Dal mio libro: Le Moto Raccontano
Marocco, Mauritania e Senegal, agosto 2001
Ci sono città che trasmettono sensazioni forti. Metropoli come New York, Londra, Bangkok ti fanno sentire piccolo come un microbo, Roma, Parigi, Vienna trasudano storia. Dakar per gente normale può significare solo un importante porto commerciale sulla costa dell’Africa Occidentale e niente più, ma per i motociclisti è ben altra cosa. Chi arriva laggiù dopo diecimila chilometri di piste desertiche infuocate può ben dire: “Io c’ero!” Ne ho conosciute tante di motociclette che hanno corso nella mitica Paris/Dakar, alcune spremute fino all’ultima goccia d’olio, altre rovinosamente ammaccate e rappezzate con il fil di ferro, ma tutte ugualmente felici di aver partecipato all’evento più famoso del mondo. Tawil non parte certamente con idee bellicose, tipo gare, record da battere e altre cose del genere, ma semplicemente per godersi tutte le mutazioni della strada, della gente, dall’Italia fino nel profondo dell’Africa. Una cosa è certa: “ci sarà da divertirsi”.
Io e lui faremo una volata fino a Tangeri in solitaria, poi ci uniremo ad altre due moto: una BMW 1150 GS ed una Honda Africa Twin, il nome una garanzia! Ci accompagneranno nel viaggio due simpatiche coppie accomunate dalla medesima passione per le due ruote, ma molto differenti fra loro. La prima formata da Massimo e Manuela, coppia esperta di viaggi, ben rodata, maritata e affiatata, conosciuta anni fa durante un viaggio in Iran; la seconda, Livio e Tatiana, al primo vero viaggio in moto.
Per una enduro classica come me, percorrere duemila chilometri di autostrada, lungo Francia e Spagna non è il massimo. Il motore sembra “bloccato” intorno ai cinquemila giri e le rare soste per il rifornimento non sono certamente un sollievo. Il sole di agosto si abbatte come un maglio sulla finta pelle della sella e le mie plastiche cotte a puntino non vedono l’ora di ripartire. L’unico che si diverte nonostante il caldo brutalizzante è Tawil. I suoi ritmi sono dettati dalla strada e dai bisogni primari come mangiare, bere, dormire e non rimanere senza benzina, man mano che passano i chilometri lo sento sempre più leggero, segno che ha staccato “la spina” dai problemi quotidiani e di tanto in tanto canta con passione, intensità e così stonato da far accartocciare i miei adesivi sul serbatoio. Un uomo felice!
Sfilano come in un film Barcellona, Tarragona, Valencia, Almeria fino a Tarifa famosa per il windsurf e per essere lo spartiacque fra l’Oceano Atlantico e il Mar Mediterraneo. La cena a base di pesce è ottima e il fresco vino locale Manzanilla è tanto abbondante che il “Mio Cavaliere” batte in ritirata un po’ intontito, per non dire ubriaco fradicio, in una posada del centro. La notte è lunga e rumorosa, gli spagnoli si sa sono gente allegra che non dorme mai. La mattina un vento fresco e teso cerca invano di rallentare la corsa del vetusto ma efficiente traghetto che collega il Vecchio Continente all’Africa. Sbarcati nel porto di Tangeri, numerosi abitanti si offrono per aiutare Tawil nelle pratiche doganali. Un giovane simpatico dal volto deturpato da un’emiparesi è il “nostro uomo”. In pochi minuti risolve il problema e riconsegna i documenti vistati accompagnati da una fresca aranciata marocchina, in cambio di una piccola mancia. Fantastico! Entriamo in città, Tawil chiede informazioni lungo la via: “Un hotel vicino al porto, pulito, che non superi le trentamila lire a notte e soprattutto, che non mi rubino la moto”. La risposta, in un italiano stentato ma abbastanza comprensibile: “Posso salire sulla moto?” Mohammed ci guida negli stretti dedali della casba tangerina fino ad una pensione arroccata in cima a una salita che domina la città. “La camera è disponibile e abbiamo anche un guardiano per la moto, per la modica cifra di quarantamila lire tutto compreso” dice il proprietario. “Trentacinquemila compresa la colazione e cinquemila per l’aiuto di Mohammed” risponde Tawil. “Benvenuto in Marocco” rispondono in coro i due. “Il Marocco è un grande paese” ribatte Tawil divertito.
Rimango parcheggiata in strada, di fianco ad un vecchio motocarro Ape che puzza terribilmente di pesce. L’equilibrio è precario vista la forte pendenza del manto stradale e il cavalletto tende a scivolare verso il basso. Su un gradino c’è il guardiano “piedi neri” senza scarpe, che scruta serio l’orizzonte sgombro di lestofanti. Un rudimentale muretto mi separa dal giardino dell’hotel. All’interno intorno a una bella fontana ci sono cinque giovani marocchini che bevono té. Sono arrivati dalle città del Sud per godersi il fresco di Tangeri e l’hascisc dell’altopiano del Rif. Le droghe, anche le leggere, sono illegali in Marocco, ma devo dire che il gruppetto ha molta classe: hanno svuotato del tabacco delle normalissime sigarette, successivamente riempite con il medesimo tabacco e “altro” e se ne stanno lì a fumare come dei lord inglesi, incuranti delle nuvole di fumo dolciastro che sollevano. Di tanto in tanto posso vedere anche Tawil che prende aria dal balcone della sua camera. Respira a pieni polmoni l’aria frizzante di questa città di mare, anche se l’aria non dev’essere un granché visto che il balcone è proprio sopra il tavolino dei cinque “Gentleman”.
Scende la notte, passano le ore scandite dalle preghiere del muezzin dal vicino minareto. Alle cinque arriva un anziano signore avvolto nel suo burnuss, inforca la MotoApe e si avvia di gran lena verso il porto per il quotidiano carico di pesce. La nave traghetto arriva puntuale alle dieci del mattino e pochi minuti dopo le due moto escono dalla dogana e il gruppo si ricompatta. La traversata è stata tranquilla, ma dopo due giorni di stiva a quaranta gradi i mezzi scalpitano per partire. La mastodontica BMW con bauletto e borse laterali in alluminio guida la comitiva seguita dall’Africa Twin stracarica di bagagli, io chiudo il gruppo. In vita mia non ho mai visto moto tanto cariche, che Allah grande e misericordioso ci protegga!
E’ il mio primo viaggio in questo meraviglioso paese, mentre per Tawil, che conosce il Marocco come le sue tasche, è la quinta volta. Lungo la costa le strade sono buone, c’è anche una stupenda autostrada che in poche ore ci consente di percorrere più di cinquecento chilometri. Passiamo Kenitra, le belle spiagge di Mehdiya, Casablanca per una visita alla grande moschea di Hassan II fino a Marrakech, dove rimango sbalordita dalla moltitudine umana che anima la famosa piazza Jamel Fna. Saltimbanchi, incantatori di serpenti, venditori di elisir, bancarelle gremite di cibo, banchi di frutta, datteri, olive, arance. Non esiste cosa che non si possa trovare in questa piazza. Si avvicina una donna, un velo le nasconde il viso, ma gli occhi sono come due pozzi scuri in cui è facile precipitare e perdersi. Legge la mano e vende intrugli di ogni genere. “Vuoi fare innamorare una donna, diventare ricco, guarire da una malattia?” dice la donna puntando gli occhi addosso agli umani. Per quanto mi riguarda non ho desideri da chiedere. Ho un “Gran Cavaliere” che mi accompagna, viaggio, la cosa che più mi piace al mondo, e “scoppio” di salute visto che la benzina è ottima, il filtro dell’aria pulito, la batteria in piena carica, le gomme in ordine e l’olio al giusto livello, ma un giro… Tawil permettendo, te lo farei fare volentieri bella mia. Le estati marocchine sono strane: caldo torrido a Marrakech e freddo ad Essaouira sulla costa avvolta dalle nebbie. Puntiamo decisamente a Sud, fino a Tiznit, Goulimime e Tan Tan, la vera e propria porta del deserto. Le distanze tra i villaggi si dilatano. La vegetazione tende a scomparire lasciando spazi sempre maggiori alla sabbia. La costa è frastagliata e punteggiata da numerosi e sinistri scheletri di navi incagliate sulla battigia, testimoni di antiche tragedie. Facciamo sosta per la notte a Laayoune, una cittadina anonima zeppa dei militari che sorvegliano “il muro”. Il muro, lungo duemilacinquecento chilometri, è stato costruito dal governo marocchino per separare l’ex Sahara Spagnolo dal resto del paese. La zona è sotto il controllo del Polisario, vale a dire il Fronte di Liberazione, e sorvegliata da ingenti forze militari internazionali che fanno in modo che tra i due fronti non ricominci la guerra. La città non offre molte possibilità per dormire. Ci accontentiamo di un vecchio e polveroso albergo, che il proprietario riapre per lo speciale evento: il nostro arrivo.
La cucina dell’albergo, o almeno ciò che ne resta, è un disastro: i piani cottura sono completamente arrugginiti e per fortuna scollegati dalla rete del gas. I frigoriferi trasformati in ripostigli danno l’impressione di essere stati abbandonati da anni e da un grosso buco nel muro che dà sulla strada c’è un via vai di topi giganti dal pelo grigio perla, da far impallidire qualsiasi gatto. A giudicare dall’aspetto sano e ben pasciuto i roditori non sono pericolosi, è solo la nostra presenza che li incuriosisce. La notte fresca passa in fretta ed io sono ben contenta di non essere commestibile. All’alba arrivano i nostri. A giudicare dalle facce, non devono aver dormito granché. Sono tutti felici di lasciare questo posto. “Non è la prima volta che dormo in una camera in compagnia di animali striscianti di vario genere, ma non mi era mai capitato di trovare centinaia di luccicanti scarafaggi dentro il letto” dice Tawil. “Già, bella forza, il letto era casa loro, gli intrusi eravamo noi” ribatte Massimo. La costa è battuta da un vento poderoso che spazza via la nebbia. Altissime dune di sabbia bianchissima invadono la carreggiata e ci costringono a zigzagare. Il paesaggio è straordinario, l’unico inconveniente è che il mio filtro dell’aria è di nuovo intasato. A Dakhla si respira aria di frontiera. Il convoglio, vale a dire il gruppo di mezzi che i militari accompagnano verso il confine Mauritano, si forma solo due giorni alla settimana. L’orario di ritrovo è molto elastico, le pratiche noiose ed inutili. Durante la sosta faccio conoscenza con un’automobile BMW nuova di fabbrica. E’ una coupé nera con un motore di grossa cilindrata a benzina, uno scarico da far invidia ad una formula uno e gomme a spalla bassa racing assolutamente poco indicate per il deserto. “Il mio proprietario mi ha consegnata ad un cittadino marocchino che si è fatto di gran carriera i quattromila chilometri da Torino fin qui. Domani passerò la frontiera con i documenti in regola e verrò venduta ad un ricco commerciante. Fra qualche giorno in Italia verrà fatta la denuncia per il furto e in seguito incassato il controvalore dall’assicurazione. Ed io … entrerò a far parte del gruppo delle clandestine. La cosa che più mi rattrista è che non uscirò mai più da questo paese”. La sosta per la notte è in pieno deserto. Alcune stalle sono state trasformate in dormitori e ospiteranno “I Magnifici Cinque” vale a dire I Nostri Centauri. Gli edifici sono lunghi e stretti, hanno un’unica porta d’entrata e alcune finestrelle che fungono da presa d’aria. All’interno non ci sono mobili e man mano che arrivano, gli ospiti si accomodano sul nudo pavimento. E’ così che in poco tempo in un edificio di dodici tredici metri di lunghezza per quattro di larghezza entrano un centinaio di persone. Ci sono intere famiglie, c’è chi cucina, chi dorme, chi conversa al alta voce, ma tutto sommato il morale del gruppo è alto e l’ospitalità islamica è proverbiale tanto che ai nostri viene offerto cibo e coperte.
Una catena chiodata viene sfilata via da un simpatico militare marocchino davanti ai nostri occhi e dà il via al raid lungo la famosa pista minata che porta a Nouadhibou. A giudicare dai numerosi rottami di auto disintegrate lungo il percorso, di mine ce ne devono essere tante, ma la rotta da seguire è ben evidenziata dalle profonde tracce nella sabbia e non percepisco un vero e proprio pericolo. Arriviamo alla dogana, che consiste in una tenda sbiadita occupata da scalcinati militari mauritani. In pochi minuti i passaporti sono vistati e possiamo riprendere il viaggio. “Andate piano e non uscite dalla pista per nessun motivo, neanche per fare pipì” ci apostrofa un gendarme. Gli ottanta chilometri della via sono abbastanza impegnativi per l’inesperto Livio e la sua Africa Twin, mentre per la GS BMW e la sottoscritta non ci sono problemi. La temperatura sale fino a quaranta gradi, ma in poco più di tre ore siamo di nuovo sull’asfalto. Ci dà il benvenuto un distinto signore del luogo, che guarda caso è anche il proprietario di un campeggio. Un muro di cinta da far invidia a un carcere di massima sicurezza delimita il perimetro di un cortile sabbioso. Le camere sono spartane e torride, ma accoglienti, e una ripida scala conduce su un pianerottolo dove c’è una specie di mensa aziendale. Il gruppo può finalmente ordinare cibo e bevande. I prezzi sono degni del miglior ristorante segnalato dalla guida Michelin, ma la qualità, a giudicare dalla faccia di Tawil, pare invece scadente. Facciamo la conoscenza di un viaggiatore solitario. E’ alla guida di una pesantissima Volvo Polar familiare bianca, diretto in Senegal, dove intende acquistare una casa e lasciare la vettura per usarla durante le vacanze. “Sette Camicie” è il suo soprannome, ha viaggiato parecchio e si unirà al nostro gruppo per attraversare l’infuocato deserto che ci separa da Nouakchott, la capitale Maura. Da qualche anno nessuno può attraversare il deserto del parco dell’Arguin senza guida e le trattative per assoldare una jeep e il conducente sono serrate. La cifra pattuita è considerevole e il malloppo è già stato consegnato ad un signore anziano che ci indica l’autista. Il giovane viene trattato con molto rispetto dal gruppo, ma appena si cerca di pianificare il viaggio, scoppia il caos. L’autista dice di avere fretta e di voler arrivare a destinazione guidando giorno e notte senza sosta. Inutili le proteste di Tawil e Massimo, che si rifiutano di guidare nel deserto con il buio. La situazione precipita, interviene il boss anziano, che comprende le nostre perplessità, ma non ne vuole sapere, tanto che restituisce i soldi offesissimo, con lo stupore di tutti. Esiste un’altra possibilità: il treno più lungo del mondo, tre chilometri di vagoni caricati di carbone, parte ogni giorno da Nouadhibou per Chom. Di tanto in tanto al convoglio viene attaccata una piattaforma su cui è possibile caricare moto e auto. La Mauritania è considerata dai paesi vicini un covo di briganti. Basta dare un’occhiata a quello che succede dalle parti della stazione per capire che ciò corrisponde a verità. Un uomo gentile promette di aiutarci. E’ il tipico “amicone”. Per intenderci, è un individuo che a suon di “ci penso io” e “non vi preoccupate” ci sta letteralmente depistando per interesse personale. Mi avvicino ad uno dei tre locomotori che è in vena di confidenze. Borbotta: “Sono vent’anni che ogni giorno vado avanti e indietro, trentacinque ore a tratta. Io che sono stato costruito unicamente per lavorare su questa linea, conosco una per una tutte le traversine, gli avvallamenti, le dune del deserto e faccio una gran fatica su queste rotaie parzialmente coperte dalla ruggine e dalla sabbia ma, non mi lamento per questo: l’unico mio cruccio è il disagio che devono affrontare i minatori che mi accompagnano quotidianamente. Non solo devono viaggiare seduti “comodi” su cumuli di carbone, dentro i vagoni, senza nessuna protezione, esposti all’aria ed alle intemperie, ma sono trattati anche con disprezzo. I Mauri Bianchi usano i Mauri Neri come schiavi rivendicando la loro posizione sociale più elevata: è insopportabile! Se ne avessi la possibilità, farei saltare in aria la mia caldaia e quella dei miei fratelli, per protesta, poi vediamo chi trasporta il carbone! Parlo, parlo, parlo in continuazione, ma la situazione non cambia. Scusami per lo sfogo, ma tu, che fai parte dell’area fortunata del pianeta devi sapere cosa succede qui. Il mondo intero deve sapere. Non vi dimenticate di noi, viviamo tutti sulla Terra. La terra è il nostro pianeta! Volevi qualche informazione?” “Sì, volevo sapere se la piattaforma adibita per il trasporto mezzi viene attaccata al tuo convoglio?” “Certamente viene attaccata, ma state attenti alle fregature. Il capotreno è un uomo senza scrupoli”.
Questa è un’altra situazione in cui sono felice di essere una macchina. Le macchine sono state create dall’uomo per servire il genere umano. Siamo a loro disposizione, risparmiamo loro fatica, procuriamo divertimento, siamo socialmente utili, ma tra macchine esiste un codice d’onore: diciamo sempre la verità. Gli umani invece spesso utilizzano la menzogna per salvaguardare i loro interessi. Ci hanno costruito manifestando la loro superiorità, la grande intelligenza, ma si comportano ancora da primitivi manifestando la loro stupidità e naufragando in un mare di bugie. Mi piacerebbe andare dal “Mio Cavaliere” e raccontagli tutto, ma conosco i miei limiti, io non ho il dono della parola e il nostro uomo è davvero senza scrupoli e noi senza via di scampo, perciò niente piattaforma, si passa dal deserto.
L’estenuante trattativa aveva sortito il furto delle banconote messe da parte per il pagamento delle guide. Solo uno scatto da recordman dei cento metri piani di Massimo ci aveva permesso di recuperare “il malloppo” ormai saldamente nelle mani di un ragazzino che correva incredulo per l’abbondanza piovuta dal cielo. Poi, un colpo di fortuna ci fa incontrare Abdullah. Abdullah è un vecchio saggio e volenteroso, ma ha capito che siamo in difficoltà. Senza pensarci molto ha dato retta al suo cuore di uomo buono e disponibile: domani all’alba ci farà da guida. Carichiamo sul pick up la moto di Livio che era stato molto chiaro prima di partire. Aveva detto: “Non me la sento di guidare nel deserto, preferisco mettere la moto su una jeep!”
Partiamo che è ancora buio, Abdullah in testa con il suo pick up. Lui alla guida, suo nipote per le rotte, Tatiana, Livio e Manu sul sedile posteriore, io e Tawil, Massimo e la sua GS; chiude il gruppo “Sette Camicie” e la sua Volvo Polar carica di bagagli, acqua e carburante. I controlli militari ci fanno perdere tempo prezioso, manca anche un documento, altre tre ore perse. Finalmente lasciamo la pista polverosa che costeggia la ferrovia e ci addentriamo nel deserto. Tawil chiede ad Abdullah di seguire una pista dura visto che la Volvo non è molto adatta alla sabbia, ma “il vecchio” per paura di rompere qualche prezioso organo meccanico segue il suo istinto e si tuffa nel mare di sabbia. Sono passate da poco le dieci e siamo quasi a quaranta gradi. La sabbia che fino ad ora aveva tenuto, con l’aumentare della temperatura diventa soffice procurandoci numerosi insabbiamenti. E’ un calvario. Si procede a passo d’uomo. La GS armata con gomme stradali affonda fino al cardano costringendo Tawil e lo stesso Massimo a sforzi da Superman. Per la Volvo la situazione è ancora peggiore: sabbia fino a metà portiere, uso obbligatorio delle piastre d’alluminio e i due “minatori riders” che abbandonati i mezzi nel nulla, vestiti di tutto punto, scavano in ginocchio con le mani all’impazzata grondando sudore a litri. Quando a mezzogiorno un vento impetuoso trasforma il deserto in un luogo arido dalla visibilità zero e i gradi centigradi superano i cinquanta la situazione si fa disperata. Passano altre due ore tra affanni, sudore e sbuffi di vapore dal radiatore. Poi è il turno della terribile spia rossa “accesa” sul mio cokpit che segnala inesorabilmente a Tawil: “attenzione, se continui così, il motore esploderà!” Il fantasma di un piccolo albero solitario e malandato ci offre un esile riparo dai raggi del sole. Il gruppo è sconvolto ed apparentemente in fin di vita. I due “Cavalieri” hanno il viso deformato dalla fatica di un bel colore bordeaux acceso ed anche i passeggeri del pick up non stanno bene. Ripartiamo, dopo pochi minuti, un enorme erg ci sbarra la strada. Non abbiamo scelta: dobbiamo attraversarlo! La pesante GS si insabbia più volte, ma passa. E’ il turno della Volvo che affonda inesorabilmente. Dopo un’ora di fatica al limite della sopravvivenza il gruppo si ricompatta su un tratto roccioso. Tawil chiede ad Abdullah: “Quanto manca alla sosta?” “Dodici chilometri oltre quella duna c’è un passaggio a destra” risponde la guida. Tawil, Massimo e “Sette Camicie” si guardano per un istante, poi il “Mio Cavaliere” con un filo di voce aggiunge: “Ragazzi non ce la faccio più. Mancano pochi chilometri, diamo tutta manetta perché non sono più in grado di fermarmi a scavare o di fare qualsiasi altra cosa” Gli altri si fissano negli occhi, poi come nella famosa scena del film di Sam Peckinpah il Mucchio Selvaggio esclamano in coro: “OK, andiamo!” “Ognuno per sé, Dio per tutti e niente prigionieri” direbbe Lawrence d’Arabia, una frazione di secondo prima che Tawil, ruotando la manopola del gas, consenta al carburante di entrare in abbondanza nel carburatore che, miscelandosi con l’aria, esplode nel cilindro liberando tutta la potenza del mio propulsore. E’ incredibile come l’adrenalina liberata in un corpo umano allo stremo possa ridare forza e coraggio. Massimo “vola” sulle dune come un veterano dei rally, “Sette Camicie” spinge il motore al limite, tanto che la Volvo avanza incurante delle scodate degne del miglior Sandro Munari ed io, che sono nata per questo, non posso certo deludere Tawil così che, in pochi minuti, tra l’esaltazione generale, siamo ai piedi di una duna immensa, dove campeggiano alcune capanne Mauritane: obbiettivo raggiunto! Il luogo è l’unico ricovero in mezzo ad un mare di niente. In una capanna un rudimentale frigorifero a gas ristora i componenti del gruppo che non sanno resistere, nonostante il prezzo sia esorbitante, alle fresche lattine di coca cola. Arrivano due jeep cariche di umanità. Ci sono anche due neonati avvolti in una coperta. I due “cuccioli” sono di carnagione scura. Il razzismo appartiene solo al genere umano. Immaginate se una moto di colorazione arancio odiasse un’altra moto solo per la colorazione verde. Entrambe hanno un motore, olio che scorre nei circuiti di lubrificazione, acqua o aria per il raffreddamento, una centralina elettronica, diverse di cubatura, età, altezza, peso, marca, ma simili. Come si potrebbe odiare una moto solo per il colore? Il colore le rende diverse? Sicuramente le identifica. E se le moto fossero tutte dello stesso colore? Grigie per esempio. Che noia! Il genere umano non capisce la fortuna che gli è piovuta addosso. Ogni essere vivente è unico. Bianco, nero, giallo, rosso, diverso il colore della pelle, ma sempre un essere vivente. Cuore, cervello, sangue, acqua, ossa, appartengono a tutti gli umani. Possono accoppiarsi, riprodursi, creare una nuova entità, a sua volta diversa dalla coppia in origine, ma sempre formata da un cuore, cervello, sangue, acqua e ossa. La vostra diversità, il fatto di essere unici, dovrebbe aiutarvi a crescere e prosperare nel rispetto del prossimo. “La bellezza del mondo sta nella sua diversità e nell’armonia degli opposti” diceva Tiziano Terzani.
Durante la notte esplodono le conseguenze dell’immane sforzo compiuto dai motociclisti. Tawil, in preda ai crampi, ha la febbre alta, e anche Massimo non sta molto bene. All’alba il “Mio Cavaliere”, che non si regge in piedi, decide di caricarmi su un grosso pick up Toyota e Massimo fa la stessa cosa con la sua BMW. Attraversiamo una zona di sabbie soffici, bellissima quanto impegnativa. Il radiatore della Volvo, sempre sotto sforzo, inizia a perdere acqua dal manicotto. Abdullah tenta una magia con una manciata di tabacco infilata nel radiatore a mo’ di turafalle. Riprendiamo la marcia, passa un’ora e il radiatore esplode. La Volvo viene rimorchiata dal pesante Toyota per la modica cifra di settecento dollari. Guardo Tawil attraverso il vetro posteriore del pick up. Ha una scatola di tonno in mano da mezz’ora, ma non riesce a mangiare. Per un motociclista come lui non essere in grado di guidare è una sofferenza ben più alta che avere la febbre. La magnifica spiaggia Atlantica è in vista, la battigia è dura e percorribile con facilità dai mezzi mauritani. Incontriamo due uomini armati di badile che ci chiedono un passaggio. Sono diretti ad un villaggio pochi chilometri a Sud, dove è morto un uomo. Il loro compito è di seppellirlo. Alle quattro del pomeriggio lasciamo il bagnasciuga, la marea sta salendo e le dune che costeggiano il mare sono invalicabili, perciò meglio cambiare pista. Nouakchoot rispecchia in pieno il suo significato di “luogo dei venti”. E’ stata fondata solo dopo la separazione di Senegal e Mauritania e costruita in una pianura fertile. Il Sahara però è avanzato di parecchi chilometri con il risultato che la città oggi è immersa nel deserto. Facciamo una breve sosta per consentire ad un “abile” meccanico, sprovvisto anche di un semplice cacciavite a stella, di riparare il radiatore della Volvo. Nonostante la totale mancanza di mezzi, ma non di intelligenza, in pochi minuti il radiatore è completamente saldato tanto da sembrare nuovo. Lungo la strada non posso non notare la sconcertante povertà in cui la popolazione Maura vive. Centinaia di bambini vivono nell’immondizia delle fognature a cielo aperto, in condizioni igieniche inesistenti. La sosta nell’albergo della capitale concede a Tawil di riprendere completamente le forze. Il viaggio continua verso Rosso, dove una rudimentale chiatta ci trasporta oltre il fiume, che funge da confine naturale con il Senegal. Le pratiche doganali sono lunghe e piuttosto divertenti. Da queste parti i turisti sono una rarità e i locali fanno a gara per regalarci la loro “disinteressata” assistenza. Fa una certa impressione il passaggio pedonale completamente circondato dal filo spinato, tutta la gente che passa appesantita da bagagli e bambini appesi alla schiena in variopinti fardelli. Passiamo la notte in un villaggio turistico lungo la costa a St. Louis, gestito da una gentilissima signora francese. I bungalow costruiti direttamente sulla spiaggia sono un’oasi di pace per il gruppo stremato dal viaggio. Dakar, la mitica città, è a meno di trecento chilometri di distanza. Abbiamo solo il tempo di fare una sosta per una pizza italiana in un ristorante gestito da Ugo, un milanese che si è stabilito in Senegal da diversi anni, che ci invita alla prudenza dicendo: “Ricordatevi che Dakar non è il Senegal, Dakar è solo Dakar”. La città della costa occidentale con la più alta concentrazione di gente che vive in strada ci accoglie con il suo traffico caotico e i venditori ambulanti. La cosa più impressionante sono il numero di bambini con un’età che varia dai tre ai dieci anni che vivono abbandonati e di espedienti. Tatiana, che è medico, mi fa notare come tutti siano affetti dalla bronchite e dalla scabbia.
Ciò che rimane di un’Africa Twin, preparata per la mitica Paris/Dakar e senza targa, ci affianca. Un meticcio dall’aria sorridente dà il benvenuto a tutto il gruppo e ci consiglia un albergo con la guardia armata, l’unica garanzia contro i ladri di motociclette. Tawil lo guarda un po’ sorpreso e gli chiede: “E tu come fai a sopravvivere?” “Io sono Libanese e vivo qui da anni, poi … come puoi ben vedere, sono armato!” dice alzando la T – shirt e mostrando la grossa pistola nella cintura.
Abbiamo solo il tempo di fare una volata sulle dune di sabbia morbida del lago rosa dove centinaia di mie “sorelle” fanno la passerella alla fine del rally più famoso del mondo. L’emozione è forte e mi sento battere forte in testa, ma ora, dopo seimilacinquecento chilometri, anch’io posso ben dire: “Sono arrivata! Dakar! Dakar! Dakar!”