Marocco

Dal mio libro: Le Moto Raccontano

Marocco, agosto 1996

Siamo lanciati sull’autostrada Milano Genova a centoquaranta chilometri orari quando il mio propulsore quattro cilindri in linea detto “sogliola” perde potenza e passa da una combustione da quattro cilindri ad una a tre. Chi mi guida è un motociclista esperto dalla ragguardevole altezza di due metri e un centimetro che ho deciso di chiamare “Lungagnone”. Il Lungagnone, che indossa una tuta intera rosso vermiglio appena comprata nel concessionario BMW, bianco in viso come un cencio accosta a destra e si ferma sulla corsia d’emergenza. La manutenzione è stata fatta da un meccanico vecchio stampo: meticoloso, serio, capace ed onesto. Tawil riaccende il motore, ma non c’è niente da fare, il problema esiste. C’è da capirlo il Lungagnone, ha fatto tutto a puntino ed ora percorsi cento chilometri sì e no siamo già in panne. Il problema sta tutto nel cavo che porta corrente alla candela che si è semplicemente staccato. Basterebbe aprire il coperchio di plastica che copre i cavi per riattaccarlo e ripartire, ma come ben sapete io, una BMW K100 RS, ancora non ho il dono della parola. Usciamo dall’autostrada. A dieci chilometri c’è un grosso concessionario della Honda. “Potrebbe dare un’occhiata alla mia moto per favore” dice il Lungagnone al meccanico. “Quando le serve? Devo preparare queste due file di moto per stasera. E’ tutta gente che domani viene a ritirare la moto e parte per le vacanze” risponde il meccanico. “Veramente, io sto andando in Marocco. Adesso”. Replica il Lungagnone. “Va bene, se ha un attimo di pazienza gli darò una rapida occhiata appena avrò finito di montare il serbatoio di questa moto”. Il giovane meccanico trova il guasto in tre secondi netti e nemmeno chiede soldi per il disturbo. Riprendiamo l’autostrada. Il contachilometri segna la velocità di centoquaranta da ore. Il Lungagnone non da segni di stanchezza. Arriviamo a Tarragona esattamente per l’ora di cena. Millecento chilometri bruciati in questa prima tappa. Se il buongiorno si vede dal mattino, oggi non è un buon giorno. Il Lungagnone è arrivato presto ed è sbiancato un’altra volta quando ha visto la pozzanghera di olio sotto il mio carter motore. Il problema non esiste. E’ solo una guarnizione cotta che perde. Stiamo parlando di poche gocce. La colpa è del marciapiede dell’albergo su cui sono parcheggiata che è liscio come una lapide di marmo di una tomba. Non assorbe per niente e dà l’impressione al motociclista poco esperto che la perdita sia enorme. Solo quando il Lungagnone controlla l’olio comprende che la mancanza del prezioso liquido non è nemmeno misurabile. Nel mese di agosto l’autostrada spagnola è un vero delirio. Fa un caldo da morire e il traffico fino a Valencia è un vero e proprio incubo di mezzi pesanti e auto di vacanzieri diretti chissà dove. Superata la città delle arance per fortuna il traffico cala, mentre il caldo aumenta portando la temperatura dell’olio motore al massimo. L’unico che sembra non accorgersi di niente è il Lungagnone che continua ad indossare la pesante tuta rossa come se andasse a sciare a Livigno. Da qualche ora ha un nuovo pensiero che lo assilla. Si è accorto che la pompa elettrica della benzina, immersa nel carburante del serbatoio, geme come un’aragosta gettata in una pentola di acqua bollente. Algesiras ci accoglie alle nove di sera. Il Lungagnone ha giocato il jolly e ha raddoppiato i chilometri di ieri. In due giorni abbiamo percorso duemiladuecento chilometri. Saliamo sul traghetto delle otto che in poco più di un’ora ci sbarca in terra africana. Ceuta insieme a Melilla è un’enclave spagnola. Fa una certa impressione vedere gente che parla spagnolo e arabo e professa la religione islamamica in un territorio sotto il controllo spagnolo. Ho la netta sensazione che queste due città abbiano i giorni contati. Le pratiche per entrare in Marocco sono lunghe e divertenti. Il Lungagnone ha subito compreso che il giovanotto con le babbucce bianche ai piedi non è un malintenzionato, ma uno che vuole guadagnare qualche soldo aiutando gli stranieri a superare la burocrazia degli uffici doganali del Magreb. Lasciata alle spalle la dogana, per parecchi chilometri incontriamo solo gente accampata in tende di fortuna che aspetta il momento propizio per attraversare lo stretto di Gibilterra ed entrare clandestinamente in Spagna. A Tetouan si respira ancora aria andalusa. Inizia anche l’assalto dei procacciatori che ci affiancano in motorino e vogliono farci visitare la medina o accompagnarci in qualche negozio. Il Lungagnone punta senza esitazione verso le montagne del Rif. La strada sale curva dopo curva fino a Chefchaouen che significa “guarda le vette” dove la temperatura è fresca, la gente rilassata e le case dipinte di bianco e blu. Superata la città si scende verso Ouezzane, poi il bivio per Fes. Le temperature marocchine pomeridiane sfiorano i quarantacinque gradi e sul lungo tratto di strada che attraversa campi coltivati a perdita d’occhio, finalmente il Lungagnone si toglie la tuta da sci rossa. Fes è la più antica delle capitali imperiali del Marocco. La sua medina è una delle più grandi città medioevali del mondo arabo. I suoi vicoli stretti e tortuosi e i suoi bazar coperti traboccano di ogni genere di negozi d’artigianato, ristoranti, moschee, mercati della frutta, concerie della pelle e asini carichi di merci che ti sbarrano il passo. E’ facile perdersi nella città vecchia perché le strade sembrano tutte uguali, si avanza a fatica tra la folla, cercando di orientarsi più con il naso che con gli occhi soprattutto nei passaggi coperti, dove si cammina a tentoni. Per fortuna appena entrati in città un simpatico giovanotto in bicicletta si presta per darci una mano a trovare un alloggio in un albergo appena fuori le mura della medina di Fes El Bali. Tre giorni di cavalletto sul marciapiede davanti all’hotel mi hanno arrugginito gli ingranaggi del cambio. E’ stata un’esperienza pesante starsene lì tutta la notte in balia dei cani randagi che venivano a fare pipì sui miei cerchi in lega e le decine di passanti che, con la compiacenza di un guardiano buontempone, hanno voluto provare l’ebbrezza di sedersi sopra di me e di imbracciare il manubrio per qualche secondo come se volessero andare da qualche parte. Di giorno, invece, il simpaticone che ci aveva aiutati per l’alloggio, indossati gli abiti di guida turistica, saliva sul sellino dietro al Lungagnone e ci accompagnava nella città vecchia dove rimanevo parcheggiata sotto una pianta di limoni per ore in balia degli uccelli che scaricavano le loro “bombe” sulla mia carrozzeria luccicante. Oggi ci spostiamo, per ordine di grandezza, dopo Fes e Marrakesh, nella terza città imperiale del Marocco. Meknes è considerata la Versailles del Marocco, ma la prima impressione che ci arriva è che sia un po’ finta. Troppo gremita di turisti urlanti, ci siamo limitati alla visita della città imperiale voluta da Moulay Ismail oltrepassando la fantastica ed imponente porta di Bab El Mansour. Lasciamo le pianure per dirigerci verso la catena montuosa del Medio Atlante. Seguiamo le indicazione per El Hajeb, poi lungo una strada secondaria fino a Ifrane. In questa località, dove i tetti delle case hanno delle sorprendenti tegole rosse, si può facilmente avere l’impressione di non essere più in Marocco, ma in una località di villeggiatura montana. A pochi chilometri di distanza da Ifrane c’è anche Mischliffen, una famosa località sciistica con due impianti di risalita degni della confederazione elvetica, il posto ideale per sfoggiare finalmente la tuta rossa da discesa del Lungagnone. Si viaggia sempre su quote rispettabili. Nei pressi del passo di Jbel Hebri, che svetta con i suoi 2104 metri, facciamo una sosta per immortalare su pellicola questo strepitoso paesaggio. Il silenzio è interrotto solo dalle folate del vento. Un urlo all’improvviso scuote l’aria. La voce proviene da una tenda nera piazzata vicino a un dirupo a cinquecento metri da noi. Un tizio, non si capisce se uomo o donna, giovane oppure anziano ci sta facendo dei cenni d’invito. Accettiamo entusiasti, anche se il sentiero è piuttosto ripido per una moto pesante come la sottoscritta. E’ un anziano con un’età tra i settant’anni e gli ottanta completamente intabarrato nel burnus, l’abito tradizionale dei berberi. L’uomo che vive con una donna molto più giovane di lui, accoglie il Lungagnone con cordialità. E’ l’ora del tè e il tè in Marocco non è solo una bevanda: prima del pranzo dà appetito, dopo pranzo aiuta a digerire, tiene compagnia ed aiuta a socializzare. Anche la preparazione è un rito. Le foglie vengono messe direttamente nella teiera rovente dove viene aggiunta un po’ d’acqua. Il contenitore viene ruotato energicamente per alcuni secondi e l’acqua buttata via facendo attenzione a non perdere le foglie del tè. E’ il momento di aggiungere la menta fresca, lo zucchero e, di nuovo l’acqua bollente in infusione per sette otto minuti. Ora per l’anziano signore è il momento di dare spettacolo versando il tè da un’altezza ragguardevole direttamente nei bicchieri di vetro alti e stretti. Questa operazione serve per far formare sulla superficie della bevanda la caratteristica schiuma. Dopo aver ringraziato, rientriamo sulla statale 21 e riprendiamo la manovra di avvicinamento verso il Sud. La temperatura resta accettabile fino a Midelt, poi il caldo incomincia a farsi sentire. Per fortuna il paesaggio circostante, siamo nelle gole dello Ziz, è straordinario. Superato il Tunnel del Legionario, costruito dai francesi, fiancheggiamo lo splendido lago artificiale Hassan Addakhil ed entriamo nell’ordinata e moderna città di Er Rachidia. Il Tafilalt è una regione di oasi. Fu una delle ultime ad arrendersi ai francesi all’epoca del protettorato nel 1932. Due anni dopo il Marocco fu considerato ufficialmente “pacificato” e per fare in modo che questa situazione non venisse alterata fu costruita Erfoud, sede amministrativa e guarnigione da cui tenere sotto controllo le tribù del Tafilalt. Oggi la polverosa Erfoud non è particolarmente interessante, ma rappresenta la porta per addentrarsi nel deserto. Il Lungagnone, fradicio di sudore, rischia un colpo di calore nei quarantacinque gradi all’ombra di questa città e saggiamente ripara in un fresco albergo con piscina, mentre la sottoscritta rimane parcheggiata sul piazzale davanti all’albergo rischiando la fusione delle plastiche. Facciamo la conoscenza con un coppia di motociclisti di Bassano del Grappa. Giovanni e Silvana sono diretti verso la Valle del Draa, mentre noi questa mattina, dopo la sveglia alle cinque, tentiamo una sortita nel deserto vero delle dune di Erg Chebbi. Ci accompagna un giovane marocchino con una sferragliante Land Rover molto datata color sabbia. Il Lungagnone aveva fatto di tutto per dribblare le insistenze del procacciatore d’affari, ma alla fine il simpatico magrebino lo aveva convinto, per sfinimento. Appena fuori città, la strada per qualche chilometro continua ad essere asfaltata, poi enormi buche annunciano che la strada, che continua il suo corso, deve essere abbandonata a favore dello sterrato creato dai mezzi di passaggio che scorre parallelo al vecchio tragitto. La pista dura è percorribile anche per una stradista puro sangue come me, ma dopo una ventina di chilometri la musica cambia. Dal fondo color terra, le macchie giallastre di sabbia aumentano, fino ad appropriarsi completamente della pista. Sento aumentare considerevolmente il battito cardiaco del Lungagnone ogni volta che la ruota anteriore sprofonda di qualche centimetro nella sabbia. Il Lungagnone non ha il coraggio di dare gas come dovrebbe con il risultato che appena il fondo diventa più soffice voliamo gambe all’aria. Per fortuna c’è il nostro Lawrence d’Arabia che ci aiuta. Arriviamo alle grandi dune di Merzouga dopo quattro insabbiamenti e tre cadute, ma soddisfatti. Davanti alle dune c’è una specie di posto di ristoro per umani, mezzi meccanici e animali. All’interno, mentre le pale di un grosso ventilatore muovono l’aria torrida pregna di miliardi di mosche appiccicose, un barman avvolto in un sudario bianco distribuisce coca cole tiepide. Hassan, oltre a gestire il bar, si occupa anche delle camere, anzi della camera che consiste in un posto sul terrazzo del locale. “Amico. Per dieci dollari posso affittarti un posto per dormire, compresa la coperta e il cuscino, sotto le stelle”. Visto che siamo sprovvisti della tenda e di dormire sul Land Rover non se ne parla, la trattativa si chiude immediatamente con un sì. Il popolo del deserto composto da quattro tedeschi, due australiani e tre marocchini non tarda ad arrivare. Hassan per cena ha preparato una tajine di carne di montone con le verdure per tutti, poi tutti gli umani si ritirano sul tetto della stalla (lo era originariamente) che registra il tutto esaurito, mentre io faccio compagnia a una coppia di rumorosi e puzzolenti dromedari. Partiamo per Erfoud all’alba e raggiungiamo Er Rachidia alle nove giusto in tempo per un tè bollente. Arrivati a Tinerhir svoltiamo a destra verso le gole del Todra. Percorriamo una valle fertile punteggiata di villaggi con le case in mattoni di fango circondata di spoglie montagne irte di guglie. Ad un certo punto la valle si stringe fino a diventare una gola di roccia percorsa solo dalla strada e da un fiume dalle acque cristalline. Il luogo, molto suggestivo, offre anche un posto di ristoro incastonato tra le rocce. L’intenzione del Lungagnone era quella di fermarsi qui per la notte, ma dopo il pranzo, visto l’affollamento di turisti, decide di continuare il viaggio. Percorriamo la pista che conduce verso Imilchil con l’intento di raggiungere le gole del Dades, che qualche pazzo aveva detto si potesse raggiungere anche da questa parte, ma al bivio di Tamtattoucht, un piccolo villaggio, ci confermano che la strada, percorribile solo con 4×4, più avanti è interrotta. Rientriamo verso Tinerhir e raggiungiamo Boulmane Dades lungo la bella strada asfaltata ed entriamo nella valle. Il fondo stradale è molto sconnesso, ma percorribile per una moto cittadina carica di bagagli come la sottoscritta. Saliamo di quota per venticinque chilometri lasciandoci alle spalle numerose kasbah e piccoli villaggi. Dopo Ait Oudinar la gola si stringe e sale vertiginosamente lungo una pietraia degna della Parigi Dakar. Per fortuna il gran premio della montagna non è lontano. E’ tardi. Il sole sta già scomparendo dietro il massiccio dell’Atlante. Il Lungagnone ha visto un alberghetto tranquillo tra due tornanti abbarbicato in cima al passo. La vista è straordinaria. L’albergatore dice non avere camere libere, ma che poco più in là, in un edificio in costruzione, ci potrebbe affittare una camera pulita a poco prezzo. Il futuro albergo, a parte le finestre che dovrebbero arrivare tra un mese, è praticamente finito. Nel ricovero non ci sono mobili, la hall deserta sarà il mio garage, le scale non hanno protezione e mancano tutte le porte interne fatta eccezione della camera del Lungagnone che si affaccia verso valle regalando attraverso l’ogiva vuota della finestra una veduta stupenda. Anche il ristorante non “è ancora pronto” ma c’è un po’ di pane che insieme al tonno in scatola portato dall’Italia sarà la cena per stasera. La porta d’entrata viene chiusa con un chiavistello bloccato da un lucchetto dall’esterno. Praticamente siamo gli unici ospiti dell’albergo e siamo chiusi dentro. L’oscurità si impadronisce rapidamente della gola e nell’albergo non si vede a un palmo. Per risolvere il problema basterebbe accendere la luce, peccato però che la corrente elettrica non sia ancora stata allacciata. Rimane la lampada frontale a pile del Lungagnone, ma a giudicare dalla luce fioca che emana anche lei si sta esaurendo. Presto saremo al buio. Buio completo. L’oscurità ha sempre spaventato gli esseri umani. La situazione è cambiata dopo la “scoperta” del fuoco. Risolto il problema di come produrlo, controllarlo e mantenerlo, l’uomo ha avuto più o meno 500.000 anni di evoluzione. Caro Lungagnone hai alle spalle 5.000 secoli di scoperte. Domani mattina vedi di comprare delle pile nuove. Dopo essere rientrati a Boulmane Dades puntiamo decisamente verso Ouarzarzate. La città fondata dai francesi nel 1928 oggi ha più di trentamila abitanti. Non ha molto da offrire fatta eccezione per alcuni alberghi di lusso e per la kasbah più famosa del Marocco. Ait Benhaddou per la sua bellezza è stata scelta più volte dai registi per i propri film. Il Lungagnone non ha ancora deciso se scendere verso Sud, seguendo la valle del Draa fino a Zagora e rischiare un colpo di sole oppure se puntare verso Marrakech. Il destino decide per lui facendogli incontrare per la seconda volta Giovanni e Silvana, la coppia di motociclisti di Bassano del Grappa incontrata a Erfoud. L’incontro di due motociclisti è sempre un evento. La moto, vale a dire io e le mie simili, unisce gli esseri umani come poche altre cose al mondo. Noi rappresentiamo la realizzazione dei loro sogni. Sopra di noi si sentono “Cavalieri Erranti” in cerca di avventure su territori inesplorati. Noi riusciamo a tirare fuori tutto il loro valore e con noi ogni giorno di viaggio rappresenta tutta una vita. La moto offre una visione diversa del mondo, più diretta, meno invadente, un vero e proprio catalizzatore di emozioni. Giovanni e Silvana, dopo giorni e giorni di caldo insopportabile, stanno andando a Marrakech per rilassarsi in un albergo confortevole e noi li seguiremo. Lasciata alla spalle Ouarzazate, la strada inizia a salire verso il Tizi n’ Tichka, uno dei valichi più alti del Marocco. La cima di questo passo è un vero e proprio spettacolo. Da brividi anche la strada che per alcuni tratti non ha parapetti di protezione e scorre in bilico tra le vedute mozzafiato delle vallate circostanti. Marrakech, la città rossa, fondata più di mille anni fa, ci accoglie tra le sue mura e i suoi palazzi color ocra. Colpisce immediatamente l’immensa piazza Djemaa el-Fna nel cuore della città. Posizionata nella medina, vicino al quartiere dei suq e alla moschea della Kutubiya. Non è nota l’origine di questa piazza né, con certezza, l’origine del nome che potrebbe significare “l’assemblea del defunto” come pure la “moschea del nulla” (jama‘a significa sia moschea sia assemblea). In realtà entrambe queste differenti etimologie sono plausibili: se da un lato la piazza faceva parte di un progetto dei saaditi (mai concluso) relativo all’edificazione di una moschea, dall’altro nei secoli passati la piazza fu sede di esecuzioni capitali. Infatti oggi viene chiamata anche piazza degli impiccati. L’aspetto della piazza cambia durante la giornata: di mattina e pomeriggio è sede di un vasto mercato all’aperto, con bancarelle che vendono le merci più svariate che vanno dalle stoffe, ai datteri, alle spremute d’arancia, alle uova, alle olive e alla frutta in genere e da “professionisti” dediti alle attività più svariate: le decorazioni con l’henné, i cavadenti, suonatori, incantatori di serpenti, venditori di acqua e procacciatori di ogni genere. Verso sera le bancarelle lasciano il posto ai banchetti con tavole e panche per mangiare cibi preparati al momento. Sul tardi arrivano anche musicanti, cantastorie e saltimbanchi. Se volete guarire da qualsiasi male, sulla piazza è in vendita una pozione preparata al momento, la stessa cosa per chi ha intenzione di cancellare dalla faccia della terra un nemico. Abili “erboristi” possono preparavi anche un filtro d’amore che farà cadere l’amata tra le vostre braccia. Djemaa el-Fna è una specie di piazza dei miracoli. Una delle cose più stupefacenti che sia mai capitata al Lungagnone è stato l’incontro con un’ammaliatrice di uomini. Non potevo credere ai miei occhi. Una giovane donna completamente velata gli si è avvicinata con una scusa e dopo avergli preso la mano ha iniziato a guardarlo dritto negli occhi. Gli occhi bellissimi di queste donne sono delle armi di seduzione affilate come rasoi. Il velo poi, li rende ancora più magici e misteriosi. La trappola consiste nel convincere il malcapitato a comprare merci di vario genere che un complice mette in mostra su una bancarella. Il Lungagnone, sul punto di capitolare, si è salvato sul filo di lana. Silvana ha convinto Giovanni ad acquistare un riccio chiuso in una piccola gabbia. Il povero animale in Marocco viene venduto come cura per alcune malattie dei bambini. In poche parole finisce in pentola. Pochi dirham per salvare una vita. I tre italiani si allontanano dal mercato con la bestiola in un piccolo cartone. Ribattezzato Edmond Dantes verrà liberato nell’immenso parco dell’hotel dove alloggia il trio. Il riccio un po’ smarrito rimarrà qualche minuto sul prato ad annusare l’aria poi, senza indugi scomparirà nella fitta vegetazione. Le moschee marocchine sono interdette ai non musulmani. E’ un vero peccato perché la Koutoubia a giudicare dall’esterno, l’edificio è alto settanta metri, deve essere molto bella. Un vero gioiello anche la grande Moschea di Ali Ben Youssuf costruita nella seconda metà del XII secolo dall’omonimo sultano almoravide. Accanto a questa moschea c’è la Medersa omonima, che è il più grande collegio teologico del Maghreb. Interessanti anche la Moschea Mouassine e la Moschea Ben Salah. Il più famoso dei palazzi di Marrakech è il Palazzo el-Badi voluto da Ahmed al-Mansour ed eretto tra il 1578 e il 1602. All’epoca lo chiamavano “l’Incomparabile” per la sua bellezza; venne realizzato con marmi italiani e altri materiali preziosi provenienti dall’India. Oggi è quasi in rovina, quel che rimane è un’enorme piazza circondata da mura che racchiudono un aranceto e alcune vasche moderne di cemento.
Il Lungagnone deve incontrarsi con Hassan, un marocchino amico di amici italiani. Non è facile trovare in una grande città come Marrakech una persona con un nome tanto comune e un indirizzo scritto in italiano. E’ solo per un colpo di fortuna se il tassista cercando informazioni lungo le torride vie della città si imbatte proprio in un individuo che, caricati tutti i bagagli sulla sua auto e in procinto di partire per le vacanze, alla domanda: “Hassan abita da queste parti?” risponda: “Sono io Hassan, chi mi cerca?” “Italiani”. Poi rivolgendosi ai due centauri: “Quanti giorni vi fermate a Marrakech?” “Tre” “Molto bene sono a vostra completa disposizione” aveva esclamato un secondo prima di incominciare a scaricare i bagagli davanti alla moglie esterrefatta. Hassan è il classico marocchino che sa tutto di tutti. E’ gentile, simpatico ed è grazie a lui se i tre italiani vengono in contatto con i luoghi frequentati solo dai locali. Naturalmente Hassan ha convinto il Lungagnone ad acquistare alcuni Kilim di produzione locale ad un prezzo da vero affare. Una cosa è certa. Su tutte le trattative ha una piccola provvigione, ma è onesto. Riprendiamo la strada dopo quattro giorni di riposo. Le temperature della costa del Marocco sono molto diverse da quelle dell’interno. La nebbia ricopre per tutta la mattinata la strada litoranea. Il fenomeno dipende dall’escursione termica dell’aria fresca dell’Oceano Atlantico che incontra quella torrida del deserto. Essaouira ha una magnifica spiaggia battuta dal vento e la cittadella fortificata è il luogo ideale per rinfrescare le idee del Lungagnone che dopo aver sudato le fatidiche sette camicie non vedeva l’ora di camminare per le strette vie della città vecchia indossando un bel maglione di lana. Ci lasciamo alle spalle Essaouira e l’isola di Mogador per raggiungere in serata Agadir che dista circa duecento chilometri. La città oltre ad essere un importante porto commerciale e di pesca ruota intorno al turismo di massa in cerca di sole, mare e spiagge, ma non piace per niente al Lungagnone, che dopo la sosta notturna punta decisamente verso Sud. Ad un centinaio di chilometri troviamo un simpatico alloggio in un piccolo albergo a gestione familiare a Tiznit. La Città, racchiusa da una cinta di mura di fango rosso lunga sei chilometri, ha l’aspetto di una città antica. In realtà è stata creata in epoca abbastanza recente, ma è molto piacevole soprattutto nel tardo pomeriggio quando la massa dei turisti provenienti dalla vicina Agadir se ne sono andati. A quindici chilometri da Tiznit c’è la bella spiaggia di Aglou sempre battuta dai forti venti Atlantici. Il Lungagnone vorrebbe approfittare del luogo per fare il primo bagno marocchino, ma appena messo piede in acqua si rende conto della temperatura proibitiva dell’Oceano Atlantico e della forte e pericolosa risacca. La strada che conduce verso Sidi-Ifni, avvolta da una densa e umida nebbia è molto pittoresca. La città, un ex enclave spagnola, risale in parte agli anni trenta ed è una mescolanza di art decò spagnola e stili marocchini tradizionali. In meno di quaranta chilometri il paesaggio cambia completamente. Goulimime è una piccola città polverosa che è solo l’ombra di quello che doveva essere in passato quando gli “uomini blu” arrivavano tutte le settimane dal deserto per vendere e acquistare cammelli nel suq appena fuori dal centro abitato. Oggi il mercato è in mano ai procacciatori sempre alla caccia dei clienti che vorrebbero vedere il leggendario ma inesistente mercato. E’ ora di rientrare verso Nord. Il Lungagnone, mai sazio di chilometri, ha un inderogabile appuntamento con un gruppo di motociclisti in Portogallo. La prima tappa verso l’Europa ci porta a El Jadida. Il grosso centro sulla costa Atlantica, con 150.000 abitanti, offre solo una cittadella fortificata lasciata in eredità dai portoghesi. La medina racchiusa nelle mura è un po’ trascurata, ma abitata e vivace. Ottime anche le sardine fritte. Una lunga tappa ci porta nel piccolo centro di Asilah. La piccola località ha avuto nel corso dei secoli una storia tumultuosa. I primi abitanti furono i Cartaginesi, poi arrivarono i Romani che trovandosi davanti una popolazione che, durante le guerre puniche aveva appoggiato i suoi avversari, decise di trasferire gli abitanti in Spagna e di rimpiazzarli con gli iberici. Il periodo più turbolento però giunse dopo le vittorie cristiane sull’Islam in Spagna nel XIV secolo. Nel 1471 fu conquistata dai portoghesi che eressero le mura che circondano la città. Nel 1589 fu conquistata dai marocchini, ma passò di nuovo agli spagnoli nel 1691. Nel XX secolo Asilah fu usata come base da un pirata dei selvaggi monti del Rif, Er-Raissouli, che la perse dopo la prima guerra mondiale. Oggi Asilah è un elegante centro di villeggiatura ben frequentato sia dagli europei che dai marocchini benestanti. Raggiungiamo Tangeri in poco più di un’ora. Siamo i soli passeggeri per l’Europa. Mentre aspettiamo sul piazzale del porto il traghetto che da Tangeri ci porterà verso Tarifa facciamo la conoscenza con i severi tutori della legge. Un militare, l’unico di guardia, viene verso di noi per controllare la sottoscritta e i bagagli. Ha con sé un pastore tedesco esperto nella ricerca della droga. La vecchia “carretta” arriverà tra un’ora e l’uomo fatte due chiacchiere più di circostanza che d’altro con il Lungagnone chiede se può assentarsi un attimo. Detto fatto, il militare, dopo avere legato il guinzaglio del suo fedele quadrupede al mio telaio se ne va. La “Nave” attracca alla banchina e dopo aver scaricato due automobili, un camion e tre biciclette è in attesa del nuovo carico, vale a dire noi. Un marinaio ci chiama a gran voce e non ottenendo nessuna risposta viene verso di noi e dice: “ Potete salire, ma il cane resta qui”. Tawil si guarda attorno, ma della guardia non c’è nemmeno l’ombra. E’ difficile spiegare ad un marinaio marocchino che il pastore tedesco non è nostro, oltretutto il povero cane legato da più di un’ora sotto il sole non ha un’aria molto rassicurante. Per fortuna dopo un brutto quarto d’ora il legittimo proprietario ritorna a prendere possesso dell’animale. La chiatta impiega tre ore per doppiare Punta Marroqui e raggiungere Tarifa. La banda dei motociclisti italiani ci aspetta a Faro e tutti insieme raggiungiamo Sagres e il Cabo de Sao Vicente. Lasciamo il Portogallo battuto da un vento gelido per l’Italia che raggiungeremo in tre tappe da mille chilometri ciascuna. Sull’Appennino ligure la temperatura cala paurosamente. E’ il momento giusto per il Lungagnone di indossare ancora una volta la famosa tuta rossa della BMW. E’ l’ultima volata verso casa dopo quasi diecimila chilometri percorsi. C’è solo il tempo per vedere esplodere la cucitura sulla schiena della famigerata tuta rossa del Lungagnone per un colpo di vento, poi a casa coperta di gloria e con la convinzione che il sibilo della mia pompa benzina rimarrà per tanto tempo nell’orecchio del Mio Lungagnone. Un sibilo per l’eternità.