Dal mio libro: Le Moto Raccontano
Tunisia, dicembre 1999
I tasselli si sciolgono come neve al sole e scagliano piccole pietre come fossero proiettili sparati a raffica da un kalashnikov contro il paramotore in alluminio che incassa senza fiatare. Fa caldo, caldissimo lungo la pista che da Douz porta a Hsar Ghilane. Di tanto in tanto lingue di sabbia finissima attraversano la pista, solo poche centinaia di metri, ma che mettono a dura prova le sospensioni e il motore che sembra annegare sotto lo sforzo. Piccoli sbuffi di vapore fuoriescono dallo sfiato del radiatore ed annunciano le folli temperature dei carter motore. Il deserto si manifesta in tutto il suo splendore, ma nello stesso tempo incute rispetto, timore. Passano i chilometri e passa gradualmente la paura di rotture meccaniche, solo puro divertimento e qualche sbandata lungo le tracce lasciate sulla sabbia da qualche mezzo pesante.
Ci incontrammo per la prima volta proprio lungo quella pista. E’ laggiù che nacque un rapporto che sarebbe durato anni, la nostra storia, una fusione tra due entità, un grande amore.
Lui, un omone di due metri e più, io una KTM LC4 Adventure.
Fu un amore a prima vista, anche se in quella occasione Lui perse la testa per un’altra della mia specie. Un identico modello fabbricato dalla stessa linea produttiva a Mattighofen in Austria, le stesse colorazioni, identiche caratteristiche meccaniche, una mia copia, anche se con un numero di telaio e di motore diversi, insomma tutto quello che risponde al nome di “Modello 1999”.
A quei tempi il “Mio Cavaliere” arrancava lungo la pista con una BMW R 1100 GS, una moto straordinaria, un mezzo con cui aveva girato mezzo mondo. E’ stata proprio Lei, mia fedele compagna di garage a raccontarmi l’evento. Procedevano ad andatura lenta: moto pesante, bagagli voluminosi, serbatoi maggiorati e gomme stradali, quando una freccia blu arancio li aveva superati in velocità e destrezza. Neanche il tempo di capire che modello fosse, solo le tracce dei tasselli nella sabbia e tanta polvere. Il caso volle che alla fine della pista in un luogo di ristoro, il “Café du Desert”, il “Mio Cavaliere” fece la conoscenza con la mia gemella e rimase colpito da tanta leggerezza e grazia. Rivolse una sola domanda al ragazzotto milanese coperto di polvere e sudore che, oltre ai bagagli, sul sellino posteriore aveva anche la fidanzata: “Come va nel fuoristrada?” La risposta serafica: “Uno sballo!!!” Tornò a casa e si dette da fare nei concessionari finché non incontrò me.
Non ero un nuovo modello. Uscita dalla fabbrica mi avevano usata come moto da prova. Un sacco di gente era passata sul mio sellino: giornalisti, meccanici, gente comune che voleva testarmi, smanettoni senza riguardo e senza interesse se non divertirsi alle mie spalle e basta.
Finii in un concessionario e percorsi più di tremila chilometri con il proprietario del negozio, un endurista esperto che mi fece fare un ottimo rodaggio. Avevo un grosso vantaggio: non ero mai stata immatricolata, nonostante i chilometri percorsi, perché usata con targa prova e costavo meno del modello nuovo. Quando il “Mio Cavaliere” saggiò le mie performance erano mesi che poltrivo in una vetrina. Non avrei mai immaginato di essere acquistata in così breve tempo. La prova durò pochi minuti, oltretutto avevo anche la gomma anteriore sgonfia che non mi consentiva una guida fluida. Poche parole, nessuna discussione sul prezzo, ma una frase che mi aveva fatto “battere in testa”: “Mi serve una moto leggera per un viaggio in Pakistan” e il tono non era certo di uno che voleva fare una sparata ad effetto. Nei giorni seguenti ebbi la conferma dalla mia compagna BMW: il “Nostro Cavaliere” era un motociclista con la passione per i viaggi, in moto naturalmente. “Sei fortunata” mi disse e sei la prima moto non BMW in vent’anni di attività motociclistica.
I preparativi per il viaggio in Pakistan mi diedero la possibilità di conoscere meglio il “Mio Cavaliere”. Spesso mi parlava. Non capita tutti i giorni di essere trattati come una cosa viva. La sottile differenza che separa il mondo degli umani dal mondo delle macchine si può riassumere in poche parole: quando un umano parla con te significa che ti reputa un mezzo con un’anima. E’ vero le moto sono macchine, ma il motore è molto simile ad un cuore che spinge il sangue, cioè l’olio, in ogni condotto, le nostre braccia sono il manubrio, le gambe le ruote, gli occhi i fanali, la centralina elettronica il nostro cervello, respiriamo a pieni polmoni attraverso il filtro dell’aria che deve essere sempre pulito e efficiente altrimenti ci viene l’asma, infine ogni nutrimento ci viene dal carburante, se è di buona qualità non abbiamo problemi e possiamo vivere molto a lungo.
Ci attendeva un viaggio impegnativo: un tour completo del Pakistan e un ritorno a casa via terra. Approssimativamente tredicimila chilometri, tutti in perfetta solitudine. “Tawil” non era privo di esperienza. Aveva viaggiato moltissimo nei paesi islamici: Marocco, Libia, Tunisia, Egitto, Turchia, Iran, tanto da essere soprannominato dai locali proprio “Tawil” cioè “Alto”. Avevo subito ben poche modifiche, solo un paio di robuste borse d’alluminio laterali erano l’unico pesante fardello che dovevo portare oltre ai bagagli. Bagagli ridotti al minimo indispensabile. Rinunciare ad una T-shirt ed avere una camera d’aria di scorta in più, questo era il nostro motto. Ero stata imballata in una comoda cassa di legno, coccolata, imbragata con cura quasi maniacale. Alcune robuste cinghie fissate alle pareti mi impedivano qualsiasi movimento, mi sentivo al sicuro e soprattutto amata. Tawil personalmente mi caricò su un camion e mi consegnò allo spedizioniere, poi una lunga traversata su una nave da carico fino a Karachi.