. “I’m a truck driver, are you going to Alaska, why on the motorbyke?” Bella domanda, penso io.
Come faccio a spiegartelo. Va bene, ci provo. La passione è fondamentale, la moto è libertà, sentire l’odore della strada, fotografare nuove immagini, emozioni e, soprattutto, in moto, non sei mai sicuro di arrivare in fondo, vivi il viaggio giorno per giorno, minuto per minuto, ben cosciente che una banale scivolata, un guasto meccanico, una frana, un maremoto ti possono bloccare. L’incertezza rende ogni istante unico ed irripetibile e per questo motivo da gustare a fondo, proprio come la vita. Una bella frase di una poesia di Edgar Lee Masters nell’Antologia di Spoon River dice: “potevo solo sorseggiare la coppa, non bere”. Bene, io non voglio solo sorseggiare la coppa, voglio bermi tutta la bottiglia, ubriacarmi di emozioni e non c’è niente di meglio al mondo che viaggiare in moto. “Hai capito amico mio?” “I don’t understand, but have a nice trip, bye bye.”
Le scritte lungo la strada mi ricordano i vecchi film sui cercatori d’oro: Dawson City, Klondike River, White Horse, Yukon, ormai l’Alaska non è lontana. In uno dei numerosi ristori “on the road” una cameriera mi racconta del tempo bizzarro di questa estate “wet and cloudy”, bagnata e nuvolosa, l’esatto contrario dell’estate scorsa “sun and fire”. La guardo sconsolato, fin’ora la pioggia non mi ha mai abbandonato. Mancano solo trenta miglia all’Alaska. In un tratto ghiaioso, complice la fitta pioggia, centro una buca profonda, un pezzo di ferro rimbalza sulla pedana della moto, che si spegne di colpo. Si è rotto l’interruttore applicato al cavalletto, per intenderci quell’utile oggetto che ci impedisce di partire con il cavalletto abbassato. Inutili i tentativi di far ripartire la moto. Nel frattempo, scoppia un violento temporale. Passa una ragazza, si ferma, l’automobile è piena di gatti, abbassa il finestrino di due centimetri e dice: “Can I help you?” Rispondo di avere un problema elettrico. E lei: “Don’t worry, I call the police department”, riparte e mi lascia in mezzo alla strada tutto bagnato. L’aggeggio maledetto non è altro che un interruttore annegato in un materiale plastico da cui escono tre fili. Non sono un tecnico, ma basterebbe fare un ponte. Al secondo tentativo la moto riparte. Percorsi pochi chilometri incrocio un carro attrezzi della polizia americana, scende un tipo alla Schwarzenegger e mi dice: “Have you got any problem?” Lo guardo sconvolto, in un ora è arrivato dall’Alaska che dista 30 miglia e rispondo: “No, it’s all right” E lui: “wonderful”. Arrivo alla dogana, un bellissimo sole mi dà il benvenuto.
Durante la sosta per la notte incontro una coppia di Texani, sono diretti ad Anchorage a far visita al figlio, un pilota militare spesso impegnato in azioni di guerra. Mi raccontano del Texas e della loro passione per i viaggi. La mia impressione è che gli Americani si spostino in continuazione, hanno mezzi, soldi, e una gran voglia di comunicare.
In questa stagione a queste latitudini la notte ha le ore contate: buio solo dopo le 23,30 e luce dalle 4,00. Tok, una minuscola cittadina, non ha molto da offrire a parte un’ottima cena a base di salmone e un caldo e comodo letto. Il tempo è inclemente. Questa mattina le nuvole sono talmente basse e dense che se l’orso “Zampa Lesta” strisciasse sulla pancia come un Mohicano potrebbe sfilarmi dal portapacchi tutti i bagagli che io neanche me ne accorgerei. Arrivo a Fairbanks, una moderna città di 80.000 abitanti, diventata famosa agli inizi del ‘900 con la scoperta di un ricco giacimento aurifero, ed in seguito usata come campo base per la costruzione dell’oleodotto Trans Alaska Pipeline. Ritornando verso Sud faccio una sosta al Denali National Park. La riserva naturale è visitabile solo con una navetta che segue l’unica strada lunga circa 90 miglia. All’interno si può dormire in uno dei numerosi campeggi e lungo i sentieri è possibile avvistare le varie specie animali che popolano il parco: marmotte, alci, caribù, orsi e scoiattoli, anche se la vera attrattiva è il Monte McKinley, che con i suoi 6700 metri è la vetta più alta del Nord America.
Forse incomincio a capire perché gli Americani abbiano il desiderio irrefrenabile di visitare l’Alaska. Venire quassù è come tornare indietro nel tempo. La natura selvaggia, gli spazi enormi esaltano il desiderio di avventura. Siamo nati per vivere in armonia con la natura. L’Alaska è come eravamo, e come vorremmo essere tutti noi amanti della libertà. L’uomo è nato libero. Abbiamo vissuto nelle caverne per secoli, poi l’evoluzione ci ha portati nelle città dove viviamo ormai rinchiusi nei nostri bunker tecnologici circondati di ogni confort, ma tutto ciò ci rende veramente felici?
Dobbiamo ritrovare il nostro equilibrio, fermarci se è necessario, poi ripartire, magari da un livello più basso, ma in armonia con quello che ci circonda. La posta in gioco è la nostra sopravvivenza. Il nostro pianeta ci urla di cambiare e anche noi, inconsciamente, abbiamo il desiderio di cambiare, ma non facciamo nulla completamente assorbiti dai problemi quotidiani. Un sorriso, un abbraccio o un “buongiorno” per augurare veramente una buona giornata ad un amico o ad un semplice sconosciuto potrebbero essere un buon inizio per una vita nuova. Forse sono solo piccole cose, anche uno spermatozoo è una piccola cosa, ma quando sulla sua strada incontra un ovulo e lo feconda nasce una vita. Una nuova vita che nasce da un gesto d’amore. Ci sono persone che hanno scelto di cambiare il proprio stile di vita trasferendosi in Alaska. E’ stato sicuramente un atto di coraggio, ma soprattutto un gesto d’amore verso questa terra, verso la natura. L’Alaska colpisce per la sua semplicità. Mi viene in mente il recente tour acustico di Bruce Springsteen a Milano. Il Boss quando sale sul palco è solo un uomo con la chitarra, ma gli bastano poche note per farti capire la sua purezza d’animo, il suo grande cuore, la sua bellezza interiore. L’Alaska è la stessa cosa, devi solo riuscire ad entrare in sintonia con lei e soprattutto devi saper ascoltare.
In una sosta per la notte, lungo la strada per Anchorage, in un Bed & Breakfast, una giovane ragazza incinta e con una splendida bimba in braccio mi dice: “Non ho camere libere, posso darti solo un posto sul treno”. Il “treno” è un vecchio vagone abbandonato nella foresta, l’interno è completamente ristrutturato con ogni confort e l’esterno è una vera carrozza in lamiera dipinta di un bel rosso acceso. E’ un po’ isolato e poggia su una specie di piedistallo; dal soggiorno si accede ad un terrazzino esterno costruito con alcune tavole di legno e in fondo ad uno stretto corridoio c’è uno splendido letto matrimoniale. E’ qui che aspetto l’ennesima notte che non arriva mai con i rumori del bosco che non vuole zittirsi. Poi con il buio scende un silenzio “assordante”. Un ultimo pensiero prima di addormentarmi: spero che non arrivi un orso innamorato che voglia incidere il nome dell’anima gemella sul serbatoio del mio Multistrada.
Una luce fortissima mi sveglia; finalmente splende il sole.
Quanto conta per un motociclista la situazione meteorologica? Non mi sono mai creato molti problemi per le avverse condizioni atmosferiche. Pioggia, freddo, nebbia, neve, vento, a chi non è mai capitato d’incontrarle? Se ti capita durante un viaggio, accetti tutto ciò che trovi, sopporti e ti adegui. Un altro paio di maniche è partire con tempo cattivo. Non ne ho conosciuti molti che amassero la moto così tanto da partire sotto la pioggia. Fabrizio, un mio amico, un grande motociclista, nelle domeniche senza speranza, per intenderci quelle dove piove a dirotto, mi telefonava e mi diceva: “che ne dici di provare l’attrezzatura antipioggia”? Si usciva da casa completamente bardati per un classico giro del lago, 200 km o più. Era una bella sensazione andare in giro, magari in pieno inverno e, quando ti fermavi per una sosta, la gente ti guardava sbalordita e ti faceva sentire così libero e soddisfatto. L’Alaska grigia ha lasciato il posto ad un tripudio di colori: i laghi si tingono di turchese, le montagne di verde smeraldo, il cielo di azzurro e l’aria si scalda come quando l’inverno cede al tepore primaverile.
Ad una sosta per il rifornimento incontro una banda di motociclisti. Provengono da Minneapolis e sono tutti a cavallo di Harley Davidson. Viaggiano in fila per due come le “giacche azzurre” del Generale Custer ed hanno delle facce pazzesche: barbe, orecchini, giubbotti di pelle con borchie, caschi cromati, camicie mimetiche e blue jeans infilati sotto a pantaloni di pelle nera da vecchi cowboys, per intenderci quelli che ti lasciano il posteriore scoperto. Uno che somiglia a Jimmy Hendrix, ma di carnagione chiara, mi confessa che la moto dei suoi sogni è la Ducati, ma per ovvie ragioni di “American style” ha scelto una H.D.
La penisola di Kenai, a Sud di Anchorage è straordinaria. Arrivi al mare dopo ore di dolci colline coperte di fitta vegetazione, e ti trovi in mezzo ad alte montagne con enormi ghiacciai che degradano direttamente sulla costa. In duecento miglia c’è di tutto: torrenti impetuosi, montagne innevate, laghi cristallini, boschi rigogliosi. Dopo 200 miglia di meraviglie si arriva ad Homer, un villaggio famoso per la pesca di Halibut, il prelibato pesce locale. Dall’altra parte della penisola c’è la cittadina di Seward, praticamente una moderna marina circondata da pittoresche case in legno. Dopo una sosta ad Anchorage per la sostituzione dei pneumatici, mi dirigo verso Valdez. La cittadina, se così si vuol chiamare, visto che sono quattro case, è resa famosa dal terminal d’imbarco del petrolio che arriva da Nord attraverso la pipeline. Non ha molto da offrire e non è affatto turistica. In compenso per arrivarci si valica un bellissimo passo che fiancheggia l’enorme Columbia Glacier .
Iniziano le lunghe tappe verso Sud, attraverso la foresta della British Colombia, dello Yukon e dell’Alberta. In un primo momento avevo deciso di tornare con il traghetto che parte da Skagway nel Sud dell’Alaska e porta direttamente a Bellingham, nello stato di Washington. Con tre giorni di nave avrei risparmiato più di tremila chilometri di strada, ma voglio che il distacco dall’Alaska sia dolce, quindi ho deciso di fare tappe da dieci, dodici ore di moto al giorno. Non mi alzo prestissimo, perché è inutile partire alle sei e soffrire il freddo dove c’è luce fino alle undici di sera. La strada è come un lungo tappeto grigio, dove la linea tratteggiata gialla sembra indicare la via da seguire. Tra un villaggio e un altro attraverso spazi sconfinati in cui do libero sfogo alla mia fantasia. Mi piace cantare, soprattutto brani di musica lirica. “Svanì per sempre il sogno mio d’amore, l’ora è fuggita e muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita” del brano “e lucevan le stelle” della Tosca è uno dei miei preferiti insieme a “Nessun dorma! Nessun dorma! Tu pure o Principessa nella tua fredda stanza guardi le stelle che tremano d’amore e di speranza” della Turandot. Le canto per ore fino allo sfinimento. Poi, è il teatro, la mia più grande passione dopo la moto, che mi tiene compagnia. Il mio personaggio preferito, forse perché mi riconosco in lui è: “Cyrano De Bergerac” e un bacio è “Un apostrofo roseo messo tra le parole t’amo”. Da sempre, nei miei viaggi, infilata nella borsa sul serbatoio, mi accompagna una copia, di uno dei più famosi monologhi mai scritti nella storia del teatro, una perla di saggezza di un uomo che amava la libertà:
“Orsù che dovrei fare?…
cercarmi un protettore, eleggermi un signore,
e come l’edera, che dell’olmo tutore
accarezza il gran tronco e ne lecca la scorza,
arrampicarmi, invece di salir con forza?
No, grazie! Dedicare com’usa tradizione,
dei versi ai ricconi? Far l’arte del buffone
pur di veder alfine le labbra di un potente
schiudersi a un sorriso benigno e promettente?
No, grazie! Saziarsi di rospi? Digerire
lo stomaco per forza dell’andare e venire?
Consumar le ginocchia? Misurar le altrui scale?
Far continui prodigi di agilità dorsale?
No, grazie! Accarezzare con mano abile e scaltra
la capra e intanto il cavolo anaffiare con l’altra?
E aver sempre il turibolo sotto de l’altrui mento
per la divina gioia del mutuo incensamento?
No, grazie! Progredire di girone in girone,
diventare un grand’uomo tra cinquanta persone,
e navigar con remi di madrigali, e avere
per buon vento i sospiri di vecchie fattucchiere?
No, grazie! Pubblicare presso un buon editore,
pagando, i propri versi! No, grazie dell’onore!
Brigar per farsi eleggere papa nei concistori
che per entro le bettole tengono i ciurmatori?
Sudar per farsi un nome su di un picciol sonetto
anzi che scriverne altri? Scoprire ingegno eletto
agl’incapaci, ai grulli; alle talpe dare ali,
lasciarsi sbigottire dal romor dei giornali?
E sospirar e pregare a mani tese:
Pur che il mio nome appaia su un giornale francese?
No, grazie! Calcolare, tremar tutta la vita,
far più tosto una visita che una strofa tornita,
scriver suppliche, farsi qua e là presentare?
Grazie, no! Grazie, no! Grazie, no! Ma… cantare,
sognar e ridere, libero, indipendente,
aver l’occhio sicuro e la voce possente,
mettersi quando piaccia il feltro di traverso,
per un sì, per un no battersi o fare un verso!
Lavorar, senza cura di gloria o di fortuna,
a qual sia più gradito viaggio nella luna!
Nulla che sia farina d’altri scivere, e poi
modestamente dirsi: ragazzo mio tu puoi
tenerti pago al frutto, pago al fiore, alla foglia
pur che nel tuo giardino, nel tuo, tu li raccoglia!
Poi, se venga il trionfo, per fortuna o per arte,
non dover darne a Cesare la più piccola parte,
aver tutta la palma della meta compita,
e, disdegnando d’essere l’edera parassita,
pur non la quercia essendo, o il gran tiglio fronzuto
salir anche non alto, ma salir senza aiuto!”La moto sembra volare seguendo un itinerario proprio, ed io, nello stesso tempo, sono attore e spettatore. Un attore in una “piece” dove il palcoscenico è la strada ed il pubblico migliaia, milioni di abeti, muti testimoni, che stanno lì immobili ed attenti, come se si aspettassero da un momento all’altro la battuta ad effetto. Ma, basta un leggero refolo di vento ed i ruoli si invertono. La foresta si anima, respira, esprime il suo fascino e manifesta tutte le sue forme di vita: lo scoiattolo si arrampica sui rami più alti, l’alce occhieggia dai cespugli, il caribù scatta nervoso e l’aquila dalla testa bianca volteggia libera nel cielo. Una grande rappresentazione! Io, l’unico privilegiato spettatore. Preso da un eccesso di svago, non mi accorgo nemmeno di avere quasi finito la benzina. Mancano solo dieci chilometri al distributore quando in mio Multistrada si spegne. Una Goldwing con la targa del Montana si ferma. Il biker, un tipo con barba e bandana è ben felice di darmi un passaggio. Saluto il cortese amico e riprendo il viaggio, devo stare più attento, c’è di mezzo la mia reputazione di motociclista, di viaggiatore, la moto e …”il pennacchio mio!”.
Ad una sosta per il pranzo incontro David, un motociclista dell’Ontario. E’ in sella ad una BMW 1150 GS stracarica di bagagli. Mi racconta di avere un buon lavoro che gli permette ben tre mesi di vacanza l’anno. In questo viaggio a cavallo di Stati Uniti e Canada è stato ovunque ed i numeri sono impressionanti: 40.000 chilometri percorsi!
L’Alaska Highway piega verso Est, i lunghi e noiosi rettilinei lasciano il posto a curve degne di essere percorse da un motociclista. Le forze dell’ordine sono altrove, ed io posso finalmente dare sfogo, ma senza esagerare, ai 6000 cavalli!!! del mio Multistrada. Attraverso varie volte il confine tra Yukon e British Columbia, un confine tracciato dall’uomo, dove la natura, che se ne frega dei confini, regna sovrana. Sfilano come in un film western alcuni villaggi, poche case, qualche stazione di servizio, campeggi e motel. Supero Watson Creek, Fort Nelson, Fort S. John, poi il paesaggio cambia, incontro le prime fattorie, animali al pascolo, cavalli, mucche e coltivazioni. La foresta, la mia inseparabile compagna di viaggio, non è scomparsa, si è solo fatta da parte. Arrivo a Dawson Creek, una cittadina anonima, famosa solo perché è il miglio zero dell’Alaska Highway. Superato il villaggio, la foresta riprende possesso della pianura circostante e ritornano i paesaggi del Grande Nord. Incontro alci, cervi ed un orso bruno con il suo piccolo seduto sul ciglio della strada. Mi spiace solo di aver spaventato mamma orsa con la mia rumorosa invadenza. In fondo ad un rettilineo, un grosso bisonte occupa uno stretto ponte con la sua mole e mi costringe a una sosta forzata. Proprio non ne vuole sapere di spostarsi, è lì con il suo testone a terra che fissa il selciato, poi molto lentamente se ne va. Piove da ore, sottile, quasi impalpabile, ma bagna inesorabilmente. Mi sembra di volare, anche se a bassa quota; il rumore del motore è un brusio impercettibile, coperto dallo sciacquio della gomma sull’acqua e dal rumore dell’aria. Mi capita spesso nei miei viaggi di prendere in considerazione il fatto di non tornare più a casa. Non parlo di una scelta di vita, ma di una causa di forza maggiore. Immagino un cataclisma che ci riporta tutti all’età della pietra: niente aerei, navi, auto, solo i piedi per camminare. In un posto come questo sarebbe difficile sopravvivere. Forse, se superassi il primo inverno, potrei avere qualche chance, potrei vivere di caccia, pesca. Una vita dura…
Prince Gorge è una vera città, 80.000 abitanti, un vero centro, peccato che all’ora di punta non ci sia nessuno. E’ una regola; i Canadesi stanno in casa. Anche al ristorante, un deserto. In compenso le carni alla griglia sono squisite.
Il parco Nazionale di Jasper è spettacolare: alte montagne rocciose bucano uno straordinario cielo blu cobalto con i loro ghiacciai, laghi color turchese che sembrano usciti da un dipinto di Van Gogh. La cittadina di Jasper è graziosa e molto frequentata dai turisti, di conseguenza abbastanza cara. Fortunatamente trovo alloggio in una casa di proprietà di una signora anziana molto cordiale. Esco dal parco dopo 200 chilometri di meraviglie, salutato da un orso bruno con due piccoli a pochi passi dalla strada per niente infastiditi da un nutrito gruppo di turisti armati di macchine fotografiche. Il paesaggio cambia; prima una pianura coltivata, poi una stretta valle, infine dolci colline coperte di sterpaglie e cavalli al pascolo. Vancouver dista poco più di cento chilometri. La strada “scende” fra cime coperte di neve. Poco prima del tramonto, cercando un posto dove passare la notte mi infilo in una strada secondaria seguendo un cartello che dice: “Paradise Valley”. Dopo trenta chilometri la strada finisce in un ranch. Chiedo informazioni, trovo un B & B gestito da una simpatica coppia di cinesi fuggiti da Hong Kong prima che passasse alla Repubblica Popolare Cinese, che mi dicono: “I,m solly no looms”. Ritorno indietro e finisco in un anonimo e caro hotel lungo la Highway.
Vancouver è una città pulita, con lunghi viali ed alti, moderni grattacieli in vetro. La vita si svolge praticamente intorno a Robson Street, dove ci sono numerosissimi negozi, ristoranti e bar. E’ un centro multirazziale: 35.000 cinesi formano la grossa comunità di Chinatown dove le indicazioni sono in cinese e cinese è la lingua parlata. Interessante il Museo di Arte Moderna, dove si possono ammirare le sculture di Rodin ed alcune straordinarie creazioni in cartapesta di Wang Du. Assolutamente da non perdere una passeggiata o un giro in bicicletta nell’immenso parco Stanley.
Dopo due settimane lascio il Canada e faccio una sosta a Seattle, sede della Microsoft e residenza di Bill Gates. La città è elegante, si respira un’aria serena, i centri commerciali sembrano salotti, i commessi sono gentili, ci sono aree dove ci si può sedere in completo relax, leggere, la gente conversa a bassa voce e c’è sempre una musica tranquilla e nei piani alti numerosi i piccoli ristoranti con cucine di tutto il mondo.
La Highway N. 5 mi riporta velocemente verso San Francisco, ho ancora qualche giorno da spendere ed al cartello: “Los Angeles 390 miles” non so resistere e punto decisamente a Sud. La temperatura si alza tantissimo, il termometro sfiora i 35 gradi. E’ sabato ed il traffico è intenso sui lunghi e noiosi rettilinei autostradali. E’ strano come il tempo che passa appiattisca tutto quello che mi sono lasciato dietro: l’Alaska sembra appartenere ad un altro viaggio tanto è lontana, ma è solo un impressione. I ricordi sono solo accantonati per dare spazio alle nuove immagini ma rimarranno fissati in modo indelebile nella mia mente. All’ultimo momento, a non più di 20 miglia, evito Los Angeles. Arrivare in una città così importante per rimanerci un solo giorno sarebbe come offenderla, perciò mi dirigo verso la costa: Santa Barbara è ad un’ora di strada. Un sole accecante e una fresca temperatura mi annunciano la costa e l’immenso oceano. L’oceano mi ha sempre affascinato per la sua grandezza e la sua forza. Mi piace immaginare che per milioni di anni il pianeta fosse un solo grande bacino d’acqua ricolmo di ogni forma di vita. Spazzato dai venti, sospinto dalle correnti, un bel giorno l’oceano sentendosi solo si fece da parte consentendo alla terra di emergere. Una terra su cui sfogare tutta la rabbia dei giorni di tempesta e da amare come una compagna, con dolci carezze nelle notti di brezza.
La strada alterna zone da pascolo a frutteti, boschi e scorrono veloci località famose come Morro Bay, Big Sur, Monterey, Santa Cruz, poi una lunga discesa mi porta verso San Francisco, ed il Golden Gate mi accoglie come un vecchio “cercatore” di ritorno dalla “Gold Rush”. Non ho trovato l’oro, ma un bene più prezioso: l’armonia con la natura. Vivere nel rispetto della natura, significa ritrovare il proprio equilibrio e tornare finalmente a sentirsi liberi. L’Alaska è uno scrigno prezioso che racchiude tutti questi tesori. Gli americani lo sanno e continueranno a visitarla.
“L’Ultima Frontiera” è lassù che aspetta quelli che hanno deciso di cambiare o semplicemente vogliono prendersi una pausa dalla vita di tutti i giorni.
L’Alaska aspetta tutti noi. Noi. “We, the people of the world…”
L’Alaska, “l’ultima frontiera”, è lassù a Nord Ovest che mi aspetta a 5000 chilometri di distanza. Un luogo di ghiacci, montagne, fiumi e parchi sconfinati che da sempre mi affascina. Attraverserò l’Oregon, lo stato di Washington, la British Columbia, lo Yukon e mi aspetto paesaggi straordinari, caribù, orsi, alci, foreste, laghi incantati. Un lungo percorso in cui dovrò confrontarmi per la prima volta con l’America.
Noi italiani abbiamo sempre avuto un complesso di inferiorità nei confronti degli Stati Uniti, ma nello stesso tempo l’America è sempre stata un sogno. L’America degli splendidi scenari cinematografici di John Ford, di Howard Howks, di John Wayne, che tanto aveva colpito la mia fantasia di adolescente, l’America in guerra con il Vietnam, dei Kennedy, di Martin Lhuter King, delle contraddizioni, la terra dell’abbondanza, fino al recente attacco terroristico alle Torri Gemelli ed alla guerra di G.W. Bush all’Afghanistan ed all’Iraq.
Non provo una grande simpatia per Bush e nemmeno ne condivido le scelte politiche, però mi piacerebbe incontrarlo, per fare due chiacchiere, magari in moto. La motocicletta talvolta crea delle amicizie impossibili, e chissà che tra una gomma racing, una taratura delle forcelle e un consiglio su un buon itinerario non riesca a fargli anche una bella domanda: “Ehi George, quando ti riporti a casa i tuoi ragazzi dall’Iraq?” Ma Bush la faccia da motociclista non ce l’ha. Bill Clinton invece sì, e me lo immagino sorridente e sornione a cavallo di una luccicante Harley-Davidson mentre si fuma un enorme e “odoroso” sigaro.
I presidenti sono sicuramente il punto di riferimento di un paese, ma quello che conta per una nazione è il popolo.
Arrivando in aereo dall’Europa, una lunga sosta di dodici ore all’aeroporto di Philadelphia mi ha dato la possibilità di visitare la prima città Americana, il luogo da cui è partito l’impulso che ha portato all’Indipendenza.
Mi ha particolarmente colpito la “premessa” della Costituzione Americana scritta a caratteri cubitali sul muro dell’Indipendence Center:“We, the people of the United States, in order to form a more perfect Union, establish justice, insure domestic tranquility, provide for the common defense, promote the general welfare, and secure the blessings of liberty to ourselves and our posterity, do ordain and establish this Constitution for the United States of America”
“Noi, il Popolo Americano con il fine di costituire una perfetta unione, far valere la giustizia, assicurare la tranquillità interna, provvedere alla difesa, promuovere il generale benessere ed assicurare la libertà a ciascuno di Noi e la nostra prosperità, ordiniamo e redigiamo questa costituzione degli Stati Uniti d’America”Poche parole, ma chiare e significative e poi quel: “assicurare la libertà ad ognuno di noi” mi fa venire la pelle d’oca. La libertà! Tutta l’umanità ruota intorno a questa parola. Per quelli fortunati, come me, nati in Italia durante il boom economico del dopoguerra, in piena democrazia, dire: “Libertà” quasi non ha senso. Abbiamo avuto tutto: benessere, opportunità, tecnologia e forse ci siamo dimenticati del valore della libertà.
Penso al mio ultimo viaggio in Myanmar: Aung San Suu Kyi, la leader birmana premio nobel per la pace, da dodici anni è agli arresti domiciliari. Che importanza avrà per Lei la “Libertà”? E quante altre persone vivono su questo pianeta private del bene più prezioso? Attenzione dunque quando pronunciamo questa parola, sentiamone il peso, assaporiamone il gusto, percepiamone la forza. Chi ha scritto la Costituzione, e prima ancora la Dichiarazione d’Indipendenza, indubbiamente amava la libertà ed ha lungamente combattuto per ottenerla anche a costo della vita. Il 4 luglio 1779 a Philadelphia, Thomas Jefferson chiedeva al congresso continentale che le “colonie” si proclamassero stati liberi ed indipendenti. John Hanckok, Benjamin Franklin, Josiah Bartlett, Ruggero Sherman sono solo i primi nomi del lungo elenco di uomini che firmarono in fondo alla famosa pergamena. Duecentoventinove anni fa avevano le idee chiare sul significato di Libertà. Questo paese appartiene al Suo popolo ed io voglio incontrare proprio loro: il Popolo degli Stati Uniti!
Sarà un lungo viaggio solitario. Solo per scelta. Non c’è dubbio che in compagnia mi sarei divertito di più, ma ci sono viaggi che vanno assolutamente affrontati da soli. E’ un desiderio che nasce dentro, dove il “perché” supera di gran lunga il “dove”, e poi, vorrei capire per quale motivo il popolo della nazione più potente del mondo sogna di visitare almeno una volta nella vita proprio l’Alaska.
Guidare da solo cambia le prospettive e le sensazioni.
Davanti: la strada! Dietro (una sbirciatina negli specchietti retrovisori): niente!
In mezzo: la moto, ed i miei pensieri. L’ignoto mi affascina, ed il fatto di essere in sella ad una rossa, luccicante, italianissima Ducati Multistrada 1000S DS, la moto che tutti gli americani sognano, mi fa sentire come un centurione romano prima della battaglia decisiva: magro e famelico… di emozioni.
Dire che sono in uno stato di grazia è riduttivo. Nella vita di tutti i giorni usiamo il nostro corpo al minimo delle proprie possibilità e il cervello è perennemente in confusione. Adesso, posso sentire il sangue scorrere nelle vene, l’aria entrare nei polmoni, il cuore battere e la mente, ordinati per importanza tutti “i file” e cestinati quelli che non servono, aprirsi alla purezza del pensiero “on the road”.
La strada mi ha insegnato molto: ho imparato ad assaporare la mia mutazione continua, aspettando che il mondo si rivelasse, chilometro dopo chilometro, senza avere la pretesa di capire tutto quello che mi circonda, ma osservando con attenzione, con interesse, con gli occhi di un bambino che ogni giorno vuole imparare una cosa nuova, senza avere paura. E la strada, oltre ad immagini straordinarie, mi ha regalato equilibrio e pace interiore. Ad ogni viaggio alcune “porte” si sono aperte rivelando spazi e situazioni di cui neanche immaginavo l’esistenza.
Ho sempre pianificato i miei viaggi a tavolino, davanti a mappe e guide, ma l’eccitazione di percorrere una strada mai vista prima spesso mi spinge a continue modifiche. Un viaggio da S. Francisco all’Alaska, andata e ritorno in un mese, è “una lunga cavalcata” che consiglierebbe una partenza a razzo sulla veloce Interstate N 5, ma la tentazione di risalire più lentamente lungo la costa Pacifica, che altrimenti mi perderei è forte. In meno di un secondo e dopo poco più di 30 miglia ecco la prima variante.
La Highway N. 1 è spettacolare. La strada tutta curve è perfetta per le moto, alterna zone boscose a scogliere di granito scuro consumate dalla forza del mare e la cornice di questo affresco dai toni sfumati è un bel nebbione da fare invidia alla pianura Padana. Di tanto in tanto alcuni giovani daini fanno capolino dalla macchia dominata da piante altissime e secolari. Il traffico è scarso, ma l’unico mezzo usato dagli americani sembra essere il Pick-up. Dietro c’è di tutto: tavole da surf, moto, quad, roulotte e l’immancabile cane. I limiti di velocità variano dalle 25 alle 55 miglia orarie e vengono rispettati da tutti e la doppia riga gialla al centro della carreggiata è insormontabile, e i “drivers” sono estremamente gentili: appena ti inquadrano negli specchietti retrovisori si spostano a destra agevolandoti il sorpasso.
Il clima è ingannevole. All’alba il cielo grigio e l’aria umida consiglierebbero di starsene a letto, ma, osservando meglio, noto che i locali indossano T-shirt, e decido di partire con un abbigliamento leggero: fatti pochi chilometri mi trasformo in un blocco di ghiaccio, e quindi mi copro come al polo Nord. Abbandono la costa e mi ritrovo sudato come in Marocco.
Dopo seicento miglia di passione lungo la costa, decido di puntare decisamente a Nord verso la Interstate N 5. Ad un semaforo c’è una lunga coda; mi porto a sinistra e supero tutti da buon italiano. Imboccata la strada dopo neppure un miglio, una lussuosa auto blu con la scritta: “Police Oregon State” mi blocca. Il poliziotto, un omone di due metri di altezza, mi rimprovera per la manovra scorretta: capisce che sono straniero e mi lascia andare. Ci lasciamo con una energica stretta di mano, un sorriso e la mia promessa di guidare con giudizio.
Imboccata la Interstate N 5, una moderna autostrada a tre corsie, tutto diventa più facile. In poche ore supero Portland e raggiungo Port Angels, dove mi imbarco per il Canada.
Victoria, la città principale dell’isola di Vancouver e capitale della British Columbia, è molto graziosa. L’isola, lunga più di quattrocento miglia, è un’immensa foresta percorsa da un’ottima strada che conduce fino a Port Hardy, un pittoresco villaggio immerso nel verde.
La Queen of the North, il traghetto per Prince Rupert, salpa all’alba. Nell’enorme stiva parcheggio vicino ad un gruppo di Harley Davidson. Gli addetti, molto gentili, mi consegnano alcune cime con dei grossi ganci in ferro e dei cunei di legno per bloccare la moto e se ne vanno, lasciando intendere: “la moto è tua, sistemala come vuoi e qualsiasi cosa succeda sono fatti tuoi”. L’Inside Passage è un lungo canale navigabile circondato da migliaia di isolotti. Non c’è un metro quadrato di terreno che non sia occupato da un abete o un larice. L’impatto visivo è incredibile: un muro verde che riflette nelle tranquille acque del mare.
Piove e fa freddo sulla strada che conduce da Prince Rupert verso l’Alaska Highway, 500 miglia attraverso la foresta, dove finalmente entro in contatto con due aspetti caratteristici di questa regione: il famoso “gravel”, cioè la ghiaia, presente a lunghi tratti, un buon terreno per sondare le caratteristiche “off road” del mio Ducati Multistrada e l’orso, un bell’orsacchiotto bruno di medie dimensioni che è sbucato all’improvviso con il suo nasone dal sottobosco e, incurante del sottoscritto, ha attraversato di gran carriera la carreggiata, scomparendo nella fitta vegetazione.
Incomincio ad abituarmi ai ritmi del viaggio. La mattina non litigo più con i bagagli come nei primi giorni e le dieci ore in moto al giorno non mi stancano più di tanto, poi ho abbracciato “la dieta” americana, che consiste in un’abbondante colazione a base di dolci, qualche frutto e l’immancabile caffè ad alta trasparenza e poco sapore; a metà mattina, uno spuntino di barrette energetiche, che non mancano mai nelle “gas stations” ( i benzinai); alle 15,00 un pasto a base di carne o di pesce e la sera … digiuno e a letto con le galline. In compenso dormo da re.
Descrivere il paesaggio del Nord America è molto semplice. Immaginate una distesa infinita di foreste, laghi, ruscelli e montagne con tutte le tonalità di verde, qualche macchia color terra, aggiungete lievi sfumature di giallo e un bel cielo grigio spruzzato di nuvole chiare, rarissime aperture azzurre ed il gioco è fatto.
Indubbiamente è un luogo di rara bellezza, ma dopo duemila chilometri, diventa monotono. E’ come chiudersi in camera da letto con Naomi Campbell: magnifico! Ma dopo un mese, è una noia mortale. Rimane una cosa da fare: guardare con attenzione i dettagli.
Chi osserva il nostro pianeta dallo spazio vede solo una sfera colorata, chi guarda dal finestrino di un aereo distingue unicamente terra e mare, da una moto in corsa posso vedere piante, ruscelli, laghi, montagne, ma osservando con più attenzione posso notare il bene più prezioso che la natura racchiude: la vita. Non c’è un angolo che non sia un’esplosione di vita, un equilibrio perfetto creato dalla natura, con i suoi ritmi, le sue regole: il salmone deve risalire la corrente per depositare le uova, il lupo vivere in branco, l’orso difendere il proprio territorio, l’alce e il caribù devono nutrirsi di erba. Ho chiesto ad un anziano motociclista se l’orso fosse pericoloso. La sua risposta, molto divertente: “don’t smooth the hair” Non lisciargli il pelo! Da sempre l’orso è visto come un simpaticone, una specie di quadrupede domestico da accarezzare e coccolare, invece è un animale selvatico; la sua reazione ad un inopportuno approccio potrebbe essere letale, ma lasciato nel suo brodo, non penso sia aggressivo. Potrebbe uccidermi solo se avesse fame, non certo per divertimento, ma sono sicuro che alle mie vecchie e stanche ossa preferisca i saporiti e freschi salmoni. L’unico animale che uccide per divertimento è l’uomo.
L’Alaska Highway è un manto di ruvido asfalto lungo 2400 chilometri assolutamente perfetto. Il limite massimo di velocità è fissato a 100 chilometri orari e assodato che la polizia è latitante, tutti procedono ad un’andatura più elevata. Finalmente posso inserire per la prima volta la sesta marcia e lanciare il mio Ducati Multistrada alla folle velocità di 80 miglia orarie, 128 chilometri l’ora! Ad un rifornimento, uno strano individuo mi avvicina e mi chiede: “Where are you going?” “To Alaska!” Rispondo io. “I’m a truck driver, are you going to Alaska, why on the motorbyke?” Bella domanda, penso io.
Come faccio a spiegartelo. Va bene, ci provo. La passione è fondamentale, la moto è libertà, sentire l’odore della strada, fotografare nuove immagini, emozioni e, soprattutto, in moto, non sei mai sicuro di arrivare in fondo, vivi il viaggio giorno per giorno, minuto per minuto, ben cosciente che una banale scivolata, un guasto meccanico, una frana, un maremoto ti possono bloccare. L’incertezza rende ogni istante unico ed irripetibile e per questo motivo da gustare a fondo, proprio come la vita. Una bella frase di una poesia di Edgar Lee Masters nell’Antologia di Spoon River dice: “potevo solo sorseggiare la coppa, non bere”. Bene, io non voglio solo sorseggiare la coppa, voglio bermi tutta la bottiglia, ubriacarmi di emozioni e non c’è niente di meglio al mondo che viaggiare in moto. “Hai capito amico mio?” “I don’t understand, but have a nice trip, bye bye.”
Le scritte lungo la strada mi ricordano i vecchi film sui cercatori d’oro: Dawson City, Klondike River, White Horse, Yukon, ormai l’Alaska non è lontana. In uno dei numerosi ristori “on the road” una cameriera mi racconta del tempo bizzarro di questa estate “wet and cloudy”, bagnata e nuvolosa, l’esatto contrario dell’estate scorsa “sun and fire”. La guardo sconsolato, fin’ora la pioggia non mi ha mai abbandonato. Mancano solo trenta miglia all’Alaska. In un tratto ghiaioso, complice la fitta pioggia, centro una buca profonda, un pezzo di ferro rimbalza sulla pedana della moto, che si spegne di colpo. Si è rotto l’interruttore applicato al cavalletto, per intenderci quell’utile oggetto che ci impedisce di partire con il cavalletto abbassato. Inutili i tentativi di far ripartire la moto. Nel frattempo, scoppia un violento temporale. Passa una ragazza, si ferma, l’automobile è piena di gatti, abbassa il finestrino di due centimetri e dice: “Can I help you?” Rispondo di avere un problema elettrico. E lei: “Don’t worry, I call the police department”, riparte e mi lascia in mezzo alla strada tutto bagnato. L’aggeggio maledetto non è altro che un interruttore annegato in un materiale plastico da cui escono tre fili. Non sono un tecnico, ma basterebbe fare un ponte. Al secondo tentativo la moto riparte. Percorsi pochi chilometri incrocio un carro attrezzi della polizia americana, scende un tipo alla Schwarzenegger e mi dice: “Have you got any problem?” Lo guardo sconvolto, in un ora è arrivato dall’Alaska che dista 30 miglia e rispondo: “No, it’s all right” E lui: “wonderful”. Arrivo alla dogana, un bellissimo sole mi dà il benvenuto.
Durante la sosta per la notte incontro una coppia di Texani, sono diretti ad Anchorage a far visita al figlio, un pilota militare spesso impegnato in azioni di guerra. Mi raccontano del Texas e della loro passione per i viaggi. La mia impressione è che gli Americani si spostino in continuazione, hanno mezzi, soldi, e una gran voglia di comunicare.
In questa stagione a queste latitudini la notte ha le ore contate: buio solo dopo le 23,30 e luce dalle 4,00. Tok, una minuscola cittadina, non ha molto da offrire a parte un’ottima cena a base di salmone e un caldo e comodo letto. Il tempo è inclemente. Questa mattina le nuvole sono talmente basse e dense che se l’orso “Zampa Lesta” strisciasse sulla pancia come un Mohicano potrebbe sfilarmi dal portapacchi tutti i bagagli che io neanche me ne accorgerei. Arrivo a Fairbanks, una moderna città di 80.000 abitanti, diventata famosa agli inizi del ‘900 con la scoperta di un ricco giacimento aurifero, ed in seguito usata come campo base per la costruzione dell’oleodotto Trans Alaska Pipeline. Ritornando verso Sud faccio una sosta al Denali National Park. La riserva naturale è visitabile solo con una navetta che segue l’unica strada lunga circa 90 miglia. All’interno si può dormire in uno dei numerosi campeggi e lungo i sentieri è possibile avvistare le varie specie animali che popolano il parco: marmotte, alci, caribù, orsi e scoiattoli, anche se la vera attrattiva è il Monte McKinley, che con i suoi 6700 metri è la vetta più alta del Nord America.
Forse incomincio a capire perché gli Americani abbiano il desiderio irrefrenabile di visitare l’Alaska. Venire quassù è come tornare indietro nel tempo. La natura selvaggia, gli spazi enormi esaltano il desiderio di avventura. Siamo nati per vivere in armonia con la natura. L’Alaska è come eravamo, e come vorremmo essere tutti noi amanti della libertà. L’uomo è nato libero. Abbiamo vissuto nelle caverne per secoli, poi l’evoluzione ci ha portati nelle città dove viviamo ormai rinchiusi nei nostri bunker tecnologici circondati di ogni confort, ma tutto ciò ci rende veramente felici?
Dobbiamo ritrovare il nostro equilibrio, fermarci se è necessario, poi ripartire, magari da un livello più basso, ma in armonia con quello che ci circonda. La posta in gioco è la nostra sopravvivenza. Il nostro pianeta ci urla di cambiare e anche noi, inconsciamente, abbiamo il desiderio di cambiare, ma non facciamo nulla completamente assorbiti dai problemi quotidiani. Un sorriso, un abbraccio o un “buongiorno” per augurare veramente una buona giornata ad un amico o ad un semplice sconosciuto potrebbero essere un buon inizio per una vita nuova. Forse sono solo piccole cose, anche uno spermatozoo è una piccola cosa, ma quando sulla sua strada incontra un ovulo e lo feconda nasce una vita. Una nuova vita che nasce da un gesto d’amore. Ci sono persone che hanno scelto di cambiare il proprio stile di vita trasferendosi in Alaska. E’ stato sicuramente un atto di coraggio, ma soprattutto un gesto d’amore verso questa terra, verso la natura. L’Alaska colpisce per la sua semplicità. Mi viene in mente il recente tour acustico di Bruce Springsteen a Milano. Il Boss quando sale sul palco è solo un uomo con la chitarra, ma gli bastano poche note per farti capire la sua purezza d’animo, il suo grande cuore, la sua bellezza interiore. L’Alaska è la stessa cosa, devi solo riuscire ad entrare in sintonia con lei e soprattutto devi saper ascoltare.
In una sosta per la notte, lungo la strada per Anchorage, in un Bed & Breakfast, una giovane ragazza incinta e con una splendida bimba in braccio mi dice: “Non ho camere libere, posso darti solo un posto sul treno”. Il “treno” è un vecchio vagone abbandonato nella foresta, l’interno è completamente ristrutturato con ogni confort e l’esterno è una vera carrozza in lamiera dipinta di un bel rosso acceso. E’ un po’ isolato e poggia su una specie di piedistallo; dal soggiorno si accede ad un terrazzino esterno costruito con alcune tavole di legno e in fondo ad uno stretto corridoio c’è uno splendido letto matrimoniale. E’ qui che aspetto l’ennesima notte che non arriva mai con i rumori del bosco che non vuole zittirsi. Poi con il buio scende un silenzio “assordante”. Un ultimo pensiero prima di addormentarmi: spero che non arrivi un orso innamorato che voglia incidere il nome dell’anima gemella sul serbatoio del mio Multistrada.
Una luce fortissima mi sveglia; finalmente splende il sole.
Quanto conta per un motociclista la situazione meteorologica? Non mi sono mai creato molti problemi per le avverse condizioni atmosferiche. Pioggia, freddo, nebbia, neve, vento, a chi non è mai capitato d’incontrarle? Se ti capita durante un viaggio, accetti tutto ciò che trovi, sopporti e ti adegui. Un altro paio di maniche è partire con tempo cattivo. Non ne ho conosciuti molti che amassero la moto così tanto da partire sotto la pioggia. Fabrizio, un mio amico, un grande motociclista, nelle domeniche senza speranza, per intenderci quelle dove piove a dirotto, mi telefonava e mi diceva: “che ne dici di provare l’attrezzatura antipioggia”? Si usciva da casa completamente bardati per un classico giro del lago, 200 km o più. Era una bella sensazione andare in giro, magari in pieno inverno e, quando ti fermavi per una sosta, la gente ti guardava sbalordita e ti faceva sentire così libero e soddisfatto. L’Alaska grigia ha lasciato il posto ad un tripudio di colori: i laghi si tingono di turchese, le montagne di verde smeraldo, il cielo di azzurro e l’aria si scalda come quando l’inverno cede al tepore primaverile.
Ad una sosta per il rifornimento incontro una banda di motociclisti. Provengono da Minneapolis e sono tutti a cavallo di Harley Davidson. Viaggiano in fila per due come le “giacche azzurre” del Generale Custer ed hanno delle facce pazzesche: barbe, orecchini, giubbotti di pelle con borchie, caschi cromati, camicie mimetiche e blue jeans infilati sotto a pantaloni di pelle nera da vecchi cowboys, per intenderci quelli che ti lasciano il posteriore scoperto. Uno che somiglia a Jimmy Hendrix, ma di carnagione chiara, mi confessa che la moto dei suoi sogni è la Ducati, ma per ovvie ragioni di “American style” ha scelto una H.D.
La penisola di Kenai, a Sud di Anchorage è straordinaria. Arrivi al mare dopo ore di dolci colline coperte di fitta vegetazione, e ti trovi in mezzo ad alte montagne con enormi ghiacciai che degradano direttamente sulla costa. In duecento miglia c’è di tutto: torrenti impetuosi, montagne innevate, laghi cristallini, boschi rigogliosi. Dopo 200 miglia di meraviglie si arriva ad Homer, un villaggio famoso per la pesca di Halibut, il prelibato pesce locale. Dall’altra parte della penisola c’è la cittadina di Seward, praticamente una moderna marina circondata da pittoresche case in legno. Dopo una sosta ad Anchorage per la sostituzione dei pneumatici, mi dirigo verso Valdez. La cittadina, se così si vuol chiamare, visto che sono quattro case, è resa famosa dal terminal d’imbarco del petrolio che arriva da Nord attraverso la pipeline. Non ha molto da offrire e non è affatto turistica. In compenso per arrivarci si valica un bellissimo passo che fiancheggia l’enorme Columbia Glacier .
Iniziano le lunghe tappe verso Sud, attraverso la foresta della British Colombia, dello Yukon e dell’Alberta. In un primo momento avevo deciso di tornare con il traghetto che parte da Skagway nel Sud dell’Alaska e porta direttamente a Bellingham, nello stato di Washington. Con tre giorni di nave avrei risparmiato più di tremila chilometri di strada, ma voglio che il distacco dall’Alaska sia dolce, quindi ho deciso di fare tappe da dieci, dodici ore di moto al giorno. Non mi alzo prestissimo, perché è inutile partire alle sei e soffrire il freddo dove c’è luce fino alle undici di sera. La strada è come un lungo tappeto grigio, dove la linea tratteggiata gialla sembra indicare la via da seguire. Tra un villaggio e un altro attraverso spazi sconfinati in cui do libero sfogo alla mia fantasia. Mi piace cantare, soprattutto brani di musica lirica. “Svanì per sempre il sogno mio d’amore, l’ora è fuggita e muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita” del brano “e lucevan le stelle” della Tosca è uno dei miei preferiti insieme a “Nessun dorma! Nessun dorma! Tu pure o Principessa nella tua fredda stanza guardi le stelle che tremano d’amore e di speranza” della Turandot. Le canto per ore fino allo sfinimento. Poi, è il teatro, la mia più grande passione dopo la moto, che mi tiene compagnia. Il mio personaggio preferito, forse perché mi riconosco in lui è: “Cyrano De Bergerac” e un bacio è “Un apostrofo roseo messo tra le parole t’amo”. Da sempre, nei miei viaggi, infilata nella borsa sul serbatoio, mi accompagna una copia, di uno dei più famosi monologhi mai scritti nella storia del teatro, una perla di saggezza di un uomo che amava la libertà:
“Orsù che dovrei fare?…
cercarmi un protettore, eleggermi un signore,
e come l’edera, che dell’olmo tutore
accarezza il gran tronco e ne lecca la scorza,
arrampicarmi, invece di salir con forza?
No, grazie! Dedicare com’usa tradizione,
dei versi ai ricconi? Far l’arte del buffone
pur di veder alfine le labbra di un potente
schiudersi a un sorriso benigno e promettente?
No, grazie! Saziarsi di rospi? Digerire
lo stomaco per forza dell’andare e venire?
Consumar le ginocchia? Misurar le altrui scale?
Far continui prodigi di agilità dorsale?
No, grazie! Accarezzare con mano abile e scaltra
la capra e intanto il cavolo anaffiare con l’altra?
E aver sempre il turibolo sotto de l’altrui mento
per la divina gioia del mutuo incensamento?
No, grazie! Progredire di girone in girone,
diventare un grand’uomo tra cinquanta persone,
e navigar con remi di madrigali, e avere
per buon vento i sospiri di vecchie fattucchiere?
No, grazie! Pubblicare presso un buon editore,
pagando, i propri versi! No, grazie dell’onore!
Brigar per farsi eleggere papa nei concistori
che per entro le bettole tengono i ciurmatori?
Sudar per farsi un nome su di un picciol sonetto
anzi che scriverne altri? Scoprire ingegno eletto
agl’incapaci, ai grulli; alle talpe dare ali,
lasciarsi sbigottire dal romor dei giornali?
E sospirar e pregare a mani tese:
Pur che il mio nome appaia su un giornale francese?
No, grazie! Calcolare, tremar tutta la vita,
far più tosto una visita che una strofa tornita,
scriver suppliche, farsi qua e là presentare?
Grazie, no! Grazie, no! Grazie, no! Ma… cantare,
sognar e ridere, libero, indipendente,
aver l’occhio sicuro e la voce possente,
mettersi quando piaccia il feltro di traverso,
per un sì, per un no battersi o fare un verso!
Lavorar, senza cura di gloria o di fortuna,
a qual sia più gradito viaggio nella luna!
Nulla che sia farina d’altri scivere, e poi
modestamente dirsi: ragazzo mio tu puoi
tenerti pago al frutto, pago al fiore, alla foglia
pur che nel tuo giardino, nel tuo, tu li raccoglia!
Poi, se venga il trionfo, per fortuna o per arte,
non dover darne a Cesare la più piccola parte,
aver tutta la palma della meta compita,
e, disdegnando d’essere l’edera parassita,
pur non la quercia essendo, o il gran tiglio fronzuto
salir anche non alto, ma salir senza aiuto!”La moto sembra volare seguendo un itinerario proprio, ed io, nello stesso tempo, sono attore e spettatore. Un attore in una “piece” dove il palcoscenico è la strada ed il pubblico migliaia, milioni di abeti, muti testimoni, che stanno lì immobili ed attenti, come se si aspettassero da un momento all’altro la battuta ad effetto. Ma, basta un leggero refolo di vento ed i ruoli si invertono. La foresta si anima, respira, esprime il suo fascino e manifesta tutte le sue forme di vita: lo scoiattolo si arrampica sui rami più alti, l’alce occhieggia dai cespugli, il caribù scatta nervoso e l’aquila dalla testa bianca volteggia libera nel cielo. Una grande rappresentazione! Io, l’unico privilegiato spettatore. Preso da un eccesso di svago, non mi accorgo nemmeno di avere quasi finito la benzina. Mancano solo dieci chilometri al distributore quando in mio Multistrada si spegne. Una Goldwing con la targa del Montana si ferma. Il biker, un tipo con barba e bandana è ben felice di darmi un passaggio. Saluto il cortese amico e riprendo il viaggio, devo stare più attento, c’è di mezzo la mia reputazione di motociclista, di viaggiatore, la moto e …”il pennacchio mio!”.
Ad una sosta per il pranzo incontro David, un motociclista dell’Ontario. E’ in sella ad una BMW 1150 GS stracarica di bagagli. Mi racconta di avere un buon lavoro che gli permette ben tre mesi di vacanza l’anno. In questo viaggio a cavallo di Stati Uniti e Canada è stato ovunque ed i numeri sono impressionanti: 40.000 chilometri percorsi!
L’Alaska Highway piega verso Est, i lunghi e noiosi rettilinei lasciano il posto a curve degne di essere percorse da un motociclista. Le forze dell’ordine sono altrove, ed io posso finalmente dare sfogo, ma senza esagerare, ai 6000 cavalli!!! del mio Multistrada. Attraverso varie volte il confine tra Yukon e British Columbia, un confine tracciato dall’uomo, dove la natura, che se ne frega dei confini, regna sovrana. Sfilano come in un film western alcuni villaggi, poche case, qualche stazione di servizio, campeggi e motel. Supero Watson Creek, Fort Nelson, Fort S. John, poi il paesaggio cambia, incontro le prime fattorie, animali al pascolo, cavalli, mucche e coltivazioni. La foresta, la mia inseparabile compagna di viaggio, non è scomparsa, si è solo fatta da parte. Arrivo a Dawson Creek, una cittadina anonima, famosa solo perché è il miglio zero dell’Alaska Highway. Superato il villaggio, la foresta riprende possesso della pianura circostante e ritornano i paesaggi del Grande Nord. Incontro alci, cervi ed un orso bruno con il suo piccolo seduto sul ciglio della strada. Mi spiace solo di aver spaventato mamma orsa con la mia rumorosa invadenza. In fondo ad un rettilineo, un grosso bisonte occupa uno stretto ponte con la sua mole e mi costringe a una sosta forzata. Proprio non ne vuole sapere di spostarsi, è lì con il suo testone a terra che fissa il selciato, poi molto lentamente se ne va. Piove da ore, sottile, quasi impalpabile, ma bagna inesorabilmente. Mi sembra di volare, anche se a bassa quota; il rumore del motore è un brusio impercettibile, coperto dallo sciacquio della gomma sull’acqua e dal rumore dell’aria. Mi capita spesso nei miei viaggi di prendere in considerazione il fatto di non tornare più a casa. Non parlo di una scelta di vita, ma di una causa di forza maggiore. Immagino un cataclisma che ci riporta tutti all’età della pietra: niente aerei, navi, auto, solo i piedi per camminare. In un posto come questo sarebbe difficile sopravvivere. Forse, se superassi il primo inverno, potrei avere qualche chance, potrei vivere di caccia, pesca. Una vita dura…
Prince Gorge è una vera città, 80.000 abitanti, un vero centro, peccato che all’ora di punta non ci sia nessuno. E’ una regola; i Canadesi stanno in casa. Anche al ristorante, un deserto. In compenso le carni alla griglia sono squisite.
Il parco Nazionale di Jasper è spettacolare: alte montagne rocciose bucano uno straordinario cielo blu cobalto con i loro ghiacciai, laghi color turchese che sembrano usciti da un dipinto di Van Gogh. La cittadina di Jasper è graziosa e molto frequentata dai turisti, di conseguenza abbastanza cara. Fortunatamente trovo alloggio in una casa di proprietà di una signora anziana molto cordiale. Esco dal parco dopo 200 chilometri di meraviglie, salutato da un orso bruno con due piccoli a pochi passi dalla strada per niente infastiditi da un nutrito gruppo di turisti armati di macchine fotografiche. Il paesaggio cambia; prima una pianura coltivata, poi una stretta valle, infine dolci colline coperte di sterpaglie e cavalli al pascolo. Vancouver dista poco più di cento chilometri. La strada “scende” fra cime coperte di neve. Poco prima del tramonto, cercando un posto dove passare la notte mi infilo in una strada secondaria seguendo un cartello che dice: “Paradise Valley”. Dopo trenta chilometri la strada finisce in un ranch. Chiedo informazioni, trovo un B & B gestito da una simpatica coppia di cinesi fuggiti da Hong Kong prima che passasse alla Repubblica Popolare Cinese, che mi dicono: “I,m solly no looms”. Ritorno indietro e finisco in un anonimo e caro hotel lungo la Highway.
Vancouver è una città pulita, con lunghi viali ed alti, moderni grattacieli in vetro. La vita si svolge praticamente intorno a Robson Street, dove ci sono numerosissimi negozi, ristoranti e bar. E’ un centro multirazziale: 35.000 cinesi formano la grossa comunità di Chinatown dove le indicazioni sono in cinese e cinese è la lingua parlata. Interessante il Museo di Arte Moderna, dove si possono ammirare le sculture di Rodin ed alcune straordinarie creazioni in cartapesta di Wang Du. Assolutamente da non perdere una passeggiata o un giro in bicicletta nell’immenso parco Stanley.
Dopo due settimane lascio il Canada e faccio una sosta a Seattle, sede della Microsoft e residenza di Bill Gates. La città è elegante, si respira un’aria serena, i centri commerciali sembrano salotti, i commessi sono gentili, ci sono aree dove ci si può sedere in completo relax, leggere, la gente conversa a bassa voce e c’è sempre una musica tranquilla e nei piani alti numerosi i piccoli ristoranti con cucine di tutto il mondo.
La Highway N. 5 mi riporta velocemente verso San Francisco, ho ancora qualche giorno da spendere ed al cartello: “Los Angeles 390 miles” non so resistere e punto decisamente a Sud. La temperatura si alza tantissimo, il termometro sfiora i 35 gradi. E’ sabato ed il traffico è intenso sui lunghi e noiosi rettilinei autostradali. E’ strano come il tempo che passa appiattisca tutto quello che mi sono lasciato dietro: l’Alaska sembra appartenere ad un altro viaggio tanto è lontana, ma è solo un impressione. I ricordi sono solo accantonati per dare spazio alle nuove immagini ma rimarranno fissati in modo indelebile nella mia mente. All’ultimo momento, a non più di 20 miglia, evito Los Angeles. Arrivare in una città così importante per rimanerci un solo giorno sarebbe come offenderla, perciò mi dirigo verso la costa: Santa Barbara è ad un’ora di strada. Un sole accecante e una fresca temperatura mi annunciano la costa e l’immenso oceano. L’oceano mi ha sempre affascinato per la sua grandezza e la sua forza. Mi piace immaginare che per milioni di anni il pianeta fosse un solo grande bacino d’acqua ricolmo di ogni forma di vita. Spazzato dai venti, sospinto dalle correnti, un bel giorno l’oceano sentendosi solo si fece da parte consentendo alla terra di emergere. Una terra su cui sfogare tutta la rabbia dei giorni di tempesta e da amare come una compagna, con dolci carezze nelle notti di brezza.
La strada alterna zone da pascolo a frutteti, boschi e scorrono veloci località famose come Morro Bay, Big Sur, Monterey, Santa Cruz, poi una lunga discesa mi porta verso San Francisco, ed il Golden Gate mi accoglie come un vecchio “cercatore” di ritorno dalla “Gold Rush”. Non ho trovato l’oro, ma un bene più prezioso: l’armonia con la natura. Vivere nel rispetto della natura, significa ritrovare il proprio equilibrio e tornare finalmente a sentirsi liberi. L’Alaska è uno scrigno prezioso che racchiude tutti questi tesori. Gli americani lo sanno e continueranno a visitarla.
“L’Ultima Frontiera” è lassù che aspetta quelli che hanno deciso di cambiare o semplicemente vogliono prendersi una pausa dalla vita di tutti i giorni.
L’Alaska aspetta tutti noi. Noi. “We, the people of the world…”